La poesia di Carla de Falco è un’intrisione nel travaglio umano espressa con “parole pugnalate dal silenzio” dove persino l’opulenza dei vitigni d’autunno “inebria di pena i filari“. L’autrice afferma: “sarò pioggia matta e sbieca come un poeta“, essa diventerà mare di pianto “che si specchia in un ramo di stelle“.
Anche la terra “vibra, trema e strilla” e ci sono “sfide vissute come guerre”, difatti la poesia “Valico di frontiera” si chiude con la parola “drogo”, che è appunto il signore della guerra. Questa è la perenne lotta umana, che provoca L’horror pleni: “sgomento del pieno, del tanto, del troppo. Bisogno magari di un mare di vuoto“. In realtà tutti noi temiamo il vuoto e il buio dello spirito, che invece qui è invocato come un refrigerio, non solo, anche una speranza perché il vuoto si può riempire con la poesia o l’amore, ma se l’anima è satura di spazzatura nulla potrà entrare.
L’ultima poesia proposta, Una stagione di solitudine, inizia da un punto centrale e pregnante del pensiero: “Museruole a serrare chiese e case“, ossia fede e famiglia sono imbavagliate, non hanno niente da comunicare o almeno così sente la poetessa: è il silenzio di una solitudine senza confini. La poesia si dirama, si accende e brilla con altrettanta intensità nella frustata finale: “non è più questo il giorno per sognare alcun sogno” dove il complemento oggetto interno evidenzia l’illusione del verbo.
vite d’autunno
ed ora anche da te
di un verde più intenso degli altri
cadono come a ventaglio
giovani figlie dell’aria.
trabocca un silenzio irreale
nel lento tormento del giorno
e tutto è come in attesa
sospeso ad un quieto ritorno.
intanto, nei legni ricurvi
il muto relitto del mosto
inebria di pena i filari.
sarò pioggia
quando sarò pioggia
scriverò lunghi addii sui vetri
spaventosa e fragile sarò rapida
matta e sbieca come un poeta
alla ricerca di un posto che non assorba
e non respinga.
spegnerò i rintocchi dei mercati
canterò in rivoli
luoghi di frontiera, abbandonati
abbracci senza catene
e senza appartenenze.
rugiada lenta sulla viola cima
sarò lieve brezza di mare
che si specchia
in un ramo di stelle.
valico di frontiera
si perdono i tratti conosciuti
sfumano lingue e prospettive
parole pugnalate dal silenzio
pensiero che arranca nell’altrove.
nessuna bandiera all’orizzonte,
il piede vacilla, senza terra
nell’assenza di arrivi e di partenza.
del confine cerchiamo ancora il segno
come cerchi di fumo dentro il buio, drogo.
horror pleni
il mare è quiete triste
è lama di coltello
profondità taciuta
tormento dell’abisso.
la terra è un suo frammento
e vibra, trema e strilla
da troppe catene infedeli spaventata.
vibriamo di parole perse nella rete
all’ombra di sfide vissute come guerre
scansando sempre ostacoli
ma senza direzione
e consumando ansie
zeppe di cose e voci.
sgomento del pieno, del tanto, del troppo.
bisogno magari
di un mare di vuoto.
una stagione di solitudine
museruole a serrare chiese e case
navigo come la luce
osservando smorfie fratturate
che un tempo furono sorrisi
raccattando polvere di crisi
e toccando lo scheletro del vuoto.
e temo
quasi aspetto
che qualcuno prima o dopo
mi dica chiaro e tondo
non è più questo il giorno
per sognare alcun sogno.
Carla de Falco nasce alla frontiera tra la primavera e l’estate del 1972 a Napoli.
Laureatasi giovanissima in Lettere all’Università “Federico II” con una tesi sulla poesia delle origini, si è poi specializza in studi aziendali, economici e dello sviluppo presso Stoà di Ercolano e presso la SDA Bocconi di Milano.
Formatrice e manager delle Risorse Umane, a trentacinque anni lascia la carriera aziendale per vocazione all’insegnamento ed all’attività letteraria.
Oggi è docente di Lettere in un Liceo di una periferia a rischio, è sposata e ha un figlio.
Sin dal primo anno d’attività editoriale, ha vinto decine di concorsi letterari nazionali, ottenuto numerosi premi internazionali e riconoscimenti di prestigio. Le pubblicazioni antologiche che riportano sue poesie sono allo stato più di una trentina.
Ha appena pubblicato il suo primo libro Il soffio delle radici, Laura Capone editore, Milano, 2012. La silloge, già vincitrice dell’VIII Premio Hombres, ha ottenuto un riconoscimento per la sezione poesia naturalistica al Premio Letterario Nazionale Leandro Polverini ed è stata segnalata con merito al Festival d’autore Dieci Lune.
Tag: Carla De Falco
13 novembre 2014 alle 15:50 |
Sono troppo “piccolo” per apprezzare appieno le tue poesie. Mi piace però molto il suono che producono quando le leggo ad alta voce.
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7 aprile 2013 alle 16:56 |
mi andrà. chiedo solo tempo. mi andrà. presto, credo.
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7 aprile 2013 alle 15:54 |
io invece, caro bruno, non credo di essere una poetona. e penso che tutti, sempre, possiamo fare di più. guai, se così non fosse. saremmo già morti. o, peggio, consacrati.
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7 aprile 2013 alle 16:40 |
mi devi scusare ma ho scritto quattromila107 poesie in dodici anni e mi porto dietro delle ruote impazzite che mi trascinano verso le mie
patologiche ma dolcisssime esaltazioni. poi poetone è il mio nickname su twitter e l’ho preso da un amico che mi chiamava così e che mi stimava al punto da pagarmi un cd recitato da un buon attore e di cui puoi ascoltare due brani sul mio sito. io mi sento un grande poeta, e mi piace soffrire per questo perchè si soffre a pensarlo e ci vuole coraggio e superamento continuo delle depressioni della vanità accarezzata. mi piacerebbe avere un tuo parere sul mio lavoro. io sono vecchio ormai e scrivo come antidoto
alla solitudine e al sentimento di morte e…… ciao. fammi sapere se ti va. io vorrei che ti andasse
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7 aprile 2013 alle 13:28 |
non sei male, ma puoi fare di piu. te lo dico io. non ridere. anch’io credo do essere un poetone che ha bisogno di conferme perchè le sue sono troppo conferme
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2 aprile 2013 alle 15:36 |
Il fuoco rappresenta bene l’arte. E dunque grazie a Narda e Luciana, per avermici accostata.
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2 aprile 2013 alle 11:23 |
Mi piace questa immagine offerta da Narda di “danze di lingue di fuoco”, dove riconosco la vitalità, l’espressività e insieme la disciplina che, come nella danza, occorre per domare le emozioni.
Un piacere leggere queste poesie di Carla.
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1 aprile 2013 alle 14:39 |
Ma che brava, Carla. Le prime poesie dove smaccatamente usi la rima, che è un ammorbidente, sono quelle più inbtrense, sembrano danze di lingue di fuoco. Il verso sciolto riflette troppo, appartiene di più alla testa, vuole apparire; io preferisco le prime poesie danzatrici armoniose alla Salomè.
Narda
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