Carlo Focarelli

6 giugno 2023 by

 

Dall’aldilà- Poesie di guerra
prefazione di Ivan Fedeli – Puntoacapo Editrice, 2023


                                

Nota di lettura di Annamaria Ferramosca  

Carlo Focarelli, autore di questo libro aperto sulle problematiche dell’attualità, oltre che sui  dubbi esistenziali comuni oggi a molti scriventi poesia, offre già in apertura della sua originale raccolta la visione di un’umanità disorientata, alla ricerca strenua di senso.

Ogni testo attraversa una interiorità tormentata e insieme questa nostra realtà con le sue numerose derive fluttuanti e l’indifferenza interrelazionale giunta oggi al diapason.

Lo scavo riguarda tutto il reale quotidiano, in miriadi di oggetti ed esseri  annotati quasi in un elenco omogeneizzato che pone ogni entità allo stesso livello, e volutamente anche il parlante, di cui non si discerne l’identità, che appare alternativamente dell’autore, o di un osservatore estraneo, o di un tu, a volte amico, a volte giudicante.

E gli accorpamenti di parole e frasi che campeggiano al centro delle pagine con la loro forte presenza, caotica e ansiosa, interrogante o assertiva, appaiono come rulli verbali che sollecitano una risposta limpida e urgente da chi ascolta. Trovo questa una forma originale di linguaggio che, pur rischiando consapevolmente l’impoeticità, sembra porsi un fine che oltrepassa la convenzionale necessità di forme codificate, ed è quello dello scavo autentico nel fondo della realtà oscura che oggi viviamo, nell’incerto della lunga notte.

Si procede per disvelamenti e contemporaneamente l’identità si palesa anche nell’io che affannosamente cerca amore, ma come sempre accade, esso sfugge, si spezza, pone difficoltà, metafora evidente di ogni relazione tra gli umani, oggi così evanescente, così trascurata.

Lo scavo continua insistendo nella disperata ricerca per angoli, zone d’ombra, sulla soglia di sogni e visioni, immergendosi pure nella dimensione dell’oltre, dove si sfiora  la percezione dell’inesistenza e l’autore diviene quasi entità sciamanica, come luminosamente percepisce il poeta Ivan Fedeli nella sua prefazione.

la mente sfuma il solido nell’aeriforme

e tu ci vivi sopra, ci veleggi

proprio come se non fossi                    pag.20

 

Si arriva così alla senzazione di essere giunti alla verità-chiave, dove si apre quella eterna spirale in cui la nostra vita è coinvolta.  E chi legge segue di certo incuriosito queste gimcane interroganti in ogni territorio esplorato, questa ricerca indomita di significato del vivere e del morire, che sempre si rivela in nonsense. Ma l’autore continua ancora a cercare senso sui territori dell’amore, che sono sempre quelli più limpidi e veri, perchè fatti di pure emozioni, dove bellissima appare la rivelazione – per via amorosa – di riconoscere in sé l’eterno uomo in errore. Così il significato della comunicazione con la donna si fa fuoco simbolico e metafora di ogni altra relazione, che, se autentica, dovrebbe guidare il cammino dell’uomo verso la luce.

la intuisci nel suo segreto

che vola, vuoi estrarla e lei

ti fa sentire la tua assenza,

carpirla abbracciarla preso

ti rovesci sul suo candore

e ti aggiri come un errore.            pag.36

Ma l’amore non basta, altre rivelazioni irrompono dall’urto con la vita. Si riconosce la corsa cieca del tempo, si accoglie l’effimero che siamo, nelle insistenti immagini di ceneri e macerie.E ritornano le scene della superficialità oggi dilagante, che erompe dalla routine dei telegiornali, dalle notizie scure e assurde della guerra, che pure, nel darsi, si piegano al dazio della tassa pubblicitaria, obbligatoria in questo nostro mondo dominato dal profitto e dell’indifferenza.

Improvvisamente il tono deflagra sul terreno di questo bellicismo protratto all’infinito, con una personale presa di posizione e un fiero contrasto esplicitato. Soprattutto è viva la denuncia dell’affievolirsi del sostegno alla libertà di coloro che preferirebbero solo mantenere il proprio benessere .e quieto vivere.

Nella successiva sezione l’analisi feroce delle storture umane prosegue fino alla decisione dell’autore di farsi assoluto visionario, quasi asceta che limpidamente prende le distanze da una inaccettabile realtà

ho collocato da parte

la materia di ogni vivente

e le sue tracce, ho astratto

quel me che ora sta dicendo

di astrarsi e ho finalmente

svuotato me stesso da me         pag.63

per giungere, dopo un’analisi di ogni imbelle comportamento umano volto alla mera conservazione di privilegi e consuetudini, a distanziarsi intellettualmente non solo dai codardi, ma perfino da se stesso,dichiarandosi poeta  in guerra con la sua amara poesia e pure dagli stessi lettori, comunque la pensino nei suoi confronti.  La denuncia dilata anche a tutte le cerchie e potentati vari del mondo letterario che vorrebbero inglobare ogni scrivente ribelle, ogni resistente.

Una scrittura dunque che, come lo stesso autore dichiara nelle sue annotazioni finali, non vuole ergersi a scrittura poetica, ma decide di configurarsi come stimolo all’uomo dell’oggi a riflettere sulla urgente necessità di assumere la responsabilità individuale e sociale dei propri comportamenti.

Auguro vivamente all’autore che il nobile scopo possa essere raggiunto, sempre e solo attraverso la parola, l’unica che salva dalla barbarie..

Annamari Ferramosca
Roma, 18 maggio 2023

                                     
                                 
                                         

Carlo Focarelli è professore ordinario di Diritto internazionale nell’Università Roma Tre. Di poesia ha pubblicato La trama metafisica (Il ventaglio, 1991), vincitrice del Premio “Calliope” 1989 per la silloge inedita di poesia e recensita nel 1992 in «La pagina letteraria» di Radio Rai 2; Assenza (2019), vincitrice del Premio “Tra Secchia e Panaro” 2019, 1° Premio assoluto al Concorso “Ambiart” 2019, Premio speciale al Concorso letterario “Parole e Poesia” 2019, Menzione speciale dell’inedito al Premio internazionale “Mario Luzi” 2018. Del 2022 è la raccolta Un segno. La terra sotto le scarpe (puntoacapo), finalista al Premio “Certamen Apollinare Poeticum” 2022. Nel 2023 ha pubblicato Dall’aldilà. Poesia di guerra (puntoacapo), che ha presentato alla XIX ed. del Salone internazionale del libro di Torino.

Loriana d’Ari, inediti

24 Maggio 2023 by
On Waking Dreams 2006 S. Burnstine

Photo Susan Burnstine On Waking Dreams 2006

Inediti di Loriana d’Ari

non sono lievi i voli arresi a dissolversi
inoltrano il bianco dell’alba nel colmo
di luce, nell’amplesso dei morti
a venire, musica di cortili a ricreazione
di qua dal nome che dice
possesso che dice appropriazione
l’attrito a stento percepito di antenne
piumose e ali di velluto. trattengo il fiato
per le creature affacciate alla soglia
di quel che nasce, che sbroglia la sua
rete a fili torti e maglie larghe.
una crisalide di frulli di falene sgrana
da un buio trasparente sottopelle
la nudità di tutto quello che disperde

*

La donna stambecco

la s’indovina di notte dal biancore
della schiena, quasi un’altra concrezione
calcarea o formazione lattescente.
ma trascorre oscuramente nella coltre che
s’allenta e cede quando inarca
la fionda dei tendini ed è nuda la donna
stambecco ora spicca non resta che la scia
dei cristalli  di salgemma  e come brilla
_____ lassù in alto il precipizio

*

2_run_burnstine

Photo Susan Burnstine

.

Le altalene

ognuno ritorna a sera, novembre d’umida carezza
nei rintocchi all’ora di cena.
rincasano gli ultimi, mentre curo la posa dei passi lungo
la scia di foglie cadute, un giallo ocra
che dilava all’avorio della luna.
proprio qui, solo ieri, correvano i bambini.
delle altalene gemelle l’una sembra immobile da sempre
l’altra oscilla, come un pendolo, addolcisce
solo il cigolio, e continua
dondolando
_______senza suono

*

dondola e cede la creatura viva
le tenere ginocchia a questa ghiaia
e brucia il suo fiato minuscolo finché
dischiusa la ferita i lembi tengono
la forma, pelle ____occhi naso bocca e
sanguina, e dondola e dondola e cede
ch’è mai stata sterminata ma densa
in un’ansa di nebbia un’aria spessa
ch’è fatta per le branchie e quando
scalcia rompe l’aria e comincia
ed è l’ora che respira ed è l’ora
che ritorna

*

ritorna l’ora, per quelli emersi.
chiedo degli altri, del loro sonno
invincibile a farci da sfondo, o
resinoso sognarci in forma d’acero
o di metallo scaldato nel palmo.
se non sia vita l’altalena che ci tiene
in bilico tra i mondi, ciondolando
se non sia riassorbito anche il battito
quando frantuma e condensa sul fondo
di questa coalescenza residuale che
non smette di pulsare in ogni altrove

*

Loriana d’Ari vive a Genova, dove lavora come psicoterapeuta. Ha pubblicato su diverse riviste e blog letterari e ricevuto riconoscimenti in occasione di vari concorsi, tra cui il premio Gozzano, Bologna in Lettere, Poesia di Strada. La sua silloge d’esordio, silenzio soglia d’acqua (arcipelago itaca ed. 2021)  è risultata vincitrice del VI premio Arcipelago Itaca per la raccolta inedita di versi (opera prima), ed è stata anche segnalata al premio “Lorenzo Montano.

Riccardo Renzi > Novalis

20 Maggio 2023 by

Novalis: la poesia che generò il romanticismo tedesco

Novalis, alla nascita Georg Philip Fredrich von Hardenber barone di von Hardenberg[1], fu colui che più di ogni altro autore romantico dettò un prima e un dopo all’interno del movimento letterario. Nacque nel 1972, secondo degli undici figli di Auguste Bernhardine Freifrau von Hardenberg, nata von Bölzig, (1749-1818) e Heinrich Ulrich Erasmus Freiherr von Hardenberg (1738-1814). Dopo aver frequentato il ginnasio luterano a Eisleben, si iscrisse nel 1790, come studente di giurisprudenza, all’Università di Jena. Lì il suo vecchio tutore personale Carl Christian Erhard Schmid (1762-1812)[2], che nel frattempo era divenuto professore di filosofia e uno dei maggiori rappresentanti del kantismo a Jena, lo presentò a Friedrich Schiller[3]. Tale conoscenza permeò profondamente il giovane poeta, infatti risulta impossibile comprendere a fondo la poetica di Novalis senza conoscere la filosofia di Schiller, che a sua volta è permeata da quella di Johann Gottlieb Fichte[4].

Se volessimo tener il senso proprio, quello ficcante, filosofico e teologico, e non meramente letterario del termine “romanticismo”[5], dovremmo sostenere per onestà intellettuale che esiste un unico romanticismo: Novalis. L’unico vero testo romantico, intriso in ogni sua sillaba di tutta la filosofia del romanticismo, sono gli Inni alla notte[6]. Si può sostenere fermamente che Novalis sia l’unico autore romantico per un semplicissimo motivo, in lui i motivi teorici della Romantik nascono, si sviluppato e raggiungono l’apax di tutto il movimento. Il romanticismo, senza troppa audacia, possiamo sostenere che nasca e muoia con Novalis. Tutta la poetica di Novalis si basa sull’opera la Dottrina della scienza di Fichte, che gli fu introdotta dall’amico Schiller. Il romanticismo è per prima cosa una questione di magia e la prima formula magica è quella costituita dall’io fichtiano. Il primo mago del movimento fu proprio Fichte, l’anima di Jena, che il poeta studiò e commentò a più riprese. Tale lato magico in Novalis si mischia ad un profondo cristianesimo protestante imbevuto di misticismo.

Passo dall’altra parte

ed ogni pena

diventa un pugno

di voluttà

Ancora un poco

e sarò libero

giacerò ebbro

in grembo all’amore.

Vita infinita

fluttua in me potente,

dall’alto guardo

laggiù verso di te.

Su quel tumulo

Il tuo fulgore si spegne

un’ombra reca

la fresca corona.

Oh suggimi, amato,

con forza in te,

ché assopirmi possa

ed amare.

Sento della morte

il flutto giovanile,

il balsamo ed etere

trasmuta il mio sangue

vivo di giorno

con fede e fervore,

di notte muoio

nel sacro ardore[7].

La poesia di Novalis si caratterizza per una miscela sempre volta al vitalismo di vita e morte, nella quale funge da elemento di equilibrio, quasi come la bilancia della giustizia, l’amore. Quest’ultimo è l’elemento basilare della concezione vitalistica del creato.

Ti vedo in mille immagini,

Maria, amabilmente figurata,

ma nessuna può rappresentarti

quale la mia anima ti ha veduta.

So solo che il tumulo del mondo

da allora mi è svanito come un sogno,

e un cielo d’indicibile dolcezza

mi sarà nell’animo per sempre[8].

Ecco il misticismo della poetica di Novalis si mischia con un profondo credo cristiano.

Le fonti dell’immaginario novalisiano possono essere rintracciate in numerose tradizioni letterarie e religiose: si va dalle opere dei mistici tedeschi, tra tutti Meister Eckhart e Jakob Bohme, alla lirica romantica e cimiteriale di Edward Yoing, passando per Shakespeare, Schlegel, Herder, Schiller, Fichte e Goethe.

Novalis è un autore immenso, fondatore del romanticismo, al quale però nelle antologie scolastiche di mezz’Europa ancora si continua a concedere poco spazio.

Quando in ore di tormentosa angoscia

il nostro cuore quasi si arrende,

quando sopraffatto dal male

il nostro intimo è roso dall’ansia

pensiamo ai nostri fedeli amati,

come miseria e cure li opprimano;

nubi limitano la nostra vista,

raggio di speranza non le passa:

Allora Dio si china su di noi,

il suo amore ci si avvicina,

allora desideriamo quell’altrove

in cui un angelo è accanto a noi,

reca il calice della vita giovane,

ci mormora conforto e coraggio;

e non invano allora imploriamo

pace per i nostri cari[9].

In Novalis il male incombe sempre dietro l’angolo, l’uomo è perseguitato costantemente da esso, che spesso all’ansia si accompagna. Il male non colpisce mai il singolo uomo, ma ingloba tutto il suo universo, i suoi affetti e i suoi cari. Le uniche figure salvifiche in un mondo luciferino sono Dio e la Madonna. La concezione luciferina di Novalis spesso si mischia a magia e occultismo. Qui troviamo un evidente richiamo al Graal, «calice della vita giovane»[10], nella concezione dei trovatori provenzali[11]. È proprio in questo periodo che in Germania si radicalizzerà il mito del Graal.

In Novalis anche l’immaginazione e l’immaginifico permeano profondamente il suo poetare. L’immaginazione di Novalis è quella intesa fichteanamente, dove finito e infinito si compenetrano. Essa produce magicamente una sintesi finzionale, rappresentativa, indugiando nel conflitto, oscillando tra gli estremi e cogliendone sempre un sunto. Essa è l’unica a vedere realmente l’unità originale della coscienza, cioè l’Io.

Novalis fu tutto questo: magia, occultismo, profondo credo e innovazione filosofica. Novalis fu il romanticismo.


[1] Per la biografia di Novalis si veda: G. Fontana, Novalis, Venezia, Marsilio, 2008.

[2] Carl Christian Erhard Schmidt è uno dei primi divulgatori della filosofia kantiana.Nel 1778 si immatricola a Jena, dove studia teologia e poi anche filosofia (con Johann August Heinrich Ulrich, un filosofo molto interessato alla filosofia kantiana). Nel 1781 è precettore presso la casa del padre di Friedrich von Hardenberg, in arte Novalis. Nel 1782 è Hausmeister a Schauberg e nel 1784 ottiene l’abilitazione (Magister) anche in filosofia, titolo grazie al quale può insegnare all’università di Jena. Nel 1785 tiene per primo lezioni sulla Kritik der reinen Vernunft. Proprio come ausilio per i suoi studenti nel 1786, pubblica un commentario di questa opera cui aggiunge un breve glossario, che, ampliato, costituirà il dizionario kantiano. Dal 1785 collabora con Christian Gottfried Schütz alla «Allgemeine Literatur-Zeitung» una rivista pubblicata a Jena che contribuì fortemente a diffondere il pensiero di Kant. A Jena è in contatto con molti esponenti del romanticismo, ma anche con Schiller e Goethe. Nel 1787 è nominato vicario e ordinato sacerdote a Wenigenjena, paese in cui suo padre è parroco dal 1777. Il 22 febbraio 1790 celebra le nozze tra Friedrich Schiller e Charlotte von Lengfeld. Nel 1791 è, a trent’anni, professore di logica e metafisica a Gießen. Nel 1793 torna a Jena sempre come professore di filosofia e, nel 1798, diventa professore anche di teologia.

[3] Per la biografia di Schiller si veda B. Von Wiese, Friedrich Schiller, Stuttgart, Metzler, 1959.

[4] Johann Gottlieb Fichte (Rammenau, 19 maggio 1762 – Berlino, 27 gennaio 1814) è stato un filosofo tedesco, continuatore del pensiero di Kant e iniziatore dell’idealismo tedesco. Le sue opere più famose sono la Dottrina della scienza, e i Discorsi alla nazione tedesca, nei quali sosteneva la superiorità culturale del popolo tedesco incitandolo a combattere contro Napoleone.

[5] M. Freschi, Mito e utopia nel Romanticismo tedesco, in Atti del Seminario Internazionale sul Romanticismo tedesco, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1984.

[6] Novalis, Inni alla notte, Canti spirituali, Traduzione a cura di Susanna Muti, Milano, Feltrinelli, 2012.

[7] Novalis, Inni alla, cit., pp. 71-72.

[8] Novalis, Inni alla, cit., p. 147.

[9] Ivi, p. 141.

[10] Novalis, Inni alla, cit., p. 141.

[11] Durante i secoli centrali del Basso Medioevo (1100–1230), il trovatore (o trovadore o trobadore – al femminile trovatrice o trovatora o trovadora – in occitano trobador pronuncia occitana: era un compositore ed esecutore di poesia lirica occitana (ovvero di testi poetici e melodie) che utilizzava la lingua d’oc, parlata, in differenti varietà regionali, in quasi tutta la Francia a sud della Loira. I trovatori non utilizzavano il latino, lingua degli ecclesiastici, ma usavano nella scrittura l’occitano. Indubbiamente, l’innovazione di scrivere in volgare fu operata per la prima volta proprio dai trovatori, supposizione, questa, da inserire nell’ambiente di fervore indipendentistico locale e nazionalistico (vedi età dei Comuni, nascita delle Università, eresie e autarchie cristiane).

Riccardo Renzi

Piero Saguatti

3 Maggio 2023 by

 

 

“C’erano campi immensi di grano in cui perdersi, le cui spighe gareggiavano in doratura coi raggi del sole e in altezza con noi bambini. C’erano stagioni estive che pareva durassero tutto l’anno, cariche di emozioni, sia all’interno dei cortili che in villeggiatura, nei vicini luoghi collinari o marittimi. L’amicizia era come un tatuaggio colorato, un’esigenza fisiologica che richiedeva illimitata disponibilità verso i compagni di gioco e dettava i ritmi ludici dei giorni, da trascorrere ostinatamente all’aperto. Ma quel periodo a cavallo degli anni ’60 e dei ’70 non era solo il nostro tempo speciale, fu tale anche per gli avvenimenti storico-culturali che contraddistinsero quella fase per un’intera società.”

 

Lo spigolo del senso (l’angolo del castigo)

 

Lo spigolo del senso

era contrapposto a quello del castigo

e ci trovavo dentro la libertà, la sfida

lo spirito del grido

nel dondolio

si passava dalla luce accesa

al buio, in un momento

la posizione presa

determinava l’emancipazione

o il fallimento.

 

 

Il bambino della porta accanto

 

Il bambino della porta accanto

vorrebbe farsi grande in fretta, cioè invecchiare

quello che faccio io da tempo

– ormai così lontano dal cortile –

è dimenticare quella scelta

    e ricordarmi di chiudere la porta, per non scappare.

 

 

(Da “Un bambino anni Sessanta”, Epika Edizioni, settembre 2022)

 

 

 Piero Saguatti (Bologna) classe ’63. Dopo una parentesi giovanile come cantautore, nella maturità scopre il fascino dei versi. La semplice curiosità per la poesia diventa sfida creativa trasformandosi piano piano in passione, che lo condurrà a partecipare ad alcuni fra i più prestigiosi concorsi poetici nazionali, ottenendo ottimi risultati. Uno di questi in particolare “Versi Congiurati” promosso nel 2017 da Fara Editore si concretizza nel libro di poesie “Il peso degli istanti”. L’espressione musicale resta una compagna fedele per l’autore fin dall’adolescenza, mentre la poesia si conferma l’irrefrenabile voce interna più matura, vera e propria devozione alla magia della parola.

 

È il suono che lega tutto assieme e ciò vale esplicitamente sia per i testi musicati delle canzoni, che in poesia in maniera più velata e sorprendente con i versi. La chitarra dunque resta compagna fedele dell’autore sin dalla adolescenza, mentre la poesia si conferma l’irrefrenabile voce interna più matura, vera e propria devozione alla magia della parola.

 

Riccardo Renzi > Baudelaire

13 aprile 2023 by

Baudelaire e il male interiore

Pensando alla letteratura francese dell’Ottocento, la prima figura che verrebbe in mente ad un medio lettore, nel 90% dei casi è quella di Charles Pierre Baudelaire. Ma perché proprio Baudelaire? Perché la sua figura ha ormai subito una canonizzazione all’interno dei vari sistemi scolastici europei e da cinquant’anni a questa parte e impressa nella memoria dei più. A tutto ciò si aggiunga che il suo spirito rivoluzionario lo rende assai attraente, in particolar modo appetibile per ragazzini in piena età dello sviluppo[1], con la loro voglia innata di cambiare il mondo.

Baudelaire nacque a Parigi, in Francia, il 9 aprile 1821 in una casa del quartiere latino, in rue Hautefeuille nº 13, e venne battezzato due mesi dopo nella chiesa cattolica di Saint-Sulpice. Il padre si chiamava Joseph-François Baudelaire. Era un ex-sacerdote e capo degli uffici amministrativi del Senato, amante della pittura e dell’arte in genere, e come prima moglie ebbe Jeanne Justine Rosalie Jasminla, dalla quale ebbe Claude Alphonse Baudelaire, fratellastro del poeta. La madre di Charles era la ventisettenne Caroline Archimbaut-Dufays, sposata da Joseph-François dopo la perdita della prima moglie[2]. Suo padre morì quando egli aveva soltanto sei anni e il matrimonio della madre, che si risposò poco dopo, determinò in lui una profonda sofferenza destinata a durargli tutta la vita, camuffata spesso da cinismo e spavalderia. Dopo aver conseguito la licenza liceale, Baudelaire cominciò una vita sregolata; il patrigno, il generale Auspick, sperò di ottenere un cambiamento persuadendolo ad un viaggio nelle isole dell’Oceano Indiano, ma al suo ritorno, ormai maggiorenne, Baudelaire riprese la vita stravagante, dissipò rapidamente il patrimonio ereditato dal padre, si avvilì sempre di più nell’alcool, nella droga, nella frequentazione di ambienti malfamati e di personaggi sempre più equivoci. Per vivere fu costretto a fare i più strampalati lavori, ma continuò sempre a scrivere e a lavorare per giornali e case editrici. Agli inizi del 1857 pubblicò I fiori del male, raccolta che gli procurò subito un processo per alcune liriche considerate immorali, fu dunque, pubblicato in seconda edizione, riveduta e purgata, nel 1861. L’opera non ebbe risonanze e il poeta, amareggiato e prostrato nel fisico e nel morale, si allontanò da Parigi la cui atmosfera gli era diventata insopportabile, e andò a vivere a Bruxelles[3]. Il cambio di città non gli giovò, nel 1866 ebbe il primo attacco di paralisi e l’anno dopo morì in una clinica di Parigi[4].

Les fleurs du mal, sono il suo capolavoro per eccellenza, una raccolta di liriche suddivisa in sei parti: Noia e Ideale, Quadri parigini, Il vino, I fiori del male, Rivolta, La morte. Esse costituiscono l’unità delle riflessioni del poeta. Sono un organismo di tenebrosa e profonda unità, con spiragli di ciceroniana saccenza, più propri di un oratore che di un poeta. Al momento della stesura, non vi fu volontà architettonica, ma fu guidato da l’esigenza di raccontare con modalità stratigrafica di opposizione: Noia e Ideale, Vita e Morte, Rivolta e Conservatorismo.

Tra foreste di simboli s’avanza

La Natura è un tempio in cui pilastri vivi

a volte emettono confuse parole;

l’uomo, osservato da occhi familiari,

tra foreste di simboli s’avanza.

Come lunghi echi che di lontano si confondono

in una unità profonda e tenebrosa,

vasta come la notte e come la luce,

i profumi, i colori e i suoni si rispondono.

Esistono profumi freschi come carni di bambino,

dolci come oboi, verdi come prati,

ed altri corrotti, ricchi e trionfanti,

che hanno l’espansione delle infinite cose,

come l’ambra, il muschio, l’incenso e il benzoino

e cantano l’estasi dello spirito e dei sensi.

In Baudelaire troviamo sempre un intimo rapporto con la natura, derivante dagli studi che egli fece su di essa, dallo studio della luce in campo pittorico, a quello sonoro. In lui inoltre è sempre presente, anche se a volte celato nell’ombra, lo Spleen, termine inglese che indica una forma malinconica e dolorosa di noia, di cui è vittima fin dalla tenera età il poeta. Questo sentimento può prendere forme diverse, legate a differenti luoghi chiusi, quali tombe e prigioni.

Spleen

Quando il cielo basso e oppressivo pesa come un coperchio

sull’anima che geme in preda a lunghi affanni,

e versa, abbracciando l’intero giro dell’orizzonte,

una luce nera più triste di quella delle notti;

quando la terra si è trasformata in un’umida prigione,

dove la Speranza, come un pipistrello,

va sbattendo contro i muri la sua ala timida

e picchiando la testa sui soffitti marciti;

quando la pioggia distendendo le sue immense strisce,

imita le sbarre di una grande prigione,

e un popolo muto d’infami ragni

tende le sue reti in fondo ai nostri cervelli,

a un tratto delle campane sbattono con furia

e lanciano verso il cielo un urlo orrendo,

simili a spiriti erranti e senza patria,

che si mettono a gemere ostinatamente.

– E lunghi funerali, senza tamburi né musica,

sfilano lentamente nella mia anima;

vinta, la Speranza piange; e l’atroce Angoscia, dispotica,

pianta sul mio cranio chinato il suo vessillo nero.

Nel componimento sono posti in parallelo lo spazio esterno e quello interiore del poeta, entrambi rappresentati come prigioni dalle quali ogni tentativo di fuga risulta vano. Nella prima quartina il cielo è paragonato a un “coperchio” che schiaccia l’animo del poeta, già oppresso da dolore e preoccupazioni, e che porta sulla terra oscurità e tristezza. Nella seconda quartina la terra diventa una “prigione”, nella quale non c’è spazio per la Speranza, che è paragonata a un pipistrello che sbatte da ogni parte poiché non trova il modo per uscire. Il corpo è sempre concepito come prigione dell’anima, mentre la terra come prigione dell’uomo. In tutta la sua vita Baudelaire, proprio come Rimbaud e Campana, dopo di lui, si sentirà un estraneo tra gli uomini, un migrante errante, senza patria e senza meta.

  Riccardo RENZI   Dopo la laurea triennale in Lettere classiche presso l’Università degli studi di Urbino, discutendo una tesi recante titolo La nobiltà in Francia nei primi due secoli dell’età moderna (febbraio 2017), ha conseguito la Laurea magistrale in Scienze Storiche presso l’Università di Macerata discutendo una tesi dal titolo Latin historian’s manuscripts and incunabola preserved at Fermo Public Library Romolo Spezioli (ottobre 2020). Ha inoltre conseguito una Summer school in metrica e ritmica greca presso la Scuola di metrica dell’Università di Urbino (2016), il percorso psico-pedagogico per l’insegnamento (24 CFU) presso l’Università di Macerata (2019) e i diplomi in LIM e Tablet. Nell’ottobre 2022 consegue il Master di primo livello in “Operatore delle biblioteche”. Nel 2022 entra a far parte del Centro studi sallustiani, dell’Unipop di Fermo, del comitato scientifico della rivista di filologia greca e latina Scholia (didattica), in qualità di vicedirettore e in qualità di socio-amico dell’Aib. Insegna materie letterarie presso l’Istituto di Formazione Professionale Artigianelli di Fermo. Appassionato di storia greca e romana, e di poesia, ha pubblicato numerose monografie sugli storici latini e alcune sillogi poetiche (Renzi Riccardo, La tradizione delle opere sallustiane dai manoscritti agli incunaboli della Biblioteca civica di Fermo, AndreaLivi Editore, 2020; Renzi Riccardo, Tito Livio. La fortuna del più grande storico romano, Primicieri Editore, 2021; Renzi Riccardo, APPIANO ALESSANDRINO. Dall’età classica all’età contemporanea, Primiceri Editore, 2021; Renzi Riccardo, Rufo Festo Avieno, la fortuna di uno storico minore, Ipazia: collana di antichità classiche, Arbor Sapientiae editore, 2021; Renzi Riccardo, La fortuna di uno storico minore: Lucio Anneo Floro, i manoscritti e gli incunaboli della Biblioteca Civica Romolo Spezioli, con prefazione di Alessandro Cesareo, Amarganta, 2021; Renzi Riccardo, Svetonio. Dall’età classica all’età moderna. Gli esemplari della Biblioteca civica Romolo Spezioli di Fermo, con prefazione di Alessandro Cesareo, Padova, Primiceri, 2022; Renzi Riccardo, Frammenti poetici, BookSprint, 2021; Renzi Riccardo, ἀλήθεια, Sonnino, Edizioni La Gru, 2022; Renzi Riccardo, Studi e riflessioni sull’evoluzione del ceto nobiliare: tra la fine del medioevo e la prima età moderna, Padova, Primiceri, 2022), collabora inoltre con le riviste: «Scholia», «Scholia didattica», «Il Guerrin Meschino», «Storia Libera», «Riscontri», «Il Borghese», «Il Polo», «Marca/Marche», «Inchiostro», «Avanguardia», «Italia medioevale», «Prometeo», «Miscellanea francescana», «Schede Medioevali», «Il Sentiero Francescano», «Civiltà Romana», «Studi Francescani», «Versi diversi», «Poets and Poems», «Italia Francescana», «Voce Romana» e «Il Mago di Oz».  

[1] Nel sistema scolastico italiano solitamente si affronta in IV° superiore.

[2] Introduzione a I fiori del male, Cronologia della vita e delle opere, a cura di Giovanni Raboni, Milano, Giulio Einaudi Editore, 2014.

[3] C. Baudelaire, I fiori del male, a cura di Gesualdo Bufalino, Milano, Mondadori, 2018, p. 30.

[4] S. Guglielmini, Guida al Novecento, Milano, Principato editore, 2009, p. 29-30.

Luigi Siviero

31 marzo 2023 by

 

Le fotografie delle Dolomiti di Brenta fanno da cornice a una raccolta di racconti e poesie che hanno come filo conduttore la mitologia, sviluppata in chiave di riflessione sul rapporto fra i miti del passato e la civiltà moderna. Melpomene, Eros, Medusa, Euridice e altri personaggi ereditati dall’antichità rivivono all’interno di rivisitazioni radicali figlie di uno sguardo nuovo e contemporaneo.

Dalla prefazione del libro:

Per lungo tempo sono cresciuto assorbendo quella che probabilmente è la più florida e maestosa mitologia pop del XX secolo e non solo: i supereroi. Li sentivo vitali e percepivo distintamente quanto fossero (o dovessero essere) importanti non solo per la mia vita, ma anche per la società con cui interagivano e con la quale si plasmavano reciprocamente. Di contro la mitologia classica mi sembrava morta. Vedevo le rovine di un mondo che aveva raggiunto il suo apice e che poi era tramontato, lasciando in eredità i frammenti di vite ormai lontane e perdute. Non che quel mondo non fosse affascinante, ma non lo sentivo mio.

La mia posizione oggi non è cambiata, salvo il fatto che la mitologia dei supereroi mi sembra si stia spegnendo e sia destinata anch’essa a diventare – magari non subito; magari fra molto tempo – una reliquia. È con un atteggiamento duplice e antitetico che mi sono avvicinato alla mitologia classica quando ho scritto i racconti contenuti in questa raccolta: come un archeologo che trova rovine di templi, frammenti di mosaici e colonne spezzate, e nel corso dello scavo si muove in un paesaggio che reca tracce dell’antico splendore, ragionando su ciò che ha portato alla luce e su chi lo aveva costruito, ma anche con gli occhi di chi appartiene a una civiltà diversa e portatrice di nuove conoscenze. Se da un lato mi interessava l’archeologia del mito, dall’altro lato non sopprimevo la tentazione di vederla con uno sguardo “altro”. Ero immerso nella tensione fra fascino dell’antico e vitalità del contemporaneo.

Nel mio piccolo mi sono rifatto al fumetto The Sandman scritto da Neil Gaiman, che davvero può essere visto come una passeggiata nelle mitologie lasciate dagli esseri umani del passato, e allo stesso tempo come la fioritura di una mitologia nuova, contemporanea, sulle tracce culturali e psichiche ricevute dai nostri antenati. La Melpomene del mio racconto assiste agli spettacoli teatrali nella Grecia classica allo stesso modo di Sogno degli Eterni che osserva la prima rappresentazione di Sogno di una notte di mezza estate assieme al popolo della Terra delle Fate. Invece il ribaltamento nel finale de Il labirinto di Euridice (…) è parente stretto dei ribaltamenti operati da Alan Moore nei suoi fumetti di supereroi: personaggi che da “incarnazioni del bene” diventano immorali; vicende profondamente fantasiose e assurde passate al vaglio della logica e del realismo (…).

                               

                                      

Tutto quello che abbiamo, tutto quello che lasciamo

Tutto quello che abbiamo sono tracce.

Stelle estinte
nell’antichità
brillano inconsapevoli di non esistere più.
Mappa di tracce
per orientarsi nel nulla.

Orme calcificate
congelate dal tempo.
Riemergono.
Animali invisibili attraversano i millenni
illudendosi
di raggiungere la loro meta.

Mura di città defunte
oggi tombe di civiltà scomparse
si sbriciolano
trascinando con sé frammenti di umanità.

Tutto quello che lasciamo sono tracce.

                       

                                              

Medusa

Dialogava col vento, attorniata dai corpi marmorei di amanti negateli.

                       

                    

Euridice, sulla strada di ritorno dall’Ade

Voltati!
Voglio scomparire davanti ai tuoi occhi.
Amo l’Inferno.

             

               

Eros

Scoccava le frecce per uccidere. Non fa questo l’amore?

                          

 

                         

L’uomo del deserto

Un serpente scende veloce giù per una duna lasciandosi dietro un sentiero fragile nella sabbia che il vento riempie e subito cancella. L’uomo del deserto osserva quella traccia, e poi il serpente che gli passa vicino sibilando. Il vento solleva granelli di sabbia e li deposita nelle pieghe del turbante. Un istante dopo l’uomo è al di là delle dune. Guarda da lontano una carovana di beduini. I nomadi in groppa ai dromedari lo avvistano e lui scompare dietro una duna. Li segue dall’alba e ormai sono le due di pomeriggio. I beduini si dissetano in un’oasi. Bevono piccoli sorsi, e sono guardinghi perché avvertono che l’uomo del deserto è sempre lì, fra le sue dune. Il viaggio della carovana riprende. Anche quello dell’uomo del deserto. Fino a che non giunge la notte. Il vento soffia ancora più forte e l’uomo del deserto si dissolve in sabbia che viene soffiata via nel freddo. Gli uomini della carovana si accasciano nelle tende, chiedendosi se l’uomo del deserto era un’allucinazione o uno spettro, sognandolo. Sarà una storia da raccontare attorno al fuoco.

                                 

                                

                       

Ho sempre amato i templi in rovina

Ho sempre amato i templi in rovina
così come gli antichi egizi li hanno lasciati.
Luci e ombre hanno dato vita a piccoli mondi in miniatura
dove i ritratti dei defunti non hanno né uno scopo né un posto.
Morti che paiono dormienti tornano al punto di partenza
ora i miei occhi non possono più vederli.

                                   

 

Luigi Siviero è nato a Trento il 6 giugno 1977. Ha scritto diversi saggi sui fumetti fra cui Dylan Dog e Sherlock Holmes: indagare l’incubo (NPE, 2012), un libro che contiene un’analisi del Dylan Dog di Tiziano Sclavi accompagnata da un’intervista al creatore dell’indagatore dell’incubo, Dall’11 settembre a Barack Obama (NPE, 2013), Sherlock Holmes. L’avventura nei fumetti (ProGlo, 2016), Dopo il Crepuscolo dei Supereroi (Eretica Edizioni, 2018) e Grant Morrison. La vita e le opere (Eretica Edizioni, 2020). Quest’ultimo ha vinto il Premio Tulliola – Filippelli, con premiazione avvenuta in Senato a Palazzo Giustiniani. Ha pubblicato racconti, poesie, fumetti e articoli su «Lahar Magazine», «Fumo di China», «Fumetto», «Sherlock Magazine» e altre riviste e antologie. Nel 2016 ha vinto il Premio Fogazzaro nella sezione Microletteratura e social network – Premio speciale umorismo; i dieci racconti che gli sono valsi il premio sono stati raccolti nel volume Lettere ritrovate (POCOlibri, 2022). Il tramezzino è il titolo del suo primo romanzo, pubblicato nel 2018 da centoParole. Fra il 2019 e il 2020 ha visto la luce il dittico di raccolte di poesie formato da Un’astrazione linguistica dai toni freddi e Schemi astratti di comportamento animale indecente (Montag Edizioni). Nel 2022 ha dato vita alla collana Nero di Seppia, dedicata a libri le cui pagine interne sono tutte bianche. Il primo titolo pubblicato nella collana è il fumetto L’uomo invisibile nella città invisibile.

 

I corteggiatori di Melpomene

Luigi Siviero

Nives Edizioni, 2022

 

luigisiv@yahoo.it

Emiliano Cribari – Luigi Paraboschi

18 marzo 2023 by

 

Ogni volta che leggo qualcosa di questo autore divenuto ormai amico senza esserci conosciuti che solo attraverso le sue poesie e le foto dei suoi camminamenti sull’Appennino, provo dentro me un senso di affinità di sentimenti e di emozioni che non molti altri autori mi comunicano.

Questo non è un romanzo, non è un libro di viaggio, neppure una raccolta di poesie, è la sintesi che egli ha fatto quasi quotidianamente delle proprie riflessioni durante lo svolgimento del lavoro di libraio errante, come egli sa di essere, che ha messo in un piccolo libretto per regalarle  ai lettori nutrendo la speranza di condivisione.

Qual è esattamente il lavoro di Cribari ? Raccoglie libri usati, in giro per case che si devono traslocare per bisogno di spazio da parte dei proprietari, ovunque egli trovi qualcuno che abbia necessità di sgomberare nuove o vecchie biblioteche.

Li carica sulla vecchia Panda, dopo averli smistati in base a criteri che non mi è dato conoscere, e, giorno dopo giorno si mette in macchina per recarsi sui vari mercatini ambulanti attorno al luogo dove egli vive, aprire il banchetto e attendere i clienti.

L’incertezza che sta sempre alla base del lavoro di questo poeta è ben espressa in questa  riflessione riportata a pag. 101

… non c’è scelta di vita che mi dia serenità. Il mio tormento non deriva da scelte che faccio ma da ciò che io sono.

Penso che un lettore non superficiale, di fronte a questa affermazione, non possa che sentirsi incuriosito ad approfondire l’autore e porgo di seguito quest’altra di pag  36:

“… a cosa serve invecchiare? Io voglio morire al più presto, nel sonno.

 Ne aggiungo un’altra di pag. 30 che ribadisce una vocazione espressa con molta chiarezza nei libri precedenti

…”io voglio essere un uomo dei boschi anche in mezzo ai palazzi”.

Ancora a pag. 74 c’è:  

“… ho bisogno di sentirmi accolto“

e a pag. 67 quest’altra:

“… ho paure lunghe decenni“

Quanto leggiamo è sintomo di fragilità e di sensibilità molto accese che spesso attraversano l’animo anche a molti noi e che solo i più bravi talvolta riescono anche a trasmettere al lettore con  qualche verso di poesia.

C’è una brevissima frase di pag. 46 che riporto:

 “… oggi è tornata a trovarmi B.

Leggendola non ho potuto fare a meno di andare con la memoria a certi passi che si trovano nel diario di Cesare Pavese, ove lui scriveva la stessa sintetica e riservata frase, rifendosi alla famosa Costance, amata tanto a lungo.

Forse sono fuori strada nell’interpretazione degli scritti di Cribari ma il B. appuntato mi ha aperto questo spiraglio di lettura al quale non sono riuscito a sottrarmi e lo collego a un bisogno profondo di vicinanza con qualcuno che  possa condividere quest’altra frase i pag. 39:

“… sono travolto dalla tenerezza“

è così’ intenso il bisogno di vicinanza nell’autore che di fronte ad un signora che rifiuta di accettare il piccolo resto del suo acquisto, che lo induce a scrivere a pag. 40: “ …la donna che ride con gli occhi compra tre libri ma non vuole che le dia il resto: e aggiunge “E come potrei? Tu mi hai reso felice.”

Un’altra persona lo porta a commentare a pag. 31

“…. ha pagato e se ne è andata a passo lento appoggiandosi ad un bastone con il libro sotto un braccio. Avrei potuto piangere.”

Mostrarsi a coloro che egli incontra lungo la strada non è sempre gradevole, c’è di ogni tipo su una piazza del mercato, leggiamo a pag.48

“… mi domando in fondo cosa cercano, le persone, quando cercano“

però  di contro troviamo anche espressioni di serenità, esempio a pag.43  

“… oggi ho incontrato quasi soltanto persone gentili“

e aggiunge a pag. 65:“ essere gentili spalanca le anime“.

 L’amore per la lettura e per i libri lo ha indotto a fare il lavoro scelto sperando che il tempo gli dia ragione quando scrive a pag 45: “… magia dei libri. Che dal nulla s’inventano ponti, invisibili strutture capaci di trasfondere persone.“

Concludo questa mia visita al lavoro di un amico con questa frase che racchiude la più chiara spiegazione attorno al suo amore per la scrittura:
“…la poesia nasce da attese disilluse. Ogni parola è stata prima delusa“

Questa è la mia interpretazione di una vocazione per la poesia simile a quella   di Dino Campana, altro poeta errante sull’Appennino, che si può  condensare in questa frase  di pag. 91 che scelgo  come finale:

“… ho una voglia disperata di camminare per chilometri e chilometri. Tutto a diritto- Da solo“

 luigi paraboschi

                               

                             

                               

Emiliano Cribari

Poeta, fotografo, camminatore.
Dal 1999 ha iniziato a sperimentare nel contesto di svariati ambiti artistici: dalla poesia al teatro, dalla fotografia all’audiovisivo.
Parallelamente, ha maturato alcune esperienze professionali anche nel campo dell’editoria e del giornalismo.
Dal 2015 ha iniziato a sviluppare progetti fotografici di carattere personale, soprattutto su tematiche sociali. Nel 2019, come guida ambientale escursionistica, ha dato vita alle “cammina-te letterarie”, escursioni di gruppo caratterizzate da letture poetiche.
Ha pubblicato La cura degli istanti (Transeuropa, 2019), La vita minima (Ani-maMundi, 2020), Errante (AnimaMundi/emuse, 2022), Mar d’Appennino (Edi-zioni dei Cammini, 2022) e Il valore dell’aria (EC, 2022).
Ha inoltre curato il riadattamento in lingua italiana della raccolta di poesie La saggezza del condan-nato a morte e altre poesie di Mahmud Darwish (emuse, 2022).

Acruto Vitali – Riccardo Renzi

10 marzo 2023 by

Acruto Vitali: un poeta dimenticato

Acruto Vitali fu uno dei maggiori interpreti di quella temperie culturale che tanto animò il territorio fermano[1] tra gli anni quaranta e sessanta del Novecento.

Era nato a Porto San Giorgio il 5 ottobre del 1903 da Primo, uno dei più grandi industriali della zona, proprietario di una fabbrica di ghiaccio tra le più grandi delle Marche, e da Ada Cestarelli. Frequentò l’Istituto Tecnico Industriale di Fermo. Agli inizi del 1926 si trasferì a Milano per studiare musica e canto. Qui fu allievo di Alessandro Bonci[2], mentre a Roma di Sammarco. L’esordio avvenne nel 1929 ne I Pescatori di perle di Bizet, nel ruolo di Nadir. Negli anni Trenta si esibì come tenore nei maggiori teatri nazionali e internazionali, ma lo scoppio della guerra interruppe le sue attività. Nel 1940 si vide costretto a tornare a Porto San Giorgio, dove aiutò il padre nella gestione dell’azienda di famiglia[3].

Risulta assai difficile parlare di Acruto Vitali poeta e pittore, senza parlare di alcune amicizie illustri che ebbe nel corso della sua vita e che condizionarono il suo gusto poetico e artistico. Per quanto concerne la poesia, la coltivò fin da adolescente assieme a un suo caro amico, Sandro Penna[4]. Il poeta perugino trascorreva infatti tutte le estati con la famiglia a Porto San Giorgio e proprio sulle spiagge di questa cittadella dell’Adriatico i due fanciulli strinsero una salda amicizia. Vitali, anche in tarda età, ancora raccontava di quello splendido periodo della sua vita trascorso con l’amico Sandro a leggere Rimbaud sulla spiaggia. Fu proprio Vitali nell’estate del 1925 a far conoscere la poesia di Rimbaud a Penna[5]. Spesso i due discutevano anche di letteratura francese, in particolare di Gide e Proust[6].

Gli amici illustri di Vitali però non si esauriscono qui. Egli parlava infatti dei poeti francesi anche con Ubaldo Fagioli e Franco Matacotta[7]. Mentre con uno dei più grandi pittori del primo Novecento, Osvaldo Licini, parlava di Leopardi.

Per il pittore di Monte Vidone (Osvaldo Licini), Leopardi fu un’ossessione. Spesso si recava a casa dell’amico sangiorgese per farsi recitare qualche verso del poeta recanatese e puntualmente al termine di ogni recitazione, affermava che prima o poi avrebbe dedicato al poeta una serie di quadri. Un giorno Licini si recò da Vitali con un piccolo quadro sotto braccio e gli disse: «Ecco qua il mio Leopardi», era un’Amalassunta luna. Chiusa questa breve parentesi su un altro grandissimo artista del Novecento, continuiamo ad esaminare le amicizie illustri che Vitali ebbe[8].

Durante il soggiorno milanese, nonostante lavorasse come musicista, mai tralasciò l’amore per la poesia e dalle lettere con Penna sappiamo che in quegli anni intratteneva rapporti con Leonardo Sinisgalli, Giovanni Titta Rosa e Sergio Solmi[9]. Nel 1937 anche Penna si trasferì a Milano, ove lavorava come correttore di bozze presso l’editore Bompiani, in quei tre anni i due si incontravano quotidianamente la sera presso la Galleria Il Milione. Quando Vitali era a Roma per motivi lavorativi lasciava le chiavi del suo ampio e confortevole appartamento a Penna e un giorno accadde un curioso episodio, Vitali tornato in anticipo da Roma trovo la porta dell’appartamento chiusa dall’interno e bussando gli venne ad aprire Umberto Saba, che a sua volta aveva ricevuto le chiavi da Penna. Da questo simpatico episodio nacque un’amicizia tra i due. Dunque, ai tanti amici illustri si aggiunge anche il nome di Saba[10].

Vitali aveva iniziato a scrivere poesie fin da giovanissimo, la prima di cui abbiamo testimonianza risale all’estate del 1909:

Fui un passero, socchiuso tra le ciglia

d’un alba, a la gronda del cielo.

Ora, conchiglia mi nutro di sole,

e mi muove la luna sulle sabbie nei pleniluni[11].

In questi anni ancora non si era legato così profondamente alla poesia rimboudiana, ma prendeva a modello i grandi della poesia italiana, in primis Leopardi e Pascoli. Nel 1925 pubblicò sulla rivista «La Lucerna» la poesia La forma della sera:

 Quando il vespro adunò l’ombre ed il cielo

fu come il grande specchio della sera,

io vidi profilarsi la chimera

nel colore del tuo pallido velo.

E un tremore m’invase, uno sgomento,

una paura folle e indefinita

quand’io tentai l’indugio delle dita,

in quella forma vana come il vento;

nulla: parvenza della sera azzurra

coi suoi misteri, in giochi di penombra,

intorno al lembo del tuo lieve velo…

Tu mi scuotesti: Senti? Non sussurra

foglia; il silenzio come un fiume d’ombra,

scorre così che noi sentiamo il cielo[12].

L’onda musicale è prettamente italica, forti sono gli echi pascoliani, ma anche il primo Rimbaud inizia a farsi sentire nella trasmissione di una profonda inquietudine.

Vitali amò e coltivò sempre la poesia, dall’adolescenza sino alla piena senilità, ma della sua attività poetica si curò sempre poco. Non putò mai a farsi conoscere dal grande pubblico, preferiva recitare i suoi componimenti con gli amici cari. Gli amici erano attratti da lui più come cantore/musicista che come poeta.

Il presente lavoro ha solamente introdotto minimamente l’immensa figura intellettuale di Acruto Vitali, poeta, pittore e tenore. L’obiettivo è quello di far riemergere questa figura dall’oblio e le tenebre nelle quali per troppo tempo è risieduta.


[1] Territorio dell’attuale provincia di Fermo, un tempo sotto quella di Ascoli.

[2] Nacque professionalmente al Conservatorio “Gioachino Rossini” di Pesaro, dove ebbe modo di lavorare con Carlo Pedrotti e Felice Coen. Fece il suo debutto al Teatro Regio di Parma nel 1896, nel Falstaff di Giuseppe Verdi. Tale fu il suo successo che prima della fine della stagione fu ingaggiato dal celebre Teatro alla Scala di Milano, dove esordì ne I puritani. Seguirono apparizioni in tutta Europa. Il 3 dicembre 1906, salì sul palco della Manhattan Opera Company, ancora ne I puritani. Stette ben due stagioni nella famosa Compagnia, diventando per il pubblico una sorta di competitore di Enrico Caruso, il quale era allora la maggiore attrazione della rivale Metropolitan Opera, per il quale, peraltro, Bonci avrebbe poi firmato nel 1908. Dopo la sua esperienza newyorchese, Bonci intraprese un lungo tour canoro intercontinentale durato più di un anno, fra il 1910 e il 1911 e, quindi, fu messo sotto contratto dalla Chicago Opera, nel 1914. Il 30 dicembre 1913 fu iniziato in Massoneria nella Loggia Otto agosto di Bologna, divenne Maestro massone il 19 marzo 1914. Scoppiata la prima guerra mondiale fu richiamato alle armi e servì fino alla fine del conflitto. Immediatamente dopo tornò negli Stati Uniti d’America per un tour di tre stagioni, che lo riportarono sul palco del Metropolitan e a Chicago. Fra il 1922 e il 1923 fu primo tenore del Teatro Costanzi di Roma. Dopo il 1925 cominciò a diradare i suoi impegni e a privilegiare la sua attività di maestro a Milano.

[3] Acruto Vitali poeta e pittore (1903-1990), a cura di E. Pecora, A. Luzi, S. Papetti, Fermo, Andrea Livi Editore, 2017, p. 12.

[4] G. Altamura, E. Pecora, M. Verdastro, Sandro Penna: il dolce rumore della vita, Asola (MN), Gilgamesh, 2022, p. 34

[5] Acruto Vitali poeta e pittore (1903-1990), cit., p. 9.

[6] Le letture e i discorsi tra i due amici sono comprovati da una fittissima corrispondenza ancora oggi conservata dalla famiglia Vitali.

[7] Si veda: A. Mastropasqua, MATACOTTA, Franco, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 72, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2008. Matacotta dopo l’infanzia e l’adolescenza trascorse a Fermo, si trasferisce a Roma per frequentare l’università. Matacotta ha pubblicato con lo pseudonimo di Francesco Monterosso alcune poesie sparse su riviste. Poi il 20 dicembre del 1941 pubblica i Poemetti col suo vero nome nelle edizioni di “Prospettive” dirette da Curzio Malaparte il cui vero nome era Kurt Erich Suckert. Nel gennaio del 1936 inizia la corrispondenza con Sibilla Aleramo, a quel tempo sessantenne; insieme intrecciano una relazione amorosa difficile e complessa che durerà sino al marzo 1946. Grazie a questo rapporto, Matacotta può consultare numerose carte di Dino Campana custodite dall’Aleramo (che aveva avuto col poeta una relazione durata dall’agosto al dicembre del 1916), e pubblica nel 1949 il cosiddetto “Taccuino Matacotta”, in cui riunisce alcuni testi inediti del poeta dei Canti Orfici. Nel 1939 si laurea con una tesi dal titolo “Giuseppe Ungaretti o della parola come mito”; due anni più tardi, nel 1941 parte per la seconda guerra mondiale ed è di stanza in Sardegna; più tardi si unirà ai partigiani. Finita la guerra, collabora con Il Mattino e Paese Sera. Nel 1946-47 fu insegnante di lettere nella Scuola Media di Civitavecchia, di cui era preside Guglielmo Cascino. Nella scuola si volevano portare avanti alcuni esperimenti di “scuola attiva” sui quali Guglielmo Cascino riferisce in un suo testo: Nuovi orientamenti per la scuola secondaria, edito presso Paravia nel 1951.

[8] L. Trapè, Licini, Leopardi e il paesaggio sublime, Macerata, edizioni Ephemeria, 2019.

[9] G. Altamura, E. Pecora, M. Verdastro, Sandro Penna, cit., p. 56.

[10] G. Altamura, E. Pecora, M. Verdastro, Sandro Penna, cit., p. 60.

[11] A. Vitali, Il tempo scorre altrove, All’insegna del pesce d’oro, Milano, Scheiwiller, 1972.

[12] A. Vitali, Il tempo, cit., p. 19. La medesima poesia era già stata pubblicata nella presente raccolta nel 1921.

Riccardo Renzi

A Sylvia Plath – dedica di Anna Rita Merico

1 marzo 2023 by

Sylvia Plath

Sylvia Plath / Bettmann / Getty Imag.

11 febbraio 1963

11 febbraio 2023

di Anna Rita Merico

Sylvia,

ti guardiamo attraverso scatti fotografici. Tra essi intercorrono universi. Scatti in cui sei in America, prossima al matrimonio con Ted Hughes. Radiosa, mondo in mano, penna negli occhi. Volto della nostra contemporaneità. Pensieri nascosti e densi, risata piena su una sabbia calda in cui mostri fattezze e profilo esplosivo. Sei il doppio di ogni nostro percorso espressivo. Un doppio bacato, autentico, espressivo, ombroso.

I tuoi capelli sempre raccolti o mossi, folti… cosa accadeva quando erano intrecciati agli elettrodi? Raccontaci l’ossessione del desiderio e le parole che non hai trovato per narrarci quello stare in croce ad una maternità da cui ti sei sentita sbarrato il passo. Famiglia, ruolo, middle class… narraci la tragedia, oggi. Non è più tragedia consumata nelle regge tra principi, aedi e regine. E’ tragedia che ti è sgusciata all’angolo di una morte impastata di sonniferi, nelle nebbie di Londra, all’interno del tanfo del panico mentre Ted si defila dal fallimento incontenibile del vostro passato stare.

Frieda e Nicholas dormono nell’altra camera, la luce bagnata dell’alba è il momento che cerchi per tornare a scrivere, sola come bestia braccata. Dopo l’abbandono di Ted la tua poesia divampa, ribolle. Sei febbricitante dall’estate, siamo a dicembre: decimi di febbre perpetui o danza acuta di parole sotto la pelle, dentro le cellule, nei labirinti del pensiero?

La casa di Fitzroy Road, al 23, a Primrose Hill, attende che tu metta in ordine scatoloni, riponga tende, prepari cena, rimbocchi coperte ma tu stai lì a difenderti dalla solitudine mentre le parole ti sferzano, schiaffeggiandoti da ogni dove. Immobilizzata tra la vernice che hai acquistato per dipingere le pareti della camera dei bambini e la scrittura che ti porta al laccio. Hai ragione: la Bibbia è quella dei Sogni.

Il piccolo Nick dorme ancora, per fortuna. Le mani vanno al manoscritto, legato in una cartellina… moglie esangue dell’ormai famoso Poeta… cosa ci fa una moglie dentro una poeta? Per Ted… beh, un marito può starci dentro un poeta… se solo tu, Sylvia, avessi fatto il tuo dovere di madre, cucita dentro il tuo ruolo. E’ stata questa la tragedia? Senza regge e senza troni. Dentro ad una cucina. Barricata ad una scrivania senza studio, alla ricerca di un ordine che governi la Furia.

Nick arriva è nel suo pigiamino, grida. Frida è nel lettino accanto, frangetta corta e pugni chiusi. Le tue ossa sono sporche di sangue raggrumato, dai tuoi seni le ultime gocce di latte acquoso. Li prendi entrambi sulle gambe insieme al tuo manoscritto da ultimare. Un coltello ti taglia il cuore mentre muta laceri l’aria con lo sguardo.

Eppure è ora che tu riprenda a scrivere in questi mesi di neve, di gelo, di bianco, di corpo sottile e lavato, schiuso alla speranza. Ha accolto, Ted, questa nuova fede che tu hai sentito per te? Il manoscritto con le pagine per Ariel non è giunto a noi come tu ce lo avevi indicato. E’ forse tutta qui, in questo minuto gesto, il senso di una nostra sia pur piccola comprensione?

Ted ha infilato le mani nel dentro del tuo processo creativo sentendosene padrone perché marito. Quella mattina gli avevi portato il manoscritto completo ma lui, per giorni, non lo aveva guardato. Forse non ne aveva percepito la bollente materia di cui era fatto. O, forse, tanto… pensava di conoscere tutto di te…

Hai atteso risposta. Come hai ingannato il tempo dell’attesa attaccata alla corda del giudizio che doveva giungerti da chi ti aveva raschiata? Una poeta estraniata dal mondo. Quale mondo? Quello vuoto della parola dell’intelletto. Ma tu, Sylvia, di quale parola ci dici quando ci additi il mutismo di una natura che non è silenzio ma radice altra di generazione?

Quegli elettrodi che ti hanno colpito nelle viscere del pensiero hanno, forse, colpito gli occhi di ciò che tutti noi, oggi, stiamo cercando?

***

*

1674345406102Anna Rita Merico vive nel Salento. Originaria di Nola (Napoli). A Nola ha imparato il senso profondo dell’antropologia attraverso l’imponente Festa dei Gigli (patrimonio immateriale U.N.E.S.C.O.), le strade del libero pensiero attraverso lo studio dei due nolani Giordano Bruno e Pomponio Algieri. Laureatasi presso Università Federico II in Filosofia con tesi in Dottrine Politiche sul pensiero di Carla Lonzi che le ha consentito di intraprendere un percorso mai lasciato: quello sulle politiche della soggettività. Ha tenuto insieme due parti importanti della propria attività: l’insegnamento e la ricerca sugli studi legati alla conoscenza del pensiero femminile con particolare riferimento all’epoca contemporanea ed al medioevo. Intensa attività di saggista, collaborazione a riviste e partecipazione a collettanee. Nel corso del tempo lo spazio preso dalla scrittura poetica, pur essendo stato un luogo da sempre praticato, è andato delineandosi come centrale nell’attività creativa di pensiero definendosi come punto d’incontro generativo tra conoscenza filosofica e poesia. Nell’arco produttivo dell’Autrice ha avuto un ruolo centrale la domanda sull’essere della parola e la sua genesi nell’impasto con il silenzio e la spiritualità. Oltre alle sillogi qui raccolte, sempre per Musicaos Editore, ha pubblicato (2020) la raccolta di testi poetici Era un raggio… entrò da Est, e Fenomenologia del silenzio (2022).

Annamaria Ferramosca – Eliza Macadan

18 febbraio 2023 by

Quando la poesia sfiora la scienza, la mente si accende e la luce dei versi illumina e conforta chi ne viene incantato. Così avviene nella poetica pervasiva e luminosa di Annamaria Ferramosca in questa  bellissima plaquette di poesie tradotte da Eliza Macadan.
L’oceano è una vastità in cui ogni verso è un’onda che appare, ma non scompare veramente mai, perché appartiene a quella stessa immensità.

Un felice incontro di poetesse, da non perdere.

Annamaria Ferramosca è nata in Salento e vive a Roma, dove ha lavorato come biologa docente e ricercatrice, ricoprendo al contempo l’incarico di cultrice di Letteratura Italiana per alcuni anni presso l’Università RomaTre. Ha all’attivo collaborazioni e contributi creativi e critici con varie riviste nazionali e internazionali e in rete con vari siti italiani di poesia.
Ha pubblicato in poesia: Andare per salti, Arcipelago Itaca (Premio Arcipelago Itaca, selezione Premio Elio Pagliarani, Premio “Una vita in poesia” al Lorenzo Montano2020, finalista al Premio Guido Gozzano e al Premio Europa in Versi); Other Signs, Other Circles – Selected Poems 1990-2008, volume antologico di percorso edito da Chelsea Editions di New York per la collana Poeti Italiani Contemporanei Tradotti, a cura di Anamaría Crowe Serrano e Riccardo Duranti ( Premio Città di Cattolica); Curve di livello, Marsilio (Premio Astrolabio, finalista ai Premi: Camaiore, LericiPea, Giovanni Pascoli, Lorenzo Montano); Trittici – Il segno e la parola,DotcomPress; Ciclica, La Vita Felice; Paso Doble, coautrice la poetessa irlandese Anamaria Crowe Serrano, Empiria; La Poesia Anima Mundi, monografia a cura di Gianmario Lucini, con i Canti della prossimità, puntoacapo; Porte/Doors, Edizioni del Leone (Premio Internazionale Forum-Den Haag); Il versante vero, Fermenti (Premio Opera Prima Aldo Contini Bonacossi).
Ha curato la versione poetica italiana del libro antologico del poeta rumeno Gheorghe Vidican 3D- Poesie 2003-2013, CFR (Premio Accademia di Romania per la traduzione).
Sue poesie appaiono in numerose antologie e volumi collettanei e sono state tradotte, oltre che in inglese,in rumeno, greco, francese, tedesco, spagnolo, albanese, turco, arabo.

Eliza Macadan vive a Bucarest e scrive in romeno, francese e soprattutto in italiano. Esordisce sulla stampa letteraria nel 1988 e con un suo volume, “Spazio austero” (Romania, Edizioni Plumb), nel 1994. Le sue raccolte di poesia hanno ricevuto vari riconoscimenti in Romania, Francia e Italia (Premio Leon Gabriel Gros 2014 per “Au Nord de la Parole” e “Anestesia delle nevi”, finalista dei premi Camaiore e Fabriano 2015).

Le raccolte italiane sono: “Frammenti di spazio austero” (2001, 2018), “Paradiso riassunto” (2012), “Il cane borghese” (2013), “Anestesia delle nevi” (2015), “Passi passati” (2016), “Pioggia lontano” (Archinto, 2017), “Zamalek, solo andata” (Terra d’Ulivi, 2018) e “Pianti piano” (Passigli Editori, 2019).

Abele Longo

10 febbraio 2023 by

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ABELE LONGO, Scrittura con vista, Terra d’ulivi edizioni 2023

Nota empatica di Annamaria Ferramosca

Umanissimi mondi al di là del vetro

Osservare dalla finestra è azione colma di aspettative e visioni inattese che a volte possono rasentare il prodigioso. L’evento può accadere abitualmente ad un poeta come Dylan Thomas dal suo capanno di Laugharne o anche ad una bambina che guarda fuori dalla sua finestra quel capanno o forse il mondo di là dal vetro interrogandosi sulla vita il suo scorrere. Leggendo queste poesie di Scrittura con vista di Abele Longo mi sono anch’io riconosciuta in questo avido sguardo interrogante e ho compreso come ognuno che guardi oltre il vetro riceva risposte sempre illuminanti, che emergono dal subconscio e dal vissuto, fondendosi con la realtà. Ed è questo mix insieme visionario e reale che dilata la percezione e conduce chi scrive verso percorsi inattesi che pure trovano agganci – come lasciti memorabili – nelle parole di autori amati e sentiti affini, come si legge dalle significative epigrafi che Abele Longo pone all’inizio di questa sua nuovissima raccolta. Una “scrittura con vista” dunque nel vero senso della parola, che dopo dieci anni dal libro d’esordio (Reversibilità, AdTO 2012), segna il traguardo di massima maturazione tematica e stilistica dell’autore.

Il poeta, come è noto, scrive mentre guarda il divenire fuori e dentro di sé e lo fa, anche inconsciamente, per obbedire alla “compresenza-compassione verso gli altri”, “per salvare ciò che andrebbe perduto e per scavare nella propria interiorità”, e pure “per un raffronto tra il prima e il dopo”, e per soddisfare l’esigenza di “dare ordine alle cose”, come acutamente annota – suoi tutti i virgolettati – Doris Emilia Bragagnini nella sua lucidissima prefazione. Ed è pur vero che la sequenza di testi in cui si evidenzia la tensione dell’autore alla compassione verso gli altri, compresi i trapassati, è dichiarazione di totale adesione a quella prossimità profondamente civile caratteristica della vita e dell’opera di Danilo Dolci, di cui Abele Longo è profondo estimatore e cultore. Una prossimità che nei primi testi brevi e densi come singhiozzi, attraversa le scene realistiche del degrado e della povertà come la morte di un bambino, la maternità che sopravvive a ogni strazio, il povero che fruga negli scarti, l’operaio ucciso dalla pressa. E pure emerge il contrasto ricorrente tra spinta vitale e idea intransigente della morte, come nell’intensa poesia Treno

[…]
Passerà anche questa con l’insolvenza
delle cicale sotto la calura
l’immagine sgualcita di un bambino
esile che prende il treno per il mare
e una chiusa sulla morte che vaga
casellante da una stazione all’altra

Ritorna quel sensibilissimo sguardo del poeta, che ricordiamo nelle pagine di Reversibilità, capace di cogliere per memorabili fotogrammi, che trapassano fino all’osso, una vita che sembra non aver riparo.Tutta la fragilità contemporanea è catturata e messa allo scoperto con un lessico essenziale, scabro, assolutamente non lirico, che predilige toni amari e sommessi, spezzati a tratti da fulminanti squarci dislocanti, come nei versi

santa spossatezza di vivere
… una fila di pianoforti/ a picco sul mare andaluso
…e l’erba sotto i piedi scalzi/ per sentire come prima/ del tempo del bisogno

Il senso di perdita dell’umano, la caduta verticale del senso di solidarietà e pietas attraversano ogni luogo visitato dai versi, sia il Laugharne del Galles, che le città di Otranto e Castro del Salento, la Chacabuco del Cile o il Cortile Cascino di Palermo, luoghi che divengono simboli di tutti i luoghi tormentati del mondo, come bolle di deriva umana, universali.

E pure i versi lasciano filtrare la speranza-luce di un senso di umanità residua che esiste e resiste, come quella degli angeli maldestri, che sembrano di poco conto, ma sono invece da tenere in gran conto, e sono i nostri forse pochi ma solidi amici, con cui cercare un’inversione di rotta, una possibile ricostruzione, un altro abitare.

[…]
La notte dopo il tuo funerale
venisti a trovarmi sotto casa
ti guardavo attraverso la finestra
accendere la sigaretta
curvato nel gesto antico

così come è sempre stato da quando
ci insegnarono a dividere la lavagna
in buoni e cattivi
gli angeli con me hanno vita strana

sono io che li consolo
maldestri mi somigliano nello spirito
sono angeli che in terra contavano poco

Vediamo il poeta sentire poi forte il bisogno di nominare, in segno di affetto e gratitudine, tutti questi veri amici e tutte le figure etiche che hanno lasciato in lui tracce memorabili, con la dedica che appare in ogni testo, sotto il titolo.

E ancora, indelebile nell’immaginario dell’autore di origine salentina, ritorna il Sud bodiniano e contadino nella sua incancellata dimensione di amara penitenza (caremma) e pure nel suo stravolgimento attuale, con le scene di un territorio turistizzato che diviene sempre meno identitario. E si percepisce quella sottile salentudine, che è un inesprimibile sentire, come un duende di postura calda, familiare e accogliente, target umanissimo che Abele Longo, anche inconsciamente, inevitabilmente trascina nella sua scrittura.

[…]
la soggettiva di una foca monaca
la caraffa d’acqua col centrino
accanto la bolla dei santi medici

uno dei due macera d’amore
l’altro sbatte la testa contro il vetro

Qui dove la voce del papa
imita la raucedine di dio
attecchisce l’ansia della caremma

Nella parte finale della raccolta, con squarci pittorici e finissima lettura psicologica, l’autore assegna le ultime pagine ad un gruppo di poesie che ritraggono da varie angolazioni la tormentata vita di Dylan Thomas, con i suoi strambi slanci, errori e sublimi deliri, come un sincero lascito di ammirazioine e gratitudine al grande poeta inglese. E poi, lo stile di Longo. Lungo tutta l’opera colpisce questo suo stile personalissimo consolidato, con una forma che diviene icastica per scelte asintattiche e neologismi (diveltano, sovrarcare,etc.), scelte lessicali e ritmo modulati, capaci di trasmettere amarezza e ironia, cruda realtà e visione etica, risolvendosi ancora una volta nel mistero realizzato della poesia.

gennaio 2023, Annamaria Ferramosca

*

*

AbeleLongo

Abele Longo nato a Depressa (Lecce), è docente dal 1999 presso la Middlesex University di Londra. Si occupa di ecocritica (cinema e poesia), ecopedagogia, traduzione audiovisiva e letteraria. Tra le sue pubblicazioni Danilo Dolci – Environmental Education and Empowerment (Springer, 2020); ‘Roma, viandanza dell’esilio. Rafael Alberti tradotto da Vittorio Bodini’ (in N. di Nunzio e F. Ragni, Morlacchi Editore, 2014); ‘The Cinema of Ciprì and Maresco: Kynicism as a Form of Resistance’ (in W. Hope, Cambridge Scholars Publishing, 2010); ‘Subtitling the Italian South’ (in J. Díaz-Cintas, Multilingual Matters, 2009). Ha inoltre pubblicato, per le Edizioni Accademia di Terra d’Otranto – Neobar, la raccolta Reversibilità (2012), come co-autore Pugliamondo (2010) e con il collettivo Poeti per don Tonino Bello La Versione di Giuseppe (2011) e Un sandalo per Rut (2014). Fa parte dell’antologia, a cura di Giorgio Linguaglossa, Il rumore delle parole Poeti del Sud (Edilet Edizioni Letterarie, 2015).

Mirko Boncaldo

23 gennaio 2023 by

   

                  

Senza titoli. Sovversi è un’opera inconclusa, in fieri. Due sensi decretano il nome di questa raccolta: la negazione valoriale della titolarità dell’autore e l’assenza dei titoli dei componimenti. La prima strada rivela la natura di persona interposta, di soggetto preso a prestito, a cui la poesia non si riduce, di fatto questi versi si sono riversati contro l’autore per liberarsene. La seconda, libera il gioco interpretativo attraverso il quale è il lettore a ricostruire il senso dei componimenti, poiché questi non hanno un titolo di riferimento. Porte aperte. Il resto è auspicabile non si spieghi. L’autore sarebbe anche rimasto anonimo, il suo nome è conservato solo in omaggio alla prassi.

Della raccolta scrive l’editore Giulio Milani:Nessun “mero fatto” viene esaurito in una descrizione. Qui il linguaggio gioca una partita contro sé stesso, i suoi limiti, per far emergere l’illimitato, o se vogliamo l’irriducibilità dell’essere al contenuto di una proposizione. L’espressività in una deriva che frange gli io, la parola, fino allo smarrimento di ogni referente.”

                     

                            

                        

Da grembo a tomba scandaglia
nella fibra sfilacciata del tempo
per sceverare lo scorso, il vivo e l’entrante
in attesa della vampa: fa la spola
dall’altra sponda giungendo
lisa alla vita come una cintura
o la ragnatela.
                           
                   
                    

come un funambolo in bilico oscilla
sul sottile bivio in attesa di divaricarsi
tra il vuoto e l’ignoto, scissa
a doppio taglio fino a capovolgersi, ubiqua
come sull’acqua tiepida, dolce.

                           
                   
                    

con le punta di dita, rorida
come brina sulle sgretolate screpolature
vieni
e sobilli atavici sedimenti
di fiori sconosciuti e incandescenti
incredule ombre
che l’acqua non regna, lontana
che bagna:
suffragetta, partigiana, femme.

                           
                   
                 

elevo: è vocazione
che dalla tua voce immane
scuote e in me permane
provocante consunzione
ascoltarti di nuovo
parlare nel silenzio pesto,
leggiadra invocazione,
ladra delle parole.

con te mi sperpero.

                                                                    
                                                  

Dove mesce il torrente nella valle
i muretti a secco riparano aranceti,
melograni, ulivi, un vecchio mulino
in rovina e la memoria di mio nonno
seminata nei grani antichi di Sicilia,
nelle sigarette sfuse di mio padre,
nei finissimi spilli del fico d’India
trapunti nelle mani di un bambino.

ammassati come il pane,
questi sono i miei ricordi, le mie
confabulazioni.

                                                     
                                       

per ogni lacerto latrato
che la storia non racconta
raccolgo ogni memoria.

è la scorta di scarti accumulata
rimossa
blinde
che più non si dice.

scancellata
logorata
massacrata

è l’ultima non l’ultima rivolta parola
quella che si perde
quella che non si ritrova.
apolide.

                                                     
                                    
                    

Solo lungo inverni osservo:
bianco fulgido incanto
che il perlaceo estatico manto
ridiscopre: tempio
ineluttabile tempio assorto
nel buio abbaglio di isole
remote: faro, si, faro
o cigno che schiude le ali
dell’ultima canzone
sospinto dallo zefiro
e dunque fremito: sole,
è sole dal lago che chiami,
che chiami e ancora
affinché l’aia disveli
e sulle scogliere sollevi: Domani.

                           
                   
                              

Mirko Boncaldo è nato nel paese di Bartolo Cattafi e da qualche anno ha 25 anni. Vive a Bologna dove ha studiato Lettere Moderne e Semiotica: qui si occupa di comunicazione e viaggi nel futuro. Si dedica alla poesia sin da giovane, seppure, fino a questa pubblicazione, privatamente. I suoi interessi personali si rivolgono in particolare alle tematiche di genere e della tutela ambientale. Questa è la sua prima silloge.

Carmen Lama – Valentino Vitali

15 gennaio 2023 by

I confini dell’acqua. Fotopoesie.

di Carmen Lama e Valentino Vitali

Ed. Youcanprint



D’un istante perfetto

Non lumi di memoria né ricordi

ma solo la bellezza dell’istante

che non si perderà

incastonato com’è fra cielo e lago

mentre vagano gli occhi alla ricerca

dello sguardo poetico che ha colto

lo stupore il silenzio l’abbandono

                 



Anche se il lemma non compare nei vocabolari (e non soltanto in quelli italiani), il termine fotopoesia  e le sue molteplici varianti tra tante: fotopoema, fotopoetry, fotoverso, fotograffiti,  – vengono ormai da lungo tempo impiegati per designare una forma d’arte in cui poesia e fotografia, poste su un piano di pari dignità, si intrecciano simbioticamente per dar vita a un prodotto artistico nuovo, originale, complesso e unitario al tempo stesso. 

La prima attestazione dell’uso della parola si fa risalire al 1936, e per quanto l’accostamento tra immagini e versi sia già ampiamente praticato, la sua presenza nel titolo di una raccolta (Photopoems: A Group of Interpretations through Photographs  di Constance Phillips) offre al termine una indiscutibile legittimazione.

Sin dalle esperienze pionieristiche delle avanguardie novecentesche, poi riprese con interesse crescente dalla fine degli anni ’50, si osserva come e quanto gli artisti subiscano il fascino dell’interlinguaggio, derivandone sempre nuove posture nei confronti della realtà e raffinando strumenti per operare feconde intersezioni tra le arti. È indubbio che la pratica fertile delle contaminazioni tra discipline artistiche abbia contribuito a sfumarne i contorni, lasciando emergere aspetti di sorprendente continuità al di là degli steccati categoriali.

In generale, gli studi che nel corso del Novecento affrontano le questioni messe in campo da questo genere di fenomeni artistici, anche muovendo da vertici e prospettive diverse,  pongono comunque l’accento sull’importanza di non limitarsi a pensare alla ‘con-fusione’ delle arti come a mere sovrapposizioni o giustapposizioni, come esito di una semplice sommatoria, ma di coglierne la costituiva natura di eventi dotati di nuova e diversa dinamicità, interattività, imprevedibilità, ed esortando a pensarle come vere e proprie simultaneità produttive, secondo l’espressione che Adriano Spatola utilizza nel suo celebre saggio  Verso la poesia totale (1969).

Non difformemente, del resto, pur non muovendo da interessi estetici quanto piuttosto di ordine conoscitivo, nel campo degli studi sperimentali sulla percezione la Psicologia della Gestalt perveniva già a inizio secolo a conclusioni analoghe, quando affermava che il tutto è più della somma delle parti, sancendo definitivamente un principio che avrebbe mostrato la propria forza investendo ogni ambito culturale e ponendosi come premessa a ogni discorso sulla complessità.

Ed è proprio avendo bene in mente tale stimolante complessità che si offriranno giusto ascolto e aperto sguardo al libro di Valentino Vitali e Carmen Lama, dichiarata e ottimamente compiuta opera di fotopoesia, affascinante simbiosi di luce e parole, di immagini visive e verbali, intreccio originale di immediatezza visiva e condensazione semantica.

Se è vero che nella fotografia come nella poesia il significato non è mai fissato definitivamente e, soprattutto, non è contenuto esclusivamente all’interno dell’opera ma dipende invece (anche) da un fruitore che – ne abbia coscienza o no – lo costruisce e ricostruisce in base a un numero inafferrabile di fattori, tra i quali la propria sensibilità, la cultura, il contesto, lo stato d’animo, etc., nella fotopoesia la natura dell’interazione tra foto e testo poetico dilata ulteriormente il potenziale semantico dell’immagine e quella silenziosa pensosità di cui parla Byung-Chul Han ne La salvezza del bello (2019), ne rivela il nascondiglio, dispiega senza spiegare, e, contemporaneamente, offre enfasi all’istantaneità del testo poetico e alla sua densità.

Esattamente come raccomandato nel «Manifesto di fotopoesia», esito delle interessanti collaborazioni tra Robert Crawford e Norman McBeath, rispettivamente poeta e fotografo britannici, così come le fotografie non dovranno porsi quali  illustrazioni dei testi poetici ma opere d’arte che risuonano insieme a essi, le poesie siano ben lungi dall’essere mere descrizioni delle immagini.

Qui, in particolare, la poesia di Carmen Lama, dettato trasparente, eleganza formale ricercata e raggiunta dentro forme chiuse che rivelano un orecchio affinato da letture vaste e lungamente meditate (e che, per inciso, richiamano alla mente la “cornice” fotografica) non è mai ancillare didascalia dell’immagine che, al contrario, con assertiva pacatezza, illumina mentre se ne lascia illuminare.

I temi rappresentati l’inesausta aspirazione alla bellezza, la cattura dell’istante, l’umanissima tenzone con il tempo, il suo inarrestabile fluire, e, su tutto, il paesaggio, segnatamente quello lacustre, un paesaggio che, zanzottianamente, è anche «orizzonte psichico» – emergono nell’armonico rincorrersi di versi e luce, insieme agli interrogativi fondamentali sulla percezione visiva, sullo scarto irriducibile tra visione e sguardo, tra realtà e immagine. La poesia talora riflette su sé stessa, sul privilegio della meraviglia, sulla propria responsabilità; si arrovella sul rapporto tra parola e cosa: «Scrivo “pozzanghera”/e già si muove un riflesso di luce/nell’acqua fangosa che forma la parola/che “è” la stessa parola». Nel farsi sempre più sfumato dei confini «fra soggetto e oggetto», tra sé e mondo – sono confini d’acqua, del resto,  che, già a partire dal titolo della raccolta, ossimoricamente sfuggono alla presa –  l’io lirico sembra maturare una nitida visione metapoetica: «La trasparenza della fotografia/è uno sguardo che si spinge lontano/(…)/talvolta con serendipità/scopre angoli nascosti/porta alla luce dei veri tesori», recita un testo particolarmente pregnante.

«Il rapporto tra poesia e fotografia è di rottura e serendipità, appropriazione e scambio, evocazione e metafora», scrive Michael Nott nel suo saggio Photopoetry, 1845 – 2015. A critical history (2016): quella di Lama è dunque una netta dichiarazione di poetica. Mentre i suoi versi e la fotografia evocativa di Vitali portano in scena, appropriandosene, la sensuale bellezza dei luoghi ritratti («sono questi i miei luoghi», scrive la poetessa), si occupano simultaneamente di ciò che è visibile e di quanto non lo è. Le parole che Antonio Prete dedica al saggio di Yves Bonnefoy, Poesia e fotografia (2014) lo spiegano con invidiabile chiarezza: «(…) nell’implacabile rivelazione del caso, della nuda materia, dell’assenza che la fotografia ha introdotto, ci può essere, grazie all’alleanza tra lo sguardo del poeta e lo sguardo del fotografo, una nuova presenza, un nuovo tempo. Un’immagine salvata. Il nulla non avrà trionfato».

Patrizia Sardisco


                             

 

Un lago

Un lago – la sua linea d’orizzonte
la simmetria che specchia le montagne
i rami di betulle che accarezzano

(lunghi capelli vaporosi all’aria
o curvi come salici piangenti)

due cigni solitari che abbandonano
un’antica inquietudine
eleganti sull’acqua scivolando –

…….

 

 Per un futuro d’acqua

*se mai dovesse nascere di nuovo*

Oh, no – non ci saranno altre rinascite
si attendono non-luoghi – e orizzonti sfuocati
laddove non si arriva e non si parte

dove i ghiacci in silenzio
si ostinano a pregare
per un futuro d’acqua –

una forma diversa di rinascita
e poi nient’altro affatto –

Antonio Sambiase

6 gennaio 2023 by

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Dalla nota introduttiva: “I miei versi nascono da un’esigenza di dare voce, e forse anche qualche contorno, alle emozioni di esperienze vissute da me o da chi mi sta vicino, o da una persona qualsiasi che ha catturato il mio sguardo camminando per strada o viaggiando in metropolitana. Così un momento qualsiasi della quotidianità, mia o di una persona a me sconosciuta, diventa soggetto dei miei versi.”

Poesie estratte da Momenti di Antonio Sambiase (Controluna edizioni 2022)

Non arrenderti (p. 11-12)

Andare avanti per inerzia,
sentire il calore del sole
che brucia la pelle
ma non provare dolore.

Mi sento un pesco,
bloccato sotto il sole d’estate,
inerme, illeso.

Ma sento che devo andare:
camminare, correre, arrancare
per cercare il lume nel fondo,
per dar luce a questa misera vita
di bianco e nero vestita.

Non vedo sfumature,
ho un arcobaleno dentro
che non riesce ad uscire.
Mi sento freddo,
mi sento morto.

Sono un salice piangente,
ho i nervi a pezzi,
si contraggono, fanno male,
trattengo il mio dolore.

Sono un fiore di una landa desolata,
appassito, dal colore spento.

Steso me ne sto
su un misero letto d’ospedale.

*

Ritrovo me stesso (p.21)

In questa notte
tra musiche e parole
rivedo quel piccolo fanciullo.

Mi saluta, mi parla
non lo ricordo.

Una faccia così familiare.

*

Sospensione (p. 25)

Sono sospeso,
abito il mare,
abito la terra,
uccello marino e terrestre.

Vivo di ricordi,
vissuti o immaginati?

Altro non sono
se non un essere privo di forma.
Inconsistente nell’animo
e nella carne.

Fui forma o fumo?
Evaporo, prendo forma,
ho un corpo
tangibile ma inafferrabile.

Percorro rotte,
con mete note,
da una bussola guidato.

Oh, potessi non averti!
sarei senza meta,
senza strada,
sarei essere libero,
sarei aria, acqua e terra!

*

Condannato (p. 46-47)

Cede il mulo
mandato su e giù
per l’arida terra
a trasportar le stracolme
ceste del mattutino raccolto,
che mai potrà mangiare.

Sta là, a giovar ad altri
non a lui.

Ridotto per l’altrui
volontà, ad essere un mezzo.

Spento nella sua natura,
usato per la sua forza,
chiuso in un recinto
e libero
in un recintato campo.

Strigliato e bastonato
ad ogni freno da lui posto.

Eccolo lì all’ennesimo giro
tra la stalla e i campi.

Cedono le zampe,
è sfinito ormai!

Cade a terra.
Ora è libero.

*

Il vuoto (p. 44)
Giorni, sono giorni ormai
che mi accompagna una (dolce) malinconia,
che non ho sentito mai
in me. Mi tormenta
mi parla, mi incanta.

Ore passate a guardare
il vuoto, senza saper che fare
del futuro imminente.
Lei mi desta strane idee in mente.

Manca il coraggio di metterle in atto.

*

Di notte (p. 45)

Di notte me ne stavo
ad osservar il duro incavo
tra il soffitto e la parete,
che mi proteggono,
i pensieri velocemente intenti a scorrere
come un burrascoso torrente,
distogliendo dalla mente
il tempo presente.

*

Falso arrivederci (p. 27)
Delle voci si sentono dalla finestra:
saluti e baci scoccati si odono,
richieste di un’ultima foto insieme.

Con tono di voce da ubriachi.
Si sente lo sbattere delle bottiglie
ancora mezze piene.

Una urla: “mi mancherai”, palesemente
ubriaca, l’altro risponde; “lo vedremo”,
palesemente sobrio, un ultimo abbraccio.

Si separano.

Non si vedranno più.

Foto Antonio

ANTONIO SAMBIASE, classe 1993, nasce a Parghelia in provincia di Vibo Valentia. Dopo gli studi scientifi ci si è trasferito a Roma e si è laureato in Filologia Moderna, per poi intraprendere studi biblioteconomici. Oggi si dedica al suo lavoro da bibliotecario, alla letteratura e alla poesia. Momenti è la sua opera prima.

Giuseppe Settanni

19 dicembre 2022 by

                                      

                             

*

nel frattempo, galleggiavi
attaccato alla rete

e quel figlio
avrebbe dovuto riscaldarsi
accanto a te

la colpa era scontata:
un lenzuolo, una lampada

respiravi con regolarità

fino a quando
il tentativo
di rendere impraticabile
quell’anima pesante?

il caffè è torbido,
forse si può rinascere
anche senza la speranza

                               

                           

*

piove fango

premio di una saldatura,
conservazione garantita
al minimo

ripetendo
ripetendo involontariamente
involontariamente e al freddo
battere il ferro
finché morte non mi separi

                        

                  

*
al telefono
una volta l’anno
in cerca di dilatazioni
barattoli senza scadenza

ti ricordi
della passeggiata in cattedrale?

avrò avuto, futuro anteriore
in disuso

i cardini rosicchiati
topi nella baracca
quintali di legna
sui binari le formiche

allora quando ci vediamo?

                       
                      

*
se faccio la conta
qualcuno manca sempre
e non posso prosciugarmi
per svanire tra le zolle

al vento rispondo
potevi farlo tu

no, sono il primo a non crederci
a non credermi

alcuni piedi si allontanano
come il pane fatto in casa

                      
                         

*
come volevi
hai portato a termine
la sostituzione

il fermacarte
trattiene i rimpianti,
velleità descritte
a matita

un mondo sbilenco
pronto a riceverti e svanire

accoglimi nel tuo anonimato
dove le definizioni si confondono
con le lancette tagliate a metà

                                 
                            

                                                         

Postfazione
di Ilaria Triggiani

 

                               
Cosa fa di un verso, una poesia? Cosa rende un uomo, anche un poeta?
Sono queste le domande da porsi al termine di Affreschi strappati, terza pubblicazione di Giuseppe Settanni, arrivata un po’ insieme alla stessa maturità anagrafica dell’autore.
Forse perché, già dal titolo, si avvertiva un senso di rottura, un piccolo momento – o motivo? – di ribellione, un’inquietudine non ancora risolta, ma finalmente rivelata.
Come fece l’immenso Montale negli ultimi anni di vita e in risposta a coloro che incessantemente chiedevano cosa la poesia fosse, quale atto – umano o divino – la rendesse tale, dopo questo libro è lecito ancora domandarselo. Se lo chiede il lettore, ma ancor prima l’autore. Poiché è l’autore il primo destinatario del suo stesso poiéin. Poiché la riflessione sul linguaggio, determinante nella poesia di Settanni, qui diventa
umanamente urgente. Poiché da questi versi emerge prepotente una curiosità nuova, rinvenire chi si cela dietro la poesia, e poi ancora dietro il poeta. Come in un gioco di scatole cinesi. Come se la poesia, l’arte, si potessero spiegare empiricamente.
O psicanaliticamente.
Ma il poeta ha la straordinaria dote di affrontare tutto con naturale leggerezza. Anche ora che la materia prende corpo, che il pantone lascia spazio alla scala cromatica, l’ansia non prevale sulla ragione. Il linguaggio si fa più asciutto,
quasi tagliente. Il senso metafisico permane, nella forma e nella sostanza, ma questa volta, purezza e misticismo si alternano a modi crudi, talvolta indelicati, quasi l’autore avesse trovato coraggio. Coraggio di squarciare il velo classico della perfezione e gridare al mondo istanze nuove e potenti.
Ecco che allora la celestiale geometria piana dei pensieri si concretizza, lasciando trapelare un umanesimo talvolta sconosciuto.
L’inconsistente fluttuare delle prime poesie si sporca un poco di terra e sangue, rendendo l’atmosfera più carnale, esiziale. Pur continuando a giocare abilmente tra sacro e profano, ora il poeta sceglie di stare nel mezzo, in un interstizio corporale fino a oggi inesplorato. Sicuro solo all’apparenza, il poeta procede in una sorta di “dialogo allo specchio”.
Talvolta insorge, a volte ripiega, illudendo il lettore di aver smarrito la via.
Sempre più la lirica di Settanni si fa qui ricerca e non risposta.
Stupore e disturbo insieme. Verso il mondo e verso se stesso. Come a evocare una verità, ma allo stesso tempo rifiutando di volerla ascoltare. Che sia questo il momento della maturità, anche artistica, dell’autore?
Settanni sembra ancora non curarsene, perché sa che l’arte è libertà e la libertà è da assecondare.
È questa la sua sicurezza, sicurezza della maturità dell’artista: sapere, appunto, che non esiste sicurezza. Così come non esiste risposta. O forse sì. Dietro la poesia c’è il poeta e dietro il poeta c’è l’uomo! È l’uomo che fa dell’uomo stesso un poeta. Inutile nasconderlo! Nasconderlo mai. Confonderlo a volte.

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Giuseppe Settanni è nato a San Giovanni Rotondo nel 1981 e vive a Fano (PU). Laureato in Giurisprudenza, è avvocato e docente universitario presso l’Università di Urbino. Prima di Affreschi strappati (Edizioni Ensemble, 2022), ha pubblicato la silloge poetica Blu (Edizioni Ensemble, 2019 – Premio Anselmo Filippo Pecci). Con la poesia Fratture non scomposte è risultato vincitore al Premio Nazionale di Poesia Inedita Ossi di Seppia 2019 e con la lirica Il museo delle mancanze ha vinto il Premio Ariodante Marianni 2020; il suo testo Delirio dell’amore bestiale, invece, gli è valso il Premio Roberta Perillo al Concorso Ciò che Caino non sa 2020, mentre con la composizione Il richiamo è risultato vincitore assoluto al Premio Besio 1860. Ha ricevuto il Gran premio della giuria nel concorso I colori dell’anima (con In un logaritmo) e la sua poesia visiva Dialoghi è stata esposta alla Biennale di arte contemporanea “Luglio a Palazzo Merizzi 2021”. Suoi testi sono pubblicati su vari blog e siti letterari, quali Poesia del nostro tempoLa poesia e lo spiritoL’Altrove – Appunti di PoesiaMargutte, l’angolo Poesia del quotidiano La RepubblicaInverso – Giornale di poesia, l’Angolo degli inediti di Stampa 2009, ecc…