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Mirko Boncaldo

23 gennaio 2023

   

                  

Senza titoli. Sovversi è un’opera inconclusa, in fieri. Due sensi decretano il nome di questa raccolta: la negazione valoriale della titolarità dell’autore e l’assenza dei titoli dei componimenti. La prima strada rivela la natura di persona interposta, di soggetto preso a prestito, a cui la poesia non si riduce, di fatto questi versi si sono riversati contro l’autore per liberarsene. La seconda, libera il gioco interpretativo attraverso il quale è il lettore a ricostruire il senso dei componimenti, poiché questi non hanno un titolo di riferimento. Porte aperte. Il resto è auspicabile non si spieghi. L’autore sarebbe anche rimasto anonimo, il suo nome è conservato solo in omaggio alla prassi.

Della raccolta scrive l’editore Giulio Milani:Nessun “mero fatto” viene esaurito in una descrizione. Qui il linguaggio gioca una partita contro sé stesso, i suoi limiti, per far emergere l’illimitato, o se vogliamo l’irriducibilità dell’essere al contenuto di una proposizione. L’espressività in una deriva che frange gli io, la parola, fino allo smarrimento di ogni referente.”

                     

                            

                        

Da grembo a tomba scandaglia
nella fibra sfilacciata del tempo
per sceverare lo scorso, il vivo e l’entrante
in attesa della vampa: fa la spola
dall’altra sponda giungendo
lisa alla vita come una cintura
o la ragnatela.
                           
                   
                    

come un funambolo in bilico oscilla
sul sottile bivio in attesa di divaricarsi
tra il vuoto e l’ignoto, scissa
a doppio taglio fino a capovolgersi, ubiqua
come sull’acqua tiepida, dolce.

                           
                   
                    

con le punta di dita, rorida
come brina sulle sgretolate screpolature
vieni
e sobilli atavici sedimenti
di fiori sconosciuti e incandescenti
incredule ombre
che l’acqua non regna, lontana
che bagna:
suffragetta, partigiana, femme.

                           
                   
                 

elevo: è vocazione
che dalla tua voce immane
scuote e in me permane
provocante consunzione
ascoltarti di nuovo
parlare nel silenzio pesto,
leggiadra invocazione,
ladra delle parole.

con te mi sperpero.

                                                                    
                                                  

Dove mesce il torrente nella valle
i muretti a secco riparano aranceti,
melograni, ulivi, un vecchio mulino
in rovina e la memoria di mio nonno
seminata nei grani antichi di Sicilia,
nelle sigarette sfuse di mio padre,
nei finissimi spilli del fico d’India
trapunti nelle mani di un bambino.

ammassati come il pane,
questi sono i miei ricordi, le mie
confabulazioni.

                                                     
                                       

per ogni lacerto latrato
che la storia non racconta
raccolgo ogni memoria.

è la scorta di scarti accumulata
rimossa
blinde
che più non si dice.

scancellata
logorata
massacrata

è l’ultima non l’ultima rivolta parola
quella che si perde
quella che non si ritrova.
apolide.

                                                     
                                    
                    

Solo lungo inverni osservo:
bianco fulgido incanto
che il perlaceo estatico manto
ridiscopre: tempio
ineluttabile tempio assorto
nel buio abbaglio di isole
remote: faro, si, faro
o cigno che schiude le ali
dell’ultima canzone
sospinto dallo zefiro
e dunque fremito: sole,
è sole dal lago che chiami,
che chiami e ancora
affinché l’aia disveli
e sulle scogliere sollevi: Domani.

                           
                   
                              

Mirko Boncaldo è nato nel paese di Bartolo Cattafi e da qualche anno ha 25 anni. Vive a Bologna dove ha studiato Lettere Moderne e Semiotica: qui si occupa di comunicazione e viaggi nel futuro. Si dedica alla poesia sin da giovane, seppure, fino a questa pubblicazione, privatamente. I suoi interessi personali si rivolgono in particolare alle tematiche di genere e della tutela ambientale. Questa è la sua prima silloge.

Carmen Lama – Valentino Vitali

15 gennaio 2023

I confini dell’acqua. Fotopoesie.

di Carmen Lama e Valentino Vitali

Ed. Youcanprint



D’un istante perfetto

Non lumi di memoria né ricordi

ma solo la bellezza dell’istante

che non si perderà

incastonato com’è fra cielo e lago

mentre vagano gli occhi alla ricerca

dello sguardo poetico che ha colto

lo stupore il silenzio l’abbandono

                 



Anche se il lemma non compare nei vocabolari (e non soltanto in quelli italiani), il termine fotopoesia  e le sue molteplici varianti tra tante: fotopoema, fotopoetry, fotoverso, fotograffiti,  – vengono ormai da lungo tempo impiegati per designare una forma d’arte in cui poesia e fotografia, poste su un piano di pari dignità, si intrecciano simbioticamente per dar vita a un prodotto artistico nuovo, originale, complesso e unitario al tempo stesso. 

La prima attestazione dell’uso della parola si fa risalire al 1936, e per quanto l’accostamento tra immagini e versi sia già ampiamente praticato, la sua presenza nel titolo di una raccolta (Photopoems: A Group of Interpretations through Photographs  di Constance Phillips) offre al termine una indiscutibile legittimazione.

Sin dalle esperienze pionieristiche delle avanguardie novecentesche, poi riprese con interesse crescente dalla fine degli anni ’50, si osserva come e quanto gli artisti subiscano il fascino dell’interlinguaggio, derivandone sempre nuove posture nei confronti della realtà e raffinando strumenti per operare feconde intersezioni tra le arti. È indubbio che la pratica fertile delle contaminazioni tra discipline artistiche abbia contribuito a sfumarne i contorni, lasciando emergere aspetti di sorprendente continuità al di là degli steccati categoriali.

In generale, gli studi che nel corso del Novecento affrontano le questioni messe in campo da questo genere di fenomeni artistici, anche muovendo da vertici e prospettive diverse,  pongono comunque l’accento sull’importanza di non limitarsi a pensare alla ‘con-fusione’ delle arti come a mere sovrapposizioni o giustapposizioni, come esito di una semplice sommatoria, ma di coglierne la costituiva natura di eventi dotati di nuova e diversa dinamicità, interattività, imprevedibilità, ed esortando a pensarle come vere e proprie simultaneità produttive, secondo l’espressione che Adriano Spatola utilizza nel suo celebre saggio  Verso la poesia totale (1969).

Non difformemente, del resto, pur non muovendo da interessi estetici quanto piuttosto di ordine conoscitivo, nel campo degli studi sperimentali sulla percezione la Psicologia della Gestalt perveniva già a inizio secolo a conclusioni analoghe, quando affermava che il tutto è più della somma delle parti, sancendo definitivamente un principio che avrebbe mostrato la propria forza investendo ogni ambito culturale e ponendosi come premessa a ogni discorso sulla complessità.

Ed è proprio avendo bene in mente tale stimolante complessità che si offriranno giusto ascolto e aperto sguardo al libro di Valentino Vitali e Carmen Lama, dichiarata e ottimamente compiuta opera di fotopoesia, affascinante simbiosi di luce e parole, di immagini visive e verbali, intreccio originale di immediatezza visiva e condensazione semantica.

Se è vero che nella fotografia come nella poesia il significato non è mai fissato definitivamente e, soprattutto, non è contenuto esclusivamente all’interno dell’opera ma dipende invece (anche) da un fruitore che – ne abbia coscienza o no – lo costruisce e ricostruisce in base a un numero inafferrabile di fattori, tra i quali la propria sensibilità, la cultura, il contesto, lo stato d’animo, etc., nella fotopoesia la natura dell’interazione tra foto e testo poetico dilata ulteriormente il potenziale semantico dell’immagine e quella silenziosa pensosità di cui parla Byung-Chul Han ne La salvezza del bello (2019), ne rivela il nascondiglio, dispiega senza spiegare, e, contemporaneamente, offre enfasi all’istantaneità del testo poetico e alla sua densità.

Esattamente come raccomandato nel «Manifesto di fotopoesia», esito delle interessanti collaborazioni tra Robert Crawford e Norman McBeath, rispettivamente poeta e fotografo britannici, così come le fotografie non dovranno porsi quali  illustrazioni dei testi poetici ma opere d’arte che risuonano insieme a essi, le poesie siano ben lungi dall’essere mere descrizioni delle immagini.

Qui, in particolare, la poesia di Carmen Lama, dettato trasparente, eleganza formale ricercata e raggiunta dentro forme chiuse che rivelano un orecchio affinato da letture vaste e lungamente meditate (e che, per inciso, richiamano alla mente la “cornice” fotografica) non è mai ancillare didascalia dell’immagine che, al contrario, con assertiva pacatezza, illumina mentre se ne lascia illuminare.

I temi rappresentati l’inesausta aspirazione alla bellezza, la cattura dell’istante, l’umanissima tenzone con il tempo, il suo inarrestabile fluire, e, su tutto, il paesaggio, segnatamente quello lacustre, un paesaggio che, zanzottianamente, è anche «orizzonte psichico» – emergono nell’armonico rincorrersi di versi e luce, insieme agli interrogativi fondamentali sulla percezione visiva, sullo scarto irriducibile tra visione e sguardo, tra realtà e immagine. La poesia talora riflette su sé stessa, sul privilegio della meraviglia, sulla propria responsabilità; si arrovella sul rapporto tra parola e cosa: «Scrivo “pozzanghera”/e già si muove un riflesso di luce/nell’acqua fangosa che forma la parola/che “è” la stessa parola». Nel farsi sempre più sfumato dei confini «fra soggetto e oggetto», tra sé e mondo – sono confini d’acqua, del resto,  che, già a partire dal titolo della raccolta, ossimoricamente sfuggono alla presa –  l’io lirico sembra maturare una nitida visione metapoetica: «La trasparenza della fotografia/è uno sguardo che si spinge lontano/(…)/talvolta con serendipità/scopre angoli nascosti/porta alla luce dei veri tesori», recita un testo particolarmente pregnante.

«Il rapporto tra poesia e fotografia è di rottura e serendipità, appropriazione e scambio, evocazione e metafora», scrive Michael Nott nel suo saggio Photopoetry, 1845 – 2015. A critical history (2016): quella di Lama è dunque una netta dichiarazione di poetica. Mentre i suoi versi e la fotografia evocativa di Vitali portano in scena, appropriandosene, la sensuale bellezza dei luoghi ritratti («sono questi i miei luoghi», scrive la poetessa), si occupano simultaneamente di ciò che è visibile e di quanto non lo è. Le parole che Antonio Prete dedica al saggio di Yves Bonnefoy, Poesia e fotografia (2014) lo spiegano con invidiabile chiarezza: «(…) nell’implacabile rivelazione del caso, della nuda materia, dell’assenza che la fotografia ha introdotto, ci può essere, grazie all’alleanza tra lo sguardo del poeta e lo sguardo del fotografo, una nuova presenza, un nuovo tempo. Un’immagine salvata. Il nulla non avrà trionfato».

Patrizia Sardisco


                             

 

Un lago

Un lago – la sua linea d’orizzonte
la simmetria che specchia le montagne
i rami di betulle che accarezzano

(lunghi capelli vaporosi all’aria
o curvi come salici piangenti)

due cigni solitari che abbandonano
un’antica inquietudine
eleganti sull’acqua scivolando –

…….

 

 Per un futuro d’acqua

*se mai dovesse nascere di nuovo*

Oh, no – non ci saranno altre rinascite
si attendono non-luoghi – e orizzonti sfuocati
laddove non si arriva e non si parte

dove i ghiacci in silenzio
si ostinano a pregare
per un futuro d’acqua –

una forma diversa di rinascita
e poi nient’altro affatto –

Antonio Sambiase

6 gennaio 2023

Copertina _Momenti_Sambiase

Dalla nota introduttiva: “I miei versi nascono da un’esigenza di dare voce, e forse anche qualche contorno, alle emozioni di esperienze vissute da me o da chi mi sta vicino, o da una persona qualsiasi che ha catturato il mio sguardo camminando per strada o viaggiando in metropolitana. Così un momento qualsiasi della quotidianità, mia o di una persona a me sconosciuta, diventa soggetto dei miei versi.”

Poesie estratte da Momenti di Antonio Sambiase (Controluna edizioni 2022)

Non arrenderti (p. 11-12)

Andare avanti per inerzia,
sentire il calore del sole
che brucia la pelle
ma non provare dolore.

Mi sento un pesco,
bloccato sotto il sole d’estate,
inerme, illeso.

Ma sento che devo andare:
camminare, correre, arrancare
per cercare il lume nel fondo,
per dar luce a questa misera vita
di bianco e nero vestita.

Non vedo sfumature,
ho un arcobaleno dentro
che non riesce ad uscire.
Mi sento freddo,
mi sento morto.

Sono un salice piangente,
ho i nervi a pezzi,
si contraggono, fanno male,
trattengo il mio dolore.

Sono un fiore di una landa desolata,
appassito, dal colore spento.

Steso me ne sto
su un misero letto d’ospedale.

*

Ritrovo me stesso (p.21)

In questa notte
tra musiche e parole
rivedo quel piccolo fanciullo.

Mi saluta, mi parla
non lo ricordo.

Una faccia così familiare.

*

Sospensione (p. 25)

Sono sospeso,
abito il mare,
abito la terra,
uccello marino e terrestre.

Vivo di ricordi,
vissuti o immaginati?

Altro non sono
se non un essere privo di forma.
Inconsistente nell’animo
e nella carne.

Fui forma o fumo?
Evaporo, prendo forma,
ho un corpo
tangibile ma inafferrabile.

Percorro rotte,
con mete note,
da una bussola guidato.

Oh, potessi non averti!
sarei senza meta,
senza strada,
sarei essere libero,
sarei aria, acqua e terra!

*

Condannato (p. 46-47)

Cede il mulo
mandato su e giù
per l’arida terra
a trasportar le stracolme
ceste del mattutino raccolto,
che mai potrà mangiare.

Sta là, a giovar ad altri
non a lui.

Ridotto per l’altrui
volontà, ad essere un mezzo.

Spento nella sua natura,
usato per la sua forza,
chiuso in un recinto
e libero
in un recintato campo.

Strigliato e bastonato
ad ogni freno da lui posto.

Eccolo lì all’ennesimo giro
tra la stalla e i campi.

Cedono le zampe,
è sfinito ormai!

Cade a terra.
Ora è libero.

*

Il vuoto (p. 44)
Giorni, sono giorni ormai
che mi accompagna una (dolce) malinconia,
che non ho sentito mai
in me. Mi tormenta
mi parla, mi incanta.

Ore passate a guardare
il vuoto, senza saper che fare
del futuro imminente.
Lei mi desta strane idee in mente.

Manca il coraggio di metterle in atto.

*

Di notte (p. 45)

Di notte me ne stavo
ad osservar il duro incavo
tra il soffitto e la parete,
che mi proteggono,
i pensieri velocemente intenti a scorrere
come un burrascoso torrente,
distogliendo dalla mente
il tempo presente.

*

Falso arrivederci (p. 27)
Delle voci si sentono dalla finestra:
saluti e baci scoccati si odono,
richieste di un’ultima foto insieme.

Con tono di voce da ubriachi.
Si sente lo sbattere delle bottiglie
ancora mezze piene.

Una urla: “mi mancherai”, palesemente
ubriaca, l’altro risponde; “lo vedremo”,
palesemente sobrio, un ultimo abbraccio.

Si separano.

Non si vedranno più.

Foto Antonio

ANTONIO SAMBIASE, classe 1993, nasce a Parghelia in provincia di Vibo Valentia. Dopo gli studi scientifi ci si è trasferito a Roma e si è laureato in Filologia Moderna, per poi intraprendere studi biblioteconomici. Oggi si dedica al suo lavoro da bibliotecario, alla letteratura e alla poesia. Momenti è la sua opera prima.