Daniela Raimondi

by

MARIA DI NAZARETH

“Farò quello che posso
e più di me, come tutte le altre sulla terra”
M.G.Calandrone

                                             

i.                    Promessa di matrimonio

Era un tempo di doni,
di uccelli turchesi e polline d’oro.
Il mio corpo cambiava.
Sulla pelle brillava il sudore,
nuove fragranze di vento e d’avena.
Nata femmina,
moltiplicato il mio sangue ad ogni luna,
ad ogni solco.
Così viva.
In attesa.

Un mattino i sacerdoti del tempio
mi chiamarono e dissero
che era il momento di darmi un marito.
Cercarono a lungo e fra tutti
fu scelto l’anziano Giuseppe.

                     “Sono vecchio e ho già molti figli” – rispose.

Lui non voleva, e io non volevo
ma tutto era stato deciso.
Iniziai a filare la tunica rossa.
Dodici mesi e sarei stata sua sposa.

CORO

Maria ha finito un pasto povero di pane ed olive.
Ora si reca alla fonte a lavare i piatti di coccio,
le sue pentole rosse.
Tutto ha inizio da questo momento:
c’è un rumore di passi,
la sabbia rovente smuove l’orma dei suoi piccoli piedi.

È qui, Maria, che si compie un destino.
È in questo mattino di sole
che la luce di tutti i pianeti
si riversa sul tuo sogno di carne.
Vivrai solo un’ora,
verrai esorcizzata per sempre contro il peccato.
Ma intanto, Maria,
accetta il momento d’amore che ti è stato concesso.
Che il tuo corpo sia benedetto
e benedetta sia tu, tanto vicina all’ora più santa:
una goccia di sangue
la prima scintilla,
lo scindersi dello zigote
nel chiarissimo aprile del mondo.
                                      

ii.              Annunciazione

Camminavo a piedi nudi:
la brocca sul capo,
il sudore lungo la schiena.

Si alzò il vento,
un fascio di luce mi strinse la vita.
Mi fermai, il cuore atterrito.
Chiusi gli occhi per bisogno di quiete,
per pudore,
per salvarmi da un destino di poca fortuna.
Mi coprì la sua ombra.
Poi, udii una voce chiamare il mio nome:

                   “Shalòm, Miriàm.”

Ricordo un’ala bianca,
il gelo baciarmi la nuca.

“Non sono di qui – gli risposi. –
Venni in aiuto a una parente
che aspetta un bambino.”

Volevo fuggire, correre via,
ma lui parlò
e la sua voce scese come neve
nel deserto del mio orecchio.

Illuminò la rosa.
Soffiò dentro il mio fiato
il nome di un dio giudeo,
un destino di solitudine e sabbia.

Caddi in ginocchio sopra un metro di sole.
Mi arresi al disegno divino,
e al suo sguardo.

Lui aprì il mio corpo al mistero.
Mi donò qualcosa semplice e lieve
come la vita.

                                     

iii.                    Concepimento

E poi fu il silenzio.
Cessarono i venti
tacque il vino negli otri,
il canto di tutti gli uccelli.
Tacquero le voci degli uomini
e le grida degli animali.
Le fonti seccarono.
Non scorsero i fiumi
né si gonfiarono i mari.
Ogni cosa era ferma nel mondo.

Entrai la ruota del tempo,
il centro infuocato dell’uragano.
Il mio corpo era acceso,
fine e principio di tutte le cose terrene.
Ed io,
io ero l’Attesa, colei che fu scelta.
Io figlia del vento e del caos.
Io brace, nube, rugiada
furia del lampo e prima goccia di pioggia.
Io sfamata
sfinita,
coperta di meraviglia –
la resa
e il sangue in sussulti.

Un morso di sole.
Un solo, chiarissimo morso di sole
e il cuore cedeva.

Il tempo rimase sospeso
senza suono, senza tregua o respiro.
Poi, nei mari, sulla terra, nel cielo
fu il tuono e il fragore.
L’acqua tornò a scorrere nei fiumi,
i pesci volarono in fondo agli oceani,
la notte ed il giorno
ruotarono ancora intorno ai pianeti.

Lui ripiegò le ali,
riposò sul mio petto.

                                                

iv.             Canto per un piccolo seme

Mi rialzai dalla polvere.
Tutto intorno, adesso,
era pace.
Nel ventre forgiavo una macchia di luce.

Guardai verso il cielo:
                      “Dammi un segno” – gridai.

Sentii un piccolo cuore d’uccello
battere insieme a un cuore più grande,
reclamare un suo spazio, il suo mondo.

Ebbi paura. Sì, lo confesso
ebbi una grande paura
ma mai come allora
compresi il senso di tutta una vita,
la ragione per cui ero nata.

Un lampo
un fragore
poi da lontano
giunse la voce di Dio.

Caddi sulle ginocchia.
Unii le palme e pregai:

“Questo è mio figlio.
Il suo nome sarà Emanuele,
la sua vita sarà la mia festa.
Svuota i miei occhi di pianto,
scava il dolore
fino al soffice centro delle mie ossa,
ma di una sola cosa ti prego:
risparmia il suo sangue.

Voglio per lui una vita semplice.
Fa’ che il suo corpo conosca la gioia
e possa un giorno costruire una casa,
piantare un albero, concepire un figlio.
Lascia che i tempi d’Israele restino vuoti,
che le preghiere degli uomini
dormano in fondo alle gole.
Lascia che questo figlio viva
con il cuore di un uomo:
che abbia un destino terrestre
e a lungo abiti il mondo.”

                                                 

v.              L’attesa

Fu un lungo viaggio da compiere insieme
nell’acqua, nel fiato e nel buio.
La terra pulsava di lava e di sorgenti
e il mio utero era una carmine conchiglia,
magnolia ardente dai pistilli d’oro.
Lui solo era la pace, l’ordine,
somma perfetta di astri e di radici.
Lui che dormiva in un bozzolo di carne
umido e celeste, mia gioia
e mio terrore.

Vivevo spaventata in tanta gloria
pesante e languida,
magica creatura capace di crescere da sola
mani, pupille, piccoli piedi, tutte quante le dita.
Mai sulla terra sbocciò tanta gioia segreta
quell’essere uniti, legati a un unico sangue.
Lui mia genesi, vivissimo seme
viticcio allacciato al mio corpo;
lui solo mia stirpe, eletta prigione
mia umile opera d’amore terrestre.

Dal libro: Maria di Nazareth, Puntoacapo edizioni 2015.
La silloge ha vinto il primo premio al Concorso Nazionale I Fiori sull’acqua, e si è classificata al secondo posto ai Concorsi Nazionali Città di Marineo e Luciana Notari.

                         

Nella fabula poetica di Daniela Raimondi, Maria di Nazareth cronologicamente vive la sua fase embrionale in alternanza alla composizione della silloge Avernus (edita da Cfr edizioni nel 2014), in cui l’Autrice affronta, quasi per opposizione, il tema della morte dell’Io maschile. Le due produzioni, legate tra loro per qualche meraviglia che l’ictus ideativo regala a chi scrive, viaggiano in parallelo e completano un ciclo ideale che, già con la vulgata de “La regina di Ica” (ed. Il Ponte del Sale, 2012), raggiunge vertici altissimi: qui lo studio dell’elemento femmineo assume contorni archetipici e il topos della Venere-madre s’incatena alla sofferenza della materialità del corpo e, attraverso una via crucis simbolica, ne rivela il dramma.
Maria di Nazareth completa il percorso: Maria incarna in sé ogni possibile maternità e la sua storia incrocia, in modo magnificamente umano, ogni storia di madre. Il percorso narrativo con cui la Raimondi focalizza l’accaduto per eccellenza, la vicenda totale di Maria di Nazareth, investe l’Io narrante di una fragilità così densa che ogni sequenza assume il connotato dell’ineluttabilità: il tutto scritto si trasforma, così, in storia da riscrivere, e la figura di Maria diventa, fortemente, l’allegoria del femmineo a tutto tondo, la donna- madre archetipica.
Ciò che l’Autrice ha sempre voluto nella sua ricerca poetica ora giunge a suo termine: la natura figurale di Maria è il simbolo puro della poesia della Raimondi. Forse, inconsciamente, ma piace pensare la cosa come necessaria, quindi improrogabile, il passo di rivelazione del femmineo puro accade, nella Raimondi, attraverso la purificazione dall’elemento maschile, pur fondamentale come forza oppositiva e, per contrappasso, di completamento: ecco allora la necessità di scrivere Avernus, nella sua tremenda prosa poetica agghiacciante, fredda e umana. Forse il passaggio mancante stava nella sublimazione della carnalità del corpo, della sua decadenza, della violenza derivata da ogni fattore di contingenza. Ecco, allora, magnificamente, Maria, dall’origine dei tempi, fino al tempo concluso: la sua, l’epica dell’umano. In Lei, tutto.
Fino alla pazzia finale, la nemesi. E tutte le Marie lì dentro, da sempre e per sempre. Come se il nome evocasse lo stato, la storia, Poi le streghe, Auschwitz, Gaza, ogni impossibile perdono.
                                                                                                                                                                                        Ivan Fedeli

                                   

                                            

Daniela Raimondi è nata in provincia di Mantova e ha vissuto per oltre trent’anni in Inghilterra, dove si è laureata e dove ha conseguito un Master in Letteratura Ispano-Americana. Ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti a concorsi letterari nazionali, fra questi il Premio Montale, il Premio Sartoli Salis per Opera Prima e i premi Mario Luzi e Caput Gauri per opere edite. È stata selezionata per rappresentare l’Italia all’European Poetic Tournment a Maribor, Slovenia, dove ha ottenuto il Premio del Pubblico (2012). Collabora con articoli e traduzioni al blog Cartesensibili.com ed è presente su vari siti web di letteratura. Un volume di sue poesie in edizione bilingue: “Selected Poems”, è uscito a cura delle Edizioni Gradiva New York. (2013). Di prossima uscita il libro “La stanza in cima alle Scale”, Nino Aragno Editore, vincitore della sezione silloge inedita al Premio Subiaco, Città del Libro.
Il suo primo romanzo “L’ultimo Canto D’amore”, è risultato fra i dieci vincitori al Concorso on line Ioscrittore, e ha ottenuto i premi nazionali San Domenichino e Thesaurus nella sezione editi.
Per notizie più dettagliate: http://raimondidaniela.blogspot.it/

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8 Risposte to “Daniela Raimondi”

  1. norise Says:

    stupendo!

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  2. Daniela Raimondi | il giardino dei poeti Says:

    […] … continua QUI […]

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  3. fernirosso Says:

    è come se ogni volta riprendesse il cammino che aveva interrotto nel libro precedente…chissà dove ci porterà!Grazie.
    ferni

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  4. cristina bove Says:

    grazie a te, Daniela.

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  5. raimondidaniela Says:

    Grazie Cristina e un saluto a tutti i frequentatori del Giardino dei Poeti!

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  6. raimondidaniela Says:

    L’ha ribloggato su Daniela Raimondi.

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