Un’affermazione in un testo è stata la mia guida nel viaggio in anteprima tra i versi di Chiamala febbre: pancia e quaderno aspettano, reclamano a gran voce di essere riempiti. Se è vero che pancia e quaderno aspettano di essere riempiti, è vero altresì che la sazietà non è mai raggiunta, che prosegue, con l’acume di chi vive e scrive, l’osservazione e la partecipazione, se pur critica, al tentativo di colmare un vuoto: la vacuità di questa fine del mondo in piccole dosi quotidiane che riceviamo, veleno e farmaco. La sazietà non è raggiunta perché, felicemente, la raccolta di Nazim Comunale colma e, allo stesso tempo, rinnova la sete nelle due istanze che trovo fondamentali nella poesia: slancio e rigore. Slancio e rigore che Nazim tende in avanti e rende, quindi, dinamico fare poetico, con una percezione acuta, e una altrettanto acuta, perfino febbrile, “disastrografia”, che non dimentica, nei viaggi molteplici verso le periferie, verso gli estremi, due direzioni dell’impegno: quella verso i maestri, nominati non solo nelle epigrafi, bensì, anche, filo robusto che attraversa l’originale tessitura del dire poetico, e quella verso la propria professione, nel caso di Nazim la professione di insegnante.
Anna Maria Curci
Cose da farsi
Aspettare l’alba su una gamba sola.
Torcere un capello a un bambino.
Mangiare del sale.
Coprire i fiori con cucchiaiate di sabbia.
Mettere miele sulle ferite.
Ascoltare la versione dell’assassino.
Tergiversare.
Diffondere notizie false.
Accecare il cielo con un lapis rovente.
Sbucciarsi il cuore
poi offrire rose ai piedi dei santi.
Bere da un barattolo blu.
Sognare i fiordi
e non spettinare
non spettinare mai
il delicatissimo random dei ricordi.
Le cose sparse sul tavolo.
I numeri del caso
riposano nella scatola di legno chiaro.
Questo senso di fragilissima preghiera.
Null’altro.
Solo il vasto disordine
di un altro pomeriggio
vertiginosamente immobile.
Unico passeggero sul bus tra Sant’Arsenio e Roscigno
mi dirigo verso Sacco
il paese della mia famiglia paterna
dove in estate il trasporto pubblico non arriva
perché la montagna è franata anni fa
e non è mai stata messa in sicurezza.
Cristo non si è fermato ad Eboli
si è dato semplicemente alla clandestinità.
Si nutriva di peperoni cruschi
e parlava un dialetto arcaico
dormendo sotto gli ulivi di queste terre remote.
Da qui il nord è un’apnea diplomatica
il miraggio di un secolo orfano e grigio.
Un vicolo cieco, un pozzo tutto cupo.
La morte è solo un capitolo di un’epica sussurrata e familiare.
Le ansie cadono a terra
come mele selvatiche.
Siamo solo comparse di un teatro povero
nell’era eterna della controra.
Muti, mitologici
gli ulivi trattengono ancora un brano di stupore
e uno spicchio di cielo.
Napoli è lontana come il Tibet.
“Una strada attraversa il paese. Il paese è quella strada. “.
In quest’ora
a forma di diario
la luce
si accanisce
in capriole.
Anche se zero
anche se soldo di cacio
solo
anche se disastrato
sdrucito
sfinito
strappato.
Stanale
le tue parole stupite
soppesale mentre scuotono le gambette
assopite
sottrai subito al buio dei cunicoli
il sale del tuo dare
la sete del tuo fare
la seta imperfetta del tuo dire.
La didattica della luce
non prevede appello.
Esercizi per esistere
Nel mondo delle creature sottili
muto e vivo
guerrescamente felice
tra le nebbie d’inizio secolo
sto con gli inquieti del sud
conto i mesi del cuore storto
e ciò che si ruppe nel guscio sacro.
Esistere una mezza giornata.
Resistere.
Mappa
E’ rauco questo blu che scolora
e si addormenta tra l’indice e il pollice della stanza.
Qui è dove sabbia entra
dove serpe cova i suoi figli di rame
dove vetro cresce, cresce e si gonfia
nel respiro insonne di ogni brace.
Qui è dove sole affonda
dove ombra sancisce il suo regno
dove in lunghissimi minuti
fioriscono
mille città di marzapane.
Qui è dove l’arrotino affila la lama spenta
dove la porta geme aspettando il ritorno
dove un uomo di trent’anni un giorno si sveglia
e non trova più i suoi occhi.
Qui è dove il miele è rancido
dove la pazienza del legno è vino dei naviganti
dove la corda consunta finalmente strappa
dove barca è foglia di giunco
in mare aperto
alla deriva.
Qui è dove carta uguale casa
dove pomeriggio significa mandorla e bambino
dove un dio impossibile mantiene ogni promessa.
Qui è dove un cielo di nuvole basse tiene
ancorata la terra
col sottile filo di un respiro
dove la pagina è arsa dalla seta
dove la mappa è antichissimo pasto del sole.
Qui è dove il fachiro esita
dove ogni orma si sovrappone all’altra
dove la madre candida sorridendo stende il primo bucato.
Qui è dove il pianoforte zoppica
dove la marea si alza vittoriosa
dove giungla e labirinto sanno il denso latte del dire
dove l’alta febbre del fare
si dissipa
in una lunga collana di gesti nativi.
Qui è dove preziosissimo sangue rapprende
dove ebano vuol dire infanzia e finestra
dove la mano e lo scriba
discendono il ripido foglio
dove soglia è palmo di mano timorata.
Qui è dove ombra suggerisce possibilità
dove il vocabolario è un cucchiaio di sale
dove Kafka si addormenta sognando il risveglio scarabeo.
Qui è dove cibo, famiglia e approdo sono parole torbide
dove tucano e matita sono i naufraghi della penisola
dove stupore è ogni sentiero interrotto.
Qui è dove la grandine spezza
la pazienza
v
e
r
t
i
c
a
l
e
del ragno
dove il mare passa
e lascia la scia
e una schiuma di stracci.
Poi, da queste sponde
finalmente
uno dei due fratelli scappa.
Nazim Comunale è nato a Guastalla (Reggio Emilia) nel 1975.
Sue poesie sono apparse sulle riviste Dea Cagna, Versante Ripido e on line su Interno Poesia, Diario di passo, Ipoet, Poetarum Silva.
E’ stato tradotto in Venezuela e negli Usa.
Ha pubblicato Aguaplano ( autoproduzione, 2015), Lei Oceano (Terra d’Ulivi, Lecce, 2017)
Chiamala febbre (Edizioni San Lorenzo, Reggio Emilia, 2020)
ed è presente nella collettive Non ancora silenzio (NMZ edizioni, Ravenna, 2019) ed Emilia Romagna (Bertoni Editore, Perugia, 2020).
Ha avuto la menzione speciale nel 2019 al premio Raffaele Crovi.
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