Dall’introduzione di Antonio Bux
Una voce davvero inedita, quella di Elia Belculfinè. Una voce densa, onirica, frastagliata. Una voce che sembra prendere (e pretendere) l’eredità della migliore poesia del novecento per farne un omaggio teso al disfacimento. Perché pregna di decadentismo, questa poesia sembra dialogare con i morti e i fantasmi, spesso anche dei vivi, che il poeta incontra sul suo cammino. Così come di riflesso, il poeta incarna nei suoi scritti ciò che non è più degli uomini, se non nella morte o nel silenzio. Ovvero quella sottile sensazione di essere dentro al segreto della vita solo per subirne il richiamo straziante. E sembra dirci, Belculfinè, tra queste pagine, che il verbo inconsolabile della poesia è il solo messaggio possibile per chi vive ai margini dell’esistenza. E allora il poeta subisce, si contorce tra le parole che in questo libro musicano una litania senza fine e preternaturale; ma che anche chiariscono quanto sia dolce sentirsi condannati, e forse anche folli, nel destino di diventare cenere, un bel giorno. Già che la cenere è la terra fertile dove la rosa avvampa del suo colore più chiaro. Perché ogni vero poeta sa questo: che i sognatori vanno via se li si cerca, come le rose
OPERANDO NEL FUOCO
Il papavero sigilla l’ape a trarne ogni molecola.
Con il vello del suo corpo
oscura la prima eclisse della stagione.
Danza, onde è nodo il doppio filo
che a possederla è un vento caro.
Frangente d’ombra inascoltata,
sui meridiani che ha incisi nelle pietre.
Negherà alle rose il suo sesso, a primavera.
Verrà notte, per finire in fondo
nell’incavo del dire d’occhi e labbra.
Coordinate a terre incognite, spinta fuori, a largo…
Segreta, al buio sentirebbe la piaga che il ghiaccio
ha fatto alle coppe dei narcisi.
Valli, cale d’arena sotto cirri a frotte di pioggia nuova.
Un tuono presago di festeggiamenti.
L’ansito di bufera nel vestito da carceriere.
Sa che il sacrificio non si terrà, senza che sia presente.
Ha l’illusione di scampare al carnaio di occhi questuanti.
Mani sgraffiate in rovi di aspettativa.
Un tramestio di foglie sui sonagli del pantano.
E il vento si ormeggia alle pietre del ruscello.
I bambini si cullano su lacci di canapa
ai rami alti del sambuco, non si curano di nulla.
Offrirà il suo miele a chi tenterà di tradirla.
Nell’assetto di sensale fedele, guardiana
entro ritmi segreti, mondata all’alba
dalle polveri acquisite nell’urto con la luce.
Affilando le sue armi contro l’ardesia, scintillante nell’attrito.
Rifiorisce il calicanto sul greto, il fiore di foglia sulla rupe –
orifi amma disorganico. Custode di fonti di miracolo,
non sarà mai regina né madre.
Apri, sulla ghisa, il rovente che ignora il cielo.
Mansueta, creta dolce che s’avviva.
Fra poco verranno a contarti
unghie e denti, le impollinatrici.
A ricordarti il tuo nome – fresia o giglio d’acqua.
Si esaltano a cingere il tuo velo, sulla soglia.
A un’afa intima di rose, conchiglia su un labbro di riva…
Musa, traslata in corpi di bambini.
Con divise nette, alla loro radice
il sangue pesa, delibando eucarestie d’assenze.
È tutto in ordine – carezzandoti il muso;
parola candita, nel filare di torce.
Sul tuo corpo martoriato dal sesso;
apri una genesi nell’incastro di mogano.
Recrudescenza, nella luna, del tuo male.
Alta sul pioppeto umilia,
gettandosi sulle rotaie, un usignolo dentro i versi.
L’eternità ha il furioso dulcamaro delle olanzapine,
col tuo segreto sfigurato, sorella…
Il giorno è d’autunno, un secolo fa.
Mai vedesti ridere tua madre.
Il suicidio delicato del rabdomante –
leggervi dolore è un’oscenità comune.
Isolarti al fondo, fra le stelle d’acquitrino.
I poeti sono aria. Non versi? Sei tu a dirlo…
Strappato all’orologio l’orpello della meta.
Corollario, cerca il piatto d’ombre, il sangue col rame.
Sia, fitto di agrumeti, Città Radiante, il sole.
Concrezioni di labbra.
Rime nella notte, mai baciate.
LE ALLEGRIE DEL VINO
I passati
Saldate a braci e astri, le mani dei poeti
sono le mani dei morti, su lettere bruciate all’alba.
Con gli orti a sorde ombre, nelle mani
delle ballerine di Degas. Cercando nel sangue,
per il grano dei versi; nei cieli lieti a terra,
ancorati, con saldezza di carne e carme.
Vengono a blandire ogni seme carico del vento.
A indire battesimi donati a giorni secolari.
A tergere il cristallo del sangue, come pietra
da smussare in fiato. Pietà, Erato,
per l’incendiato cuore dei poeti.
Pietà di noi tutti, culle di strame trasparente di parola.
Eliseo, con fiori di cetra, Anna di luna; Silvio,
benedetto chitarrista! Caduto sul lastricato di rose,
nel cogliere il balzo della candela,
sul ghiacciaio impercettibile del cuore.
Giovanna degli spiriti, che trovasti la chitarra
in frantumi, su una branda di fiori.
Alberto e Lelio, come gigli in banderuole di seta.
Tutti, Marta, Salvatore – dei giorni di pesca; Adele –
la Pietà e la Sete; Davide, Don Mario, Alessandra.
Nato di voi – di voi soltanto il riso che soppianta
la mia fame. Che fare di voi tutti?
E degli altri che intrecciarono le dita e la
voce, a quelle dei miei morti, per urgenza
o per caos, con la lingua putrida della fede?
Chi sei, Giovanni? Chi siete Ortensia
e Gilda? Vi sistemerò con esattezza,
fra le carte e i sigilli dei poeti,
salendo al monte dei vostri sospiri, che
tormentano un’allodola di chissà quale stagione.
ROSALBA 1917 – 1994
Rosalba, rosa e alba, chiarisce il mattino.
Oltre i bioccoli di rive, si sperde il sordo
cielo, e lontano; cinto di semi veglianti
alla morte dei vivi. Un giorno cercasti
nelle vesti per scorgere il tuo cuore.
Era una stufa di maioliche, inconoscibile tortura.
Una granata dolce, aperta a spicchi di figli –
levità di bianco e di rosa; un telaio fermo,
che aspettava le tue mani. Era il sole intarsiato,
nottetempo, di nostalgie nemiche,
la musica alla pena di cosa passante e nuda,
invece nessuno intonò la chitarra leggera,
il plasma denso delle voci, carezza di strade.
Dov’è che vai, stamattina? Quanto a lungo vive
una rosa? Cos’è una rosa? Chi venne in primavere
a tendere i serici fili della luce?
Fu d’aurore la tua carne,
grano tessile di vene aperte nella terra.
In quel nido di sarta, fra piume avare, stoffe
di ingenti alfabeti – rosa e alba…
Eppure l’alba disperde le sue rose,
a tenere piaghe nelle epifanie del sangue.
Ebbi, da bambino, qualcosa da rubarti.
Faranno un sospiro i gerani, e gli uomini
diverranno pietra,
ami di prodigiosa pesca. L’ago
del cuore punta oriente. Tu grida forte,
quando sarai pronta, mettiti in cammino.
LE ALLEGRIE DEL VINO
I passanti
La Maestra è una sarta magistrale.
Cuce le vele per i pirati.
E i vestiti alle bambole del vicinato
coi panni da lavoro del marito
a cui non imbastisce un abito o intavola il piatto.
Quando ha finito si beve un vermut
tra amiche. E se ne va al cinema
con le sue miserie.
Ma ciò in cui non vuole
infilare l’ago è la sua lingua lacerata
dall’infamia del suo canto,
che in realtà è un cicaleccio nella grondaia.
Il custode del camposanto è gravemente malato.
Anche se il cardiologo dice che è tutto a posto,
si vede da un miglio che il suo cuore è una pietra.
E forse ha un figlio rinchiuso in cantina
che nutre con i garofani sulle tombe.
Il suo sangue ristagna nel basso ventre.
E si contorce per le coliche,
ma è solo mancanza di una carezza.
Pare un ectoplasma. Lo chiamano Sgranaossi,
che se lo vedi, lo capisci al volo che mestiere fa,
senza che ti mostri la vanga e la sua catena.
LA ROSA ROSA
Lasciami scorrere nelle pareti, cardine
d’estate, o come il colibrì in fiamme
sulla tua lingua, la notte che portava in dote
i nostri figli. Non ho da fare alcun testamento.
Per loro ho atteso accanto alle rime dei miei debiti
con la luce. Che facesse vino delle mie risme
l’estate di San Martino! Ma nei covi la musa
frustava i tuoi occhi guardiani all’oro sciocco dei poeti.
Mi diedi, invecchiando, alle carte degli ebbri, al lume acceso
di rive inascoltate. Ma neppure questa è la mia colpa.
Potevo cantarti nella carne, per ciò che fu
della rima Elia – poesia. O il credere che sul fondo
i demoni si battano sempre con la luce,
nella paranza in cui molti cadono degli uomini.
Che i figli superano i padri, soltanto soffrendo.
Il non aver fiducia che un simbolo d’astri venisse
un giorno a sperdersi fra le travi, per sollevare il tuo male
che sai infinito. E che ha nome in Dio.
È inutile gareggiare con il telaio della notte.
Moltiplicarsi in stanze buie, dove l’assenza
è l’unica che alberga negli spazi.
Più tenebra, o goccia di lanterna nelle sere?
Un solo pulsante teorema: la fiamma cantare,
il drappo spregiudicato del tuo dramma
nella singola battuta.
Duello. Amico, caro: morte!
Nulla resta, che nulla ci ostacola
agli eterni palpiti dell’usignolo.
I REGISTRI DI MARCEL
(a C. B.)
Torni l’agile cantare. Torni il segreto
che famelici ci tenne in seno
a giorni di innumerevole prodigio.
Salga in misure d’orzo
la canzone dal cuore nero.
Salga in misura di chitarra
la canzone imminente.
E tu, poeta, angelo senza sguardo,
scagliala lontano.
La parola è dentro il tuo moschetto di piuma.
Tu, brigante di armonia, dalle per cuore
un tamburo, dalle per cuore una campana!
Le tue parole alle mie mani
aprono strade di canzoni.
intessono sandali di corda,
per il dedalo assurdo del giorno,
a un passo di rotta, per la dignità di esistere –
polvere e vento. È lì che ti vedo, a un varco,
come aspettassi un figlio pronunciare il primo
bacio perché neghi per sempre il nome dei tuoi seni.
Le tue parole, olio di visioni contro il morso di cuoio,
vile alla mia coscia: è il silenzio di ogni poeta.
Anima, ginepro di partitura: musica
sorgiva alle tue dita, maestra…
Ho comprato una cetra di crine
che la mia voce la spezzi,
un sol tocco. Insieme alla giara
delle notti, dove non c’è
un canto a blandire la mia sorte.
Elia Belculfiné, nato a Caserta il 29 – 9 – 83
Vive a Cascano. Nel 2012 ha pubblicato per Aletti la silloge “Primi sintomi di una gravidanza”.
Sempre per Aletti è apparso nel saggio “Verso la poesia – Alla ricerca di senso” di Maria Carmen Lama.
Tag: Elia Belculfinè
6 marzo 2021 alle 12:56 |
[…] Recensione de La rosa rosa per il blog “Il giardino dei poeti” a cura di Cristina Bove […]
"Mi piace"Piace a 1 persona