Archivio dell'autore

Carlo Focarelli

6 giugno 2023

 

Dall’aldilà- Poesie di guerra
prefazione di Ivan Fedeli – Puntoacapo Editrice, 2023


                                

Nota di lettura di Annamaria Ferramosca  

Carlo Focarelli, autore di questo libro aperto sulle problematiche dell’attualità, oltre che sui  dubbi esistenziali comuni oggi a molti scriventi poesia, offre già in apertura della sua originale raccolta la visione di un’umanità disorientata, alla ricerca strenua di senso.

Ogni testo attraversa una interiorità tormentata e insieme questa nostra realtà con le sue numerose derive fluttuanti e l’indifferenza interrelazionale giunta oggi al diapason.

Lo scavo riguarda tutto il reale quotidiano, in miriadi di oggetti ed esseri  annotati quasi in un elenco omogeneizzato che pone ogni entità allo stesso livello, e volutamente anche il parlante, di cui non si discerne l’identità, che appare alternativamente dell’autore, o di un osservatore estraneo, o di un tu, a volte amico, a volte giudicante.

E gli accorpamenti di parole e frasi che campeggiano al centro delle pagine con la loro forte presenza, caotica e ansiosa, interrogante o assertiva, appaiono come rulli verbali che sollecitano una risposta limpida e urgente da chi ascolta. Trovo questa una forma originale di linguaggio che, pur rischiando consapevolmente l’impoeticità, sembra porsi un fine che oltrepassa la convenzionale necessità di forme codificate, ed è quello dello scavo autentico nel fondo della realtà oscura che oggi viviamo, nell’incerto della lunga notte.

Si procede per disvelamenti e contemporaneamente l’identità si palesa anche nell’io che affannosamente cerca amore, ma come sempre accade, esso sfugge, si spezza, pone difficoltà, metafora evidente di ogni relazione tra gli umani, oggi così evanescente, così trascurata.

Lo scavo continua insistendo nella disperata ricerca per angoli, zone d’ombra, sulla soglia di sogni e visioni, immergendosi pure nella dimensione dell’oltre, dove si sfiora  la percezione dell’inesistenza e l’autore diviene quasi entità sciamanica, come luminosamente percepisce il poeta Ivan Fedeli nella sua prefazione.

la mente sfuma il solido nell’aeriforme

e tu ci vivi sopra, ci veleggi

proprio come se non fossi                    pag.20

 

Si arriva così alla senzazione di essere giunti alla verità-chiave, dove si apre quella eterna spirale in cui la nostra vita è coinvolta.  E chi legge segue di certo incuriosito queste gimcane interroganti in ogni territorio esplorato, questa ricerca indomita di significato del vivere e del morire, che sempre si rivela in nonsense. Ma l’autore continua ancora a cercare senso sui territori dell’amore, che sono sempre quelli più limpidi e veri, perchè fatti di pure emozioni, dove bellissima appare la rivelazione – per via amorosa – di riconoscere in sé l’eterno uomo in errore. Così il significato della comunicazione con la donna si fa fuoco simbolico e metafora di ogni altra relazione, che, se autentica, dovrebbe guidare il cammino dell’uomo verso la luce.

la intuisci nel suo segreto

che vola, vuoi estrarla e lei

ti fa sentire la tua assenza,

carpirla abbracciarla preso

ti rovesci sul suo candore

e ti aggiri come un errore.            pag.36

Ma l’amore non basta, altre rivelazioni irrompono dall’urto con la vita. Si riconosce la corsa cieca del tempo, si accoglie l’effimero che siamo, nelle insistenti immagini di ceneri e macerie.E ritornano le scene della superficialità oggi dilagante, che erompe dalla routine dei telegiornali, dalle notizie scure e assurde della guerra, che pure, nel darsi, si piegano al dazio della tassa pubblicitaria, obbligatoria in questo nostro mondo dominato dal profitto e dell’indifferenza.

Improvvisamente il tono deflagra sul terreno di questo bellicismo protratto all’infinito, con una personale presa di posizione e un fiero contrasto esplicitato. Soprattutto è viva la denuncia dell’affievolirsi del sostegno alla libertà di coloro che preferirebbero solo mantenere il proprio benessere .e quieto vivere.

Nella successiva sezione l’analisi feroce delle storture umane prosegue fino alla decisione dell’autore di farsi assoluto visionario, quasi asceta che limpidamente prende le distanze da una inaccettabile realtà

ho collocato da parte

la materia di ogni vivente

e le sue tracce, ho astratto

quel me che ora sta dicendo

di astrarsi e ho finalmente

svuotato me stesso da me         pag.63

per giungere, dopo un’analisi di ogni imbelle comportamento umano volto alla mera conservazione di privilegi e consuetudini, a distanziarsi intellettualmente non solo dai codardi, ma perfino da se stesso,dichiarandosi poeta  in guerra con la sua amara poesia e pure dagli stessi lettori, comunque la pensino nei suoi confronti.  La denuncia dilata anche a tutte le cerchie e potentati vari del mondo letterario che vorrebbero inglobare ogni scrivente ribelle, ogni resistente.

Una scrittura dunque che, come lo stesso autore dichiara nelle sue annotazioni finali, non vuole ergersi a scrittura poetica, ma decide di configurarsi come stimolo all’uomo dell’oggi a riflettere sulla urgente necessità di assumere la responsabilità individuale e sociale dei propri comportamenti.

Auguro vivamente all’autore che il nobile scopo possa essere raggiunto, sempre e solo attraverso la parola, l’unica che salva dalla barbarie..

Annamari Ferramosca
Roma, 18 maggio 2023

                                     
                                 
                                         

Carlo Focarelli è professore ordinario di Diritto internazionale nell’Università Roma Tre. Di poesia ha pubblicato La trama metafisica (Il ventaglio, 1991), vincitrice del Premio “Calliope” 1989 per la silloge inedita di poesia e recensita nel 1992 in «La pagina letteraria» di Radio Rai 2; Assenza (2019), vincitrice del Premio “Tra Secchia e Panaro” 2019, 1° Premio assoluto al Concorso “Ambiart” 2019, Premio speciale al Concorso letterario “Parole e Poesia” 2019, Menzione speciale dell’inedito al Premio internazionale “Mario Luzi” 2018. Del 2022 è la raccolta Un segno. La terra sotto le scarpe (puntoacapo), finalista al Premio “Certamen Apollinare Poeticum” 2022. Nel 2023 ha pubblicato Dall’aldilà. Poesia di guerra (puntoacapo), che ha presentato alla XIX ed. del Salone internazionale del libro di Torino.

Riccardo Renzi > Novalis

20 Maggio 2023

Novalis: la poesia che generò il romanticismo tedesco

Novalis, alla nascita Georg Philip Fredrich von Hardenber barone di von Hardenberg[1], fu colui che più di ogni altro autore romantico dettò un prima e un dopo all’interno del movimento letterario. Nacque nel 1972, secondo degli undici figli di Auguste Bernhardine Freifrau von Hardenberg, nata von Bölzig, (1749-1818) e Heinrich Ulrich Erasmus Freiherr von Hardenberg (1738-1814). Dopo aver frequentato il ginnasio luterano a Eisleben, si iscrisse nel 1790, come studente di giurisprudenza, all’Università di Jena. Lì il suo vecchio tutore personale Carl Christian Erhard Schmid (1762-1812)[2], che nel frattempo era divenuto professore di filosofia e uno dei maggiori rappresentanti del kantismo a Jena, lo presentò a Friedrich Schiller[3]. Tale conoscenza permeò profondamente il giovane poeta, infatti risulta impossibile comprendere a fondo la poetica di Novalis senza conoscere la filosofia di Schiller, che a sua volta è permeata da quella di Johann Gottlieb Fichte[4].

Se volessimo tener il senso proprio, quello ficcante, filosofico e teologico, e non meramente letterario del termine “romanticismo”[5], dovremmo sostenere per onestà intellettuale che esiste un unico romanticismo: Novalis. L’unico vero testo romantico, intriso in ogni sua sillaba di tutta la filosofia del romanticismo, sono gli Inni alla notte[6]. Si può sostenere fermamente che Novalis sia l’unico autore romantico per un semplicissimo motivo, in lui i motivi teorici della Romantik nascono, si sviluppato e raggiungono l’apax di tutto il movimento. Il romanticismo, senza troppa audacia, possiamo sostenere che nasca e muoia con Novalis. Tutta la poetica di Novalis si basa sull’opera la Dottrina della scienza di Fichte, che gli fu introdotta dall’amico Schiller. Il romanticismo è per prima cosa una questione di magia e la prima formula magica è quella costituita dall’io fichtiano. Il primo mago del movimento fu proprio Fichte, l’anima di Jena, che il poeta studiò e commentò a più riprese. Tale lato magico in Novalis si mischia ad un profondo cristianesimo protestante imbevuto di misticismo.

Passo dall’altra parte

ed ogni pena

diventa un pugno

di voluttà

Ancora un poco

e sarò libero

giacerò ebbro

in grembo all’amore.

Vita infinita

fluttua in me potente,

dall’alto guardo

laggiù verso di te.

Su quel tumulo

Il tuo fulgore si spegne

un’ombra reca

la fresca corona.

Oh suggimi, amato,

con forza in te,

ché assopirmi possa

ed amare.

Sento della morte

il flutto giovanile,

il balsamo ed etere

trasmuta il mio sangue

vivo di giorno

con fede e fervore,

di notte muoio

nel sacro ardore[7].

La poesia di Novalis si caratterizza per una miscela sempre volta al vitalismo di vita e morte, nella quale funge da elemento di equilibrio, quasi come la bilancia della giustizia, l’amore. Quest’ultimo è l’elemento basilare della concezione vitalistica del creato.

Ti vedo in mille immagini,

Maria, amabilmente figurata,

ma nessuna può rappresentarti

quale la mia anima ti ha veduta.

So solo che il tumulo del mondo

da allora mi è svanito come un sogno,

e un cielo d’indicibile dolcezza

mi sarà nell’animo per sempre[8].

Ecco il misticismo della poetica di Novalis si mischia con un profondo credo cristiano.

Le fonti dell’immaginario novalisiano possono essere rintracciate in numerose tradizioni letterarie e religiose: si va dalle opere dei mistici tedeschi, tra tutti Meister Eckhart e Jakob Bohme, alla lirica romantica e cimiteriale di Edward Yoing, passando per Shakespeare, Schlegel, Herder, Schiller, Fichte e Goethe.

Novalis è un autore immenso, fondatore del romanticismo, al quale però nelle antologie scolastiche di mezz’Europa ancora si continua a concedere poco spazio.

Quando in ore di tormentosa angoscia

il nostro cuore quasi si arrende,

quando sopraffatto dal male

il nostro intimo è roso dall’ansia

pensiamo ai nostri fedeli amati,

come miseria e cure li opprimano;

nubi limitano la nostra vista,

raggio di speranza non le passa:

Allora Dio si china su di noi,

il suo amore ci si avvicina,

allora desideriamo quell’altrove

in cui un angelo è accanto a noi,

reca il calice della vita giovane,

ci mormora conforto e coraggio;

e non invano allora imploriamo

pace per i nostri cari[9].

In Novalis il male incombe sempre dietro l’angolo, l’uomo è perseguitato costantemente da esso, che spesso all’ansia si accompagna. Il male non colpisce mai il singolo uomo, ma ingloba tutto il suo universo, i suoi affetti e i suoi cari. Le uniche figure salvifiche in un mondo luciferino sono Dio e la Madonna. La concezione luciferina di Novalis spesso si mischia a magia e occultismo. Qui troviamo un evidente richiamo al Graal, «calice della vita giovane»[10], nella concezione dei trovatori provenzali[11]. È proprio in questo periodo che in Germania si radicalizzerà il mito del Graal.

In Novalis anche l’immaginazione e l’immaginifico permeano profondamente il suo poetare. L’immaginazione di Novalis è quella intesa fichteanamente, dove finito e infinito si compenetrano. Essa produce magicamente una sintesi finzionale, rappresentativa, indugiando nel conflitto, oscillando tra gli estremi e cogliendone sempre un sunto. Essa è l’unica a vedere realmente l’unità originale della coscienza, cioè l’Io.

Novalis fu tutto questo: magia, occultismo, profondo credo e innovazione filosofica. Novalis fu il romanticismo.


[1] Per la biografia di Novalis si veda: G. Fontana, Novalis, Venezia, Marsilio, 2008.

[2] Carl Christian Erhard Schmidt è uno dei primi divulgatori della filosofia kantiana.Nel 1778 si immatricola a Jena, dove studia teologia e poi anche filosofia (con Johann August Heinrich Ulrich, un filosofo molto interessato alla filosofia kantiana). Nel 1781 è precettore presso la casa del padre di Friedrich von Hardenberg, in arte Novalis. Nel 1782 è Hausmeister a Schauberg e nel 1784 ottiene l’abilitazione (Magister) anche in filosofia, titolo grazie al quale può insegnare all’università di Jena. Nel 1785 tiene per primo lezioni sulla Kritik der reinen Vernunft. Proprio come ausilio per i suoi studenti nel 1786, pubblica un commentario di questa opera cui aggiunge un breve glossario, che, ampliato, costituirà il dizionario kantiano. Dal 1785 collabora con Christian Gottfried Schütz alla «Allgemeine Literatur-Zeitung» una rivista pubblicata a Jena che contribuì fortemente a diffondere il pensiero di Kant. A Jena è in contatto con molti esponenti del romanticismo, ma anche con Schiller e Goethe. Nel 1787 è nominato vicario e ordinato sacerdote a Wenigenjena, paese in cui suo padre è parroco dal 1777. Il 22 febbraio 1790 celebra le nozze tra Friedrich Schiller e Charlotte von Lengfeld. Nel 1791 è, a trent’anni, professore di logica e metafisica a Gießen. Nel 1793 torna a Jena sempre come professore di filosofia e, nel 1798, diventa professore anche di teologia.

[3] Per la biografia di Schiller si veda B. Von Wiese, Friedrich Schiller, Stuttgart, Metzler, 1959.

[4] Johann Gottlieb Fichte (Rammenau, 19 maggio 1762 – Berlino, 27 gennaio 1814) è stato un filosofo tedesco, continuatore del pensiero di Kant e iniziatore dell’idealismo tedesco. Le sue opere più famose sono la Dottrina della scienza, e i Discorsi alla nazione tedesca, nei quali sosteneva la superiorità culturale del popolo tedesco incitandolo a combattere contro Napoleone.

[5] M. Freschi, Mito e utopia nel Romanticismo tedesco, in Atti del Seminario Internazionale sul Romanticismo tedesco, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1984.

[6] Novalis, Inni alla notte, Canti spirituali, Traduzione a cura di Susanna Muti, Milano, Feltrinelli, 2012.

[7] Novalis, Inni alla, cit., pp. 71-72.

[8] Novalis, Inni alla, cit., p. 147.

[9] Ivi, p. 141.

[10] Novalis, Inni alla, cit., p. 141.

[11] Durante i secoli centrali del Basso Medioevo (1100–1230), il trovatore (o trovadore o trobadore – al femminile trovatrice o trovatora o trovadora – in occitano trobador pronuncia occitana: era un compositore ed esecutore di poesia lirica occitana (ovvero di testi poetici e melodie) che utilizzava la lingua d’oc, parlata, in differenti varietà regionali, in quasi tutta la Francia a sud della Loira. I trovatori non utilizzavano il latino, lingua degli ecclesiastici, ma usavano nella scrittura l’occitano. Indubbiamente, l’innovazione di scrivere in volgare fu operata per la prima volta proprio dai trovatori, supposizione, questa, da inserire nell’ambiente di fervore indipendentistico locale e nazionalistico (vedi età dei Comuni, nascita delle Università, eresie e autarchie cristiane).

Riccardo Renzi

Piero Saguatti

3 Maggio 2023

 

 

“C’erano campi immensi di grano in cui perdersi, le cui spighe gareggiavano in doratura coi raggi del sole e in altezza con noi bambini. C’erano stagioni estive che pareva durassero tutto l’anno, cariche di emozioni, sia all’interno dei cortili che in villeggiatura, nei vicini luoghi collinari o marittimi. L’amicizia era come un tatuaggio colorato, un’esigenza fisiologica che richiedeva illimitata disponibilità verso i compagni di gioco e dettava i ritmi ludici dei giorni, da trascorrere ostinatamente all’aperto. Ma quel periodo a cavallo degli anni ’60 e dei ’70 non era solo il nostro tempo speciale, fu tale anche per gli avvenimenti storico-culturali che contraddistinsero quella fase per un’intera società.”

 

Lo spigolo del senso (l’angolo del castigo)

 

Lo spigolo del senso

era contrapposto a quello del castigo

e ci trovavo dentro la libertà, la sfida

lo spirito del grido

nel dondolio

si passava dalla luce accesa

al buio, in un momento

la posizione presa

determinava l’emancipazione

o il fallimento.

 

 

Il bambino della porta accanto

 

Il bambino della porta accanto

vorrebbe farsi grande in fretta, cioè invecchiare

quello che faccio io da tempo

– ormai così lontano dal cortile –

è dimenticare quella scelta

    e ricordarmi di chiudere la porta, per non scappare.

 

 

(Da “Un bambino anni Sessanta”, Epika Edizioni, settembre 2022)

 

 

 Piero Saguatti (Bologna) classe ’63. Dopo una parentesi giovanile come cantautore, nella maturità scopre il fascino dei versi. La semplice curiosità per la poesia diventa sfida creativa trasformandosi piano piano in passione, che lo condurrà a partecipare ad alcuni fra i più prestigiosi concorsi poetici nazionali, ottenendo ottimi risultati. Uno di questi in particolare “Versi Congiurati” promosso nel 2017 da Fara Editore si concretizza nel libro di poesie “Il peso degli istanti”. L’espressione musicale resta una compagna fedele per l’autore fin dall’adolescenza, mentre la poesia si conferma l’irrefrenabile voce interna più matura, vera e propria devozione alla magia della parola.

 

È il suono che lega tutto assieme e ciò vale esplicitamente sia per i testi musicati delle canzoni, che in poesia in maniera più velata e sorprendente con i versi. La chitarra dunque resta compagna fedele dell’autore sin dalla adolescenza, mentre la poesia si conferma l’irrefrenabile voce interna più matura, vera e propria devozione alla magia della parola.

 

Riccardo Renzi > Baudelaire

13 aprile 2023

Baudelaire e il male interiore

Pensando alla letteratura francese dell’Ottocento, la prima figura che verrebbe in mente ad un medio lettore, nel 90% dei casi è quella di Charles Pierre Baudelaire. Ma perché proprio Baudelaire? Perché la sua figura ha ormai subito una canonizzazione all’interno dei vari sistemi scolastici europei e da cinquant’anni a questa parte e impressa nella memoria dei più. A tutto ciò si aggiunga che il suo spirito rivoluzionario lo rende assai attraente, in particolar modo appetibile per ragazzini in piena età dello sviluppo[1], con la loro voglia innata di cambiare il mondo.

Baudelaire nacque a Parigi, in Francia, il 9 aprile 1821 in una casa del quartiere latino, in rue Hautefeuille nº 13, e venne battezzato due mesi dopo nella chiesa cattolica di Saint-Sulpice. Il padre si chiamava Joseph-François Baudelaire. Era un ex-sacerdote e capo degli uffici amministrativi del Senato, amante della pittura e dell’arte in genere, e come prima moglie ebbe Jeanne Justine Rosalie Jasminla, dalla quale ebbe Claude Alphonse Baudelaire, fratellastro del poeta. La madre di Charles era la ventisettenne Caroline Archimbaut-Dufays, sposata da Joseph-François dopo la perdita della prima moglie[2]. Suo padre morì quando egli aveva soltanto sei anni e il matrimonio della madre, che si risposò poco dopo, determinò in lui una profonda sofferenza destinata a durargli tutta la vita, camuffata spesso da cinismo e spavalderia. Dopo aver conseguito la licenza liceale, Baudelaire cominciò una vita sregolata; il patrigno, il generale Auspick, sperò di ottenere un cambiamento persuadendolo ad un viaggio nelle isole dell’Oceano Indiano, ma al suo ritorno, ormai maggiorenne, Baudelaire riprese la vita stravagante, dissipò rapidamente il patrimonio ereditato dal padre, si avvilì sempre di più nell’alcool, nella droga, nella frequentazione di ambienti malfamati e di personaggi sempre più equivoci. Per vivere fu costretto a fare i più strampalati lavori, ma continuò sempre a scrivere e a lavorare per giornali e case editrici. Agli inizi del 1857 pubblicò I fiori del male, raccolta che gli procurò subito un processo per alcune liriche considerate immorali, fu dunque, pubblicato in seconda edizione, riveduta e purgata, nel 1861. L’opera non ebbe risonanze e il poeta, amareggiato e prostrato nel fisico e nel morale, si allontanò da Parigi la cui atmosfera gli era diventata insopportabile, e andò a vivere a Bruxelles[3]. Il cambio di città non gli giovò, nel 1866 ebbe il primo attacco di paralisi e l’anno dopo morì in una clinica di Parigi[4].

Les fleurs du mal, sono il suo capolavoro per eccellenza, una raccolta di liriche suddivisa in sei parti: Noia e Ideale, Quadri parigini, Il vino, I fiori del male, Rivolta, La morte. Esse costituiscono l’unità delle riflessioni del poeta. Sono un organismo di tenebrosa e profonda unità, con spiragli di ciceroniana saccenza, più propri di un oratore che di un poeta. Al momento della stesura, non vi fu volontà architettonica, ma fu guidato da l’esigenza di raccontare con modalità stratigrafica di opposizione: Noia e Ideale, Vita e Morte, Rivolta e Conservatorismo.

Tra foreste di simboli s’avanza

La Natura è un tempio in cui pilastri vivi

a volte emettono confuse parole;

l’uomo, osservato da occhi familiari,

tra foreste di simboli s’avanza.

Come lunghi echi che di lontano si confondono

in una unità profonda e tenebrosa,

vasta come la notte e come la luce,

i profumi, i colori e i suoni si rispondono.

Esistono profumi freschi come carni di bambino,

dolci come oboi, verdi come prati,

ed altri corrotti, ricchi e trionfanti,

che hanno l’espansione delle infinite cose,

come l’ambra, il muschio, l’incenso e il benzoino

e cantano l’estasi dello spirito e dei sensi.

In Baudelaire troviamo sempre un intimo rapporto con la natura, derivante dagli studi che egli fece su di essa, dallo studio della luce in campo pittorico, a quello sonoro. In lui inoltre è sempre presente, anche se a volte celato nell’ombra, lo Spleen, termine inglese che indica una forma malinconica e dolorosa di noia, di cui è vittima fin dalla tenera età il poeta. Questo sentimento può prendere forme diverse, legate a differenti luoghi chiusi, quali tombe e prigioni.

Spleen

Quando il cielo basso e oppressivo pesa come un coperchio

sull’anima che geme in preda a lunghi affanni,

e versa, abbracciando l’intero giro dell’orizzonte,

una luce nera più triste di quella delle notti;

quando la terra si è trasformata in un’umida prigione,

dove la Speranza, come un pipistrello,

va sbattendo contro i muri la sua ala timida

e picchiando la testa sui soffitti marciti;

quando la pioggia distendendo le sue immense strisce,

imita le sbarre di una grande prigione,

e un popolo muto d’infami ragni

tende le sue reti in fondo ai nostri cervelli,

a un tratto delle campane sbattono con furia

e lanciano verso il cielo un urlo orrendo,

simili a spiriti erranti e senza patria,

che si mettono a gemere ostinatamente.

– E lunghi funerali, senza tamburi né musica,

sfilano lentamente nella mia anima;

vinta, la Speranza piange; e l’atroce Angoscia, dispotica,

pianta sul mio cranio chinato il suo vessillo nero.

Nel componimento sono posti in parallelo lo spazio esterno e quello interiore del poeta, entrambi rappresentati come prigioni dalle quali ogni tentativo di fuga risulta vano. Nella prima quartina il cielo è paragonato a un “coperchio” che schiaccia l’animo del poeta, già oppresso da dolore e preoccupazioni, e che porta sulla terra oscurità e tristezza. Nella seconda quartina la terra diventa una “prigione”, nella quale non c’è spazio per la Speranza, che è paragonata a un pipistrello che sbatte da ogni parte poiché non trova il modo per uscire. Il corpo è sempre concepito come prigione dell’anima, mentre la terra come prigione dell’uomo. In tutta la sua vita Baudelaire, proprio come Rimbaud e Campana, dopo di lui, si sentirà un estraneo tra gli uomini, un migrante errante, senza patria e senza meta.

  Riccardo RENZI   Dopo la laurea triennale in Lettere classiche presso l’Università degli studi di Urbino, discutendo una tesi recante titolo La nobiltà in Francia nei primi due secoli dell’età moderna (febbraio 2017), ha conseguito la Laurea magistrale in Scienze Storiche presso l’Università di Macerata discutendo una tesi dal titolo Latin historian’s manuscripts and incunabola preserved at Fermo Public Library Romolo Spezioli (ottobre 2020). Ha inoltre conseguito una Summer school in metrica e ritmica greca presso la Scuola di metrica dell’Università di Urbino (2016), il percorso psico-pedagogico per l’insegnamento (24 CFU) presso l’Università di Macerata (2019) e i diplomi in LIM e Tablet. Nell’ottobre 2022 consegue il Master di primo livello in “Operatore delle biblioteche”. Nel 2022 entra a far parte del Centro studi sallustiani, dell’Unipop di Fermo, del comitato scientifico della rivista di filologia greca e latina Scholia (didattica), in qualità di vicedirettore e in qualità di socio-amico dell’Aib. Insegna materie letterarie presso l’Istituto di Formazione Professionale Artigianelli di Fermo. Appassionato di storia greca e romana, e di poesia, ha pubblicato numerose monografie sugli storici latini e alcune sillogi poetiche (Renzi Riccardo, La tradizione delle opere sallustiane dai manoscritti agli incunaboli della Biblioteca civica di Fermo, AndreaLivi Editore, 2020; Renzi Riccardo, Tito Livio. La fortuna del più grande storico romano, Primicieri Editore, 2021; Renzi Riccardo, APPIANO ALESSANDRINO. Dall’età classica all’età contemporanea, Primiceri Editore, 2021; Renzi Riccardo, Rufo Festo Avieno, la fortuna di uno storico minore, Ipazia: collana di antichità classiche, Arbor Sapientiae editore, 2021; Renzi Riccardo, La fortuna di uno storico minore: Lucio Anneo Floro, i manoscritti e gli incunaboli della Biblioteca Civica Romolo Spezioli, con prefazione di Alessandro Cesareo, Amarganta, 2021; Renzi Riccardo, Svetonio. Dall’età classica all’età moderna. Gli esemplari della Biblioteca civica Romolo Spezioli di Fermo, con prefazione di Alessandro Cesareo, Padova, Primiceri, 2022; Renzi Riccardo, Frammenti poetici, BookSprint, 2021; Renzi Riccardo, ἀλήθεια, Sonnino, Edizioni La Gru, 2022; Renzi Riccardo, Studi e riflessioni sull’evoluzione del ceto nobiliare: tra la fine del medioevo e la prima età moderna, Padova, Primiceri, 2022), collabora inoltre con le riviste: «Scholia», «Scholia didattica», «Il Guerrin Meschino», «Storia Libera», «Riscontri», «Il Borghese», «Il Polo», «Marca/Marche», «Inchiostro», «Avanguardia», «Italia medioevale», «Prometeo», «Miscellanea francescana», «Schede Medioevali», «Il Sentiero Francescano», «Civiltà Romana», «Studi Francescani», «Versi diversi», «Poets and Poems», «Italia Francescana», «Voce Romana» e «Il Mago di Oz».  

[1] Nel sistema scolastico italiano solitamente si affronta in IV° superiore.

[2] Introduzione a I fiori del male, Cronologia della vita e delle opere, a cura di Giovanni Raboni, Milano, Giulio Einaudi Editore, 2014.

[3] C. Baudelaire, I fiori del male, a cura di Gesualdo Bufalino, Milano, Mondadori, 2018, p. 30.

[4] S. Guglielmini, Guida al Novecento, Milano, Principato editore, 2009, p. 29-30.

Acruto Vitali – Riccardo Renzi

10 marzo 2023

Acruto Vitali: un poeta dimenticato

Acruto Vitali fu uno dei maggiori interpreti di quella temperie culturale che tanto animò il territorio fermano[1] tra gli anni quaranta e sessanta del Novecento.

Era nato a Porto San Giorgio il 5 ottobre del 1903 da Primo, uno dei più grandi industriali della zona, proprietario di una fabbrica di ghiaccio tra le più grandi delle Marche, e da Ada Cestarelli. Frequentò l’Istituto Tecnico Industriale di Fermo. Agli inizi del 1926 si trasferì a Milano per studiare musica e canto. Qui fu allievo di Alessandro Bonci[2], mentre a Roma di Sammarco. L’esordio avvenne nel 1929 ne I Pescatori di perle di Bizet, nel ruolo di Nadir. Negli anni Trenta si esibì come tenore nei maggiori teatri nazionali e internazionali, ma lo scoppio della guerra interruppe le sue attività. Nel 1940 si vide costretto a tornare a Porto San Giorgio, dove aiutò il padre nella gestione dell’azienda di famiglia[3].

Risulta assai difficile parlare di Acruto Vitali poeta e pittore, senza parlare di alcune amicizie illustri che ebbe nel corso della sua vita e che condizionarono il suo gusto poetico e artistico. Per quanto concerne la poesia, la coltivò fin da adolescente assieme a un suo caro amico, Sandro Penna[4]. Il poeta perugino trascorreva infatti tutte le estati con la famiglia a Porto San Giorgio e proprio sulle spiagge di questa cittadella dell’Adriatico i due fanciulli strinsero una salda amicizia. Vitali, anche in tarda età, ancora raccontava di quello splendido periodo della sua vita trascorso con l’amico Sandro a leggere Rimbaud sulla spiaggia. Fu proprio Vitali nell’estate del 1925 a far conoscere la poesia di Rimbaud a Penna[5]. Spesso i due discutevano anche di letteratura francese, in particolare di Gide e Proust[6].

Gli amici illustri di Vitali però non si esauriscono qui. Egli parlava infatti dei poeti francesi anche con Ubaldo Fagioli e Franco Matacotta[7]. Mentre con uno dei più grandi pittori del primo Novecento, Osvaldo Licini, parlava di Leopardi.

Per il pittore di Monte Vidone (Osvaldo Licini), Leopardi fu un’ossessione. Spesso si recava a casa dell’amico sangiorgese per farsi recitare qualche verso del poeta recanatese e puntualmente al termine di ogni recitazione, affermava che prima o poi avrebbe dedicato al poeta una serie di quadri. Un giorno Licini si recò da Vitali con un piccolo quadro sotto braccio e gli disse: «Ecco qua il mio Leopardi», era un’Amalassunta luna. Chiusa questa breve parentesi su un altro grandissimo artista del Novecento, continuiamo ad esaminare le amicizie illustri che Vitali ebbe[8].

Durante il soggiorno milanese, nonostante lavorasse come musicista, mai tralasciò l’amore per la poesia e dalle lettere con Penna sappiamo che in quegli anni intratteneva rapporti con Leonardo Sinisgalli, Giovanni Titta Rosa e Sergio Solmi[9]. Nel 1937 anche Penna si trasferì a Milano, ove lavorava come correttore di bozze presso l’editore Bompiani, in quei tre anni i due si incontravano quotidianamente la sera presso la Galleria Il Milione. Quando Vitali era a Roma per motivi lavorativi lasciava le chiavi del suo ampio e confortevole appartamento a Penna e un giorno accadde un curioso episodio, Vitali tornato in anticipo da Roma trovo la porta dell’appartamento chiusa dall’interno e bussando gli venne ad aprire Umberto Saba, che a sua volta aveva ricevuto le chiavi da Penna. Da questo simpatico episodio nacque un’amicizia tra i due. Dunque, ai tanti amici illustri si aggiunge anche il nome di Saba[10].

Vitali aveva iniziato a scrivere poesie fin da giovanissimo, la prima di cui abbiamo testimonianza risale all’estate del 1909:

Fui un passero, socchiuso tra le ciglia

d’un alba, a la gronda del cielo.

Ora, conchiglia mi nutro di sole,

e mi muove la luna sulle sabbie nei pleniluni[11].

In questi anni ancora non si era legato così profondamente alla poesia rimboudiana, ma prendeva a modello i grandi della poesia italiana, in primis Leopardi e Pascoli. Nel 1925 pubblicò sulla rivista «La Lucerna» la poesia La forma della sera:

 Quando il vespro adunò l’ombre ed il cielo

fu come il grande specchio della sera,

io vidi profilarsi la chimera

nel colore del tuo pallido velo.

E un tremore m’invase, uno sgomento,

una paura folle e indefinita

quand’io tentai l’indugio delle dita,

in quella forma vana come il vento;

nulla: parvenza della sera azzurra

coi suoi misteri, in giochi di penombra,

intorno al lembo del tuo lieve velo…

Tu mi scuotesti: Senti? Non sussurra

foglia; il silenzio come un fiume d’ombra,

scorre così che noi sentiamo il cielo[12].

L’onda musicale è prettamente italica, forti sono gli echi pascoliani, ma anche il primo Rimbaud inizia a farsi sentire nella trasmissione di una profonda inquietudine.

Vitali amò e coltivò sempre la poesia, dall’adolescenza sino alla piena senilità, ma della sua attività poetica si curò sempre poco. Non putò mai a farsi conoscere dal grande pubblico, preferiva recitare i suoi componimenti con gli amici cari. Gli amici erano attratti da lui più come cantore/musicista che come poeta.

Il presente lavoro ha solamente introdotto minimamente l’immensa figura intellettuale di Acruto Vitali, poeta, pittore e tenore. L’obiettivo è quello di far riemergere questa figura dall’oblio e le tenebre nelle quali per troppo tempo è risieduta.


[1] Territorio dell’attuale provincia di Fermo, un tempo sotto quella di Ascoli.

[2] Nacque professionalmente al Conservatorio “Gioachino Rossini” di Pesaro, dove ebbe modo di lavorare con Carlo Pedrotti e Felice Coen. Fece il suo debutto al Teatro Regio di Parma nel 1896, nel Falstaff di Giuseppe Verdi. Tale fu il suo successo che prima della fine della stagione fu ingaggiato dal celebre Teatro alla Scala di Milano, dove esordì ne I puritani. Seguirono apparizioni in tutta Europa. Il 3 dicembre 1906, salì sul palco della Manhattan Opera Company, ancora ne I puritani. Stette ben due stagioni nella famosa Compagnia, diventando per il pubblico una sorta di competitore di Enrico Caruso, il quale era allora la maggiore attrazione della rivale Metropolitan Opera, per il quale, peraltro, Bonci avrebbe poi firmato nel 1908. Dopo la sua esperienza newyorchese, Bonci intraprese un lungo tour canoro intercontinentale durato più di un anno, fra il 1910 e il 1911 e, quindi, fu messo sotto contratto dalla Chicago Opera, nel 1914. Il 30 dicembre 1913 fu iniziato in Massoneria nella Loggia Otto agosto di Bologna, divenne Maestro massone il 19 marzo 1914. Scoppiata la prima guerra mondiale fu richiamato alle armi e servì fino alla fine del conflitto. Immediatamente dopo tornò negli Stati Uniti d’America per un tour di tre stagioni, che lo riportarono sul palco del Metropolitan e a Chicago. Fra il 1922 e il 1923 fu primo tenore del Teatro Costanzi di Roma. Dopo il 1925 cominciò a diradare i suoi impegni e a privilegiare la sua attività di maestro a Milano.

[3] Acruto Vitali poeta e pittore (1903-1990), a cura di E. Pecora, A. Luzi, S. Papetti, Fermo, Andrea Livi Editore, 2017, p. 12.

[4] G. Altamura, E. Pecora, M. Verdastro, Sandro Penna: il dolce rumore della vita, Asola (MN), Gilgamesh, 2022, p. 34

[5] Acruto Vitali poeta e pittore (1903-1990), cit., p. 9.

[6] Le letture e i discorsi tra i due amici sono comprovati da una fittissima corrispondenza ancora oggi conservata dalla famiglia Vitali.

[7] Si veda: A. Mastropasqua, MATACOTTA, Franco, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 72, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2008. Matacotta dopo l’infanzia e l’adolescenza trascorse a Fermo, si trasferisce a Roma per frequentare l’università. Matacotta ha pubblicato con lo pseudonimo di Francesco Monterosso alcune poesie sparse su riviste. Poi il 20 dicembre del 1941 pubblica i Poemetti col suo vero nome nelle edizioni di “Prospettive” dirette da Curzio Malaparte il cui vero nome era Kurt Erich Suckert. Nel gennaio del 1936 inizia la corrispondenza con Sibilla Aleramo, a quel tempo sessantenne; insieme intrecciano una relazione amorosa difficile e complessa che durerà sino al marzo 1946. Grazie a questo rapporto, Matacotta può consultare numerose carte di Dino Campana custodite dall’Aleramo (che aveva avuto col poeta una relazione durata dall’agosto al dicembre del 1916), e pubblica nel 1949 il cosiddetto “Taccuino Matacotta”, in cui riunisce alcuni testi inediti del poeta dei Canti Orfici. Nel 1939 si laurea con una tesi dal titolo “Giuseppe Ungaretti o della parola come mito”; due anni più tardi, nel 1941 parte per la seconda guerra mondiale ed è di stanza in Sardegna; più tardi si unirà ai partigiani. Finita la guerra, collabora con Il Mattino e Paese Sera. Nel 1946-47 fu insegnante di lettere nella Scuola Media di Civitavecchia, di cui era preside Guglielmo Cascino. Nella scuola si volevano portare avanti alcuni esperimenti di “scuola attiva” sui quali Guglielmo Cascino riferisce in un suo testo: Nuovi orientamenti per la scuola secondaria, edito presso Paravia nel 1951.

[8] L. Trapè, Licini, Leopardi e il paesaggio sublime, Macerata, edizioni Ephemeria, 2019.

[9] G. Altamura, E. Pecora, M. Verdastro, Sandro Penna, cit., p. 56.

[10] G. Altamura, E. Pecora, M. Verdastro, Sandro Penna, cit., p. 60.

[11] A. Vitali, Il tempo scorre altrove, All’insegna del pesce d’oro, Milano, Scheiwiller, 1972.

[12] A. Vitali, Il tempo, cit., p. 19. La medesima poesia era già stata pubblicata nella presente raccolta nel 1921.

Riccardo Renzi

Mirko Boncaldo

23 gennaio 2023

   

                  

Senza titoli. Sovversi è un’opera inconclusa, in fieri. Due sensi decretano il nome di questa raccolta: la negazione valoriale della titolarità dell’autore e l’assenza dei titoli dei componimenti. La prima strada rivela la natura di persona interposta, di soggetto preso a prestito, a cui la poesia non si riduce, di fatto questi versi si sono riversati contro l’autore per liberarsene. La seconda, libera il gioco interpretativo attraverso il quale è il lettore a ricostruire il senso dei componimenti, poiché questi non hanno un titolo di riferimento. Porte aperte. Il resto è auspicabile non si spieghi. L’autore sarebbe anche rimasto anonimo, il suo nome è conservato solo in omaggio alla prassi.

Della raccolta scrive l’editore Giulio Milani:Nessun “mero fatto” viene esaurito in una descrizione. Qui il linguaggio gioca una partita contro sé stesso, i suoi limiti, per far emergere l’illimitato, o se vogliamo l’irriducibilità dell’essere al contenuto di una proposizione. L’espressività in una deriva che frange gli io, la parola, fino allo smarrimento di ogni referente.”

                     

                            

                        

Da grembo a tomba scandaglia
nella fibra sfilacciata del tempo
per sceverare lo scorso, il vivo e l’entrante
in attesa della vampa: fa la spola
dall’altra sponda giungendo
lisa alla vita come una cintura
o la ragnatela.
                           
                   
                    

come un funambolo in bilico oscilla
sul sottile bivio in attesa di divaricarsi
tra il vuoto e l’ignoto, scissa
a doppio taglio fino a capovolgersi, ubiqua
come sull’acqua tiepida, dolce.

                           
                   
                    

con le punta di dita, rorida
come brina sulle sgretolate screpolature
vieni
e sobilli atavici sedimenti
di fiori sconosciuti e incandescenti
incredule ombre
che l’acqua non regna, lontana
che bagna:
suffragetta, partigiana, femme.

                           
                   
                 

elevo: è vocazione
che dalla tua voce immane
scuote e in me permane
provocante consunzione
ascoltarti di nuovo
parlare nel silenzio pesto,
leggiadra invocazione,
ladra delle parole.

con te mi sperpero.

                                                                    
                                                  

Dove mesce il torrente nella valle
i muretti a secco riparano aranceti,
melograni, ulivi, un vecchio mulino
in rovina e la memoria di mio nonno
seminata nei grani antichi di Sicilia,
nelle sigarette sfuse di mio padre,
nei finissimi spilli del fico d’India
trapunti nelle mani di un bambino.

ammassati come il pane,
questi sono i miei ricordi, le mie
confabulazioni.

                                                     
                                       

per ogni lacerto latrato
che la storia non racconta
raccolgo ogni memoria.

è la scorta di scarti accumulata
rimossa
blinde
che più non si dice.

scancellata
logorata
massacrata

è l’ultima non l’ultima rivolta parola
quella che si perde
quella che non si ritrova.
apolide.

                                                     
                                    
                    

Solo lungo inverni osservo:
bianco fulgido incanto
che il perlaceo estatico manto
ridiscopre: tempio
ineluttabile tempio assorto
nel buio abbaglio di isole
remote: faro, si, faro
o cigno che schiude le ali
dell’ultima canzone
sospinto dallo zefiro
e dunque fremito: sole,
è sole dal lago che chiami,
che chiami e ancora
affinché l’aia disveli
e sulle scogliere sollevi: Domani.

                           
                   
                              

Mirko Boncaldo è nato nel paese di Bartolo Cattafi e da qualche anno ha 25 anni. Vive a Bologna dove ha studiato Lettere Moderne e Semiotica: qui si occupa di comunicazione e viaggi nel futuro. Si dedica alla poesia sin da giovane, seppure, fino a questa pubblicazione, privatamente. I suoi interessi personali si rivolgono in particolare alle tematiche di genere e della tutela ambientale. Questa è la sua prima silloge.

Carmen Lama – Valentino Vitali

15 gennaio 2023

I confini dell’acqua. Fotopoesie.

di Carmen Lama e Valentino Vitali

Ed. Youcanprint



D’un istante perfetto

Non lumi di memoria né ricordi

ma solo la bellezza dell’istante

che non si perderà

incastonato com’è fra cielo e lago

mentre vagano gli occhi alla ricerca

dello sguardo poetico che ha colto

lo stupore il silenzio l’abbandono

                 



Anche se il lemma non compare nei vocabolari (e non soltanto in quelli italiani), il termine fotopoesia  e le sue molteplici varianti tra tante: fotopoema, fotopoetry, fotoverso, fotograffiti,  – vengono ormai da lungo tempo impiegati per designare una forma d’arte in cui poesia e fotografia, poste su un piano di pari dignità, si intrecciano simbioticamente per dar vita a un prodotto artistico nuovo, originale, complesso e unitario al tempo stesso. 

La prima attestazione dell’uso della parola si fa risalire al 1936, e per quanto l’accostamento tra immagini e versi sia già ampiamente praticato, la sua presenza nel titolo di una raccolta (Photopoems: A Group of Interpretations through Photographs  di Constance Phillips) offre al termine una indiscutibile legittimazione.

Sin dalle esperienze pionieristiche delle avanguardie novecentesche, poi riprese con interesse crescente dalla fine degli anni ’50, si osserva come e quanto gli artisti subiscano il fascino dell’interlinguaggio, derivandone sempre nuove posture nei confronti della realtà e raffinando strumenti per operare feconde intersezioni tra le arti. È indubbio che la pratica fertile delle contaminazioni tra discipline artistiche abbia contribuito a sfumarne i contorni, lasciando emergere aspetti di sorprendente continuità al di là degli steccati categoriali.

In generale, gli studi che nel corso del Novecento affrontano le questioni messe in campo da questo genere di fenomeni artistici, anche muovendo da vertici e prospettive diverse,  pongono comunque l’accento sull’importanza di non limitarsi a pensare alla ‘con-fusione’ delle arti come a mere sovrapposizioni o giustapposizioni, come esito di una semplice sommatoria, ma di coglierne la costituiva natura di eventi dotati di nuova e diversa dinamicità, interattività, imprevedibilità, ed esortando a pensarle come vere e proprie simultaneità produttive, secondo l’espressione che Adriano Spatola utilizza nel suo celebre saggio  Verso la poesia totale (1969).

Non difformemente, del resto, pur non muovendo da interessi estetici quanto piuttosto di ordine conoscitivo, nel campo degli studi sperimentali sulla percezione la Psicologia della Gestalt perveniva già a inizio secolo a conclusioni analoghe, quando affermava che il tutto è più della somma delle parti, sancendo definitivamente un principio che avrebbe mostrato la propria forza investendo ogni ambito culturale e ponendosi come premessa a ogni discorso sulla complessità.

Ed è proprio avendo bene in mente tale stimolante complessità che si offriranno giusto ascolto e aperto sguardo al libro di Valentino Vitali e Carmen Lama, dichiarata e ottimamente compiuta opera di fotopoesia, affascinante simbiosi di luce e parole, di immagini visive e verbali, intreccio originale di immediatezza visiva e condensazione semantica.

Se è vero che nella fotografia come nella poesia il significato non è mai fissato definitivamente e, soprattutto, non è contenuto esclusivamente all’interno dell’opera ma dipende invece (anche) da un fruitore che – ne abbia coscienza o no – lo costruisce e ricostruisce in base a un numero inafferrabile di fattori, tra i quali la propria sensibilità, la cultura, il contesto, lo stato d’animo, etc., nella fotopoesia la natura dell’interazione tra foto e testo poetico dilata ulteriormente il potenziale semantico dell’immagine e quella silenziosa pensosità di cui parla Byung-Chul Han ne La salvezza del bello (2019), ne rivela il nascondiglio, dispiega senza spiegare, e, contemporaneamente, offre enfasi all’istantaneità del testo poetico e alla sua densità.

Esattamente come raccomandato nel «Manifesto di fotopoesia», esito delle interessanti collaborazioni tra Robert Crawford e Norman McBeath, rispettivamente poeta e fotografo britannici, così come le fotografie non dovranno porsi quali  illustrazioni dei testi poetici ma opere d’arte che risuonano insieme a essi, le poesie siano ben lungi dall’essere mere descrizioni delle immagini.

Qui, in particolare, la poesia di Carmen Lama, dettato trasparente, eleganza formale ricercata e raggiunta dentro forme chiuse che rivelano un orecchio affinato da letture vaste e lungamente meditate (e che, per inciso, richiamano alla mente la “cornice” fotografica) non è mai ancillare didascalia dell’immagine che, al contrario, con assertiva pacatezza, illumina mentre se ne lascia illuminare.

I temi rappresentati l’inesausta aspirazione alla bellezza, la cattura dell’istante, l’umanissima tenzone con il tempo, il suo inarrestabile fluire, e, su tutto, il paesaggio, segnatamente quello lacustre, un paesaggio che, zanzottianamente, è anche «orizzonte psichico» – emergono nell’armonico rincorrersi di versi e luce, insieme agli interrogativi fondamentali sulla percezione visiva, sullo scarto irriducibile tra visione e sguardo, tra realtà e immagine. La poesia talora riflette su sé stessa, sul privilegio della meraviglia, sulla propria responsabilità; si arrovella sul rapporto tra parola e cosa: «Scrivo “pozzanghera”/e già si muove un riflesso di luce/nell’acqua fangosa che forma la parola/che “è” la stessa parola». Nel farsi sempre più sfumato dei confini «fra soggetto e oggetto», tra sé e mondo – sono confini d’acqua, del resto,  che, già a partire dal titolo della raccolta, ossimoricamente sfuggono alla presa –  l’io lirico sembra maturare una nitida visione metapoetica: «La trasparenza della fotografia/è uno sguardo che si spinge lontano/(…)/talvolta con serendipità/scopre angoli nascosti/porta alla luce dei veri tesori», recita un testo particolarmente pregnante.

«Il rapporto tra poesia e fotografia è di rottura e serendipità, appropriazione e scambio, evocazione e metafora», scrive Michael Nott nel suo saggio Photopoetry, 1845 – 2015. A critical history (2016): quella di Lama è dunque una netta dichiarazione di poetica. Mentre i suoi versi e la fotografia evocativa di Vitali portano in scena, appropriandosene, la sensuale bellezza dei luoghi ritratti («sono questi i miei luoghi», scrive la poetessa), si occupano simultaneamente di ciò che è visibile e di quanto non lo è. Le parole che Antonio Prete dedica al saggio di Yves Bonnefoy, Poesia e fotografia (2014) lo spiegano con invidiabile chiarezza: «(…) nell’implacabile rivelazione del caso, della nuda materia, dell’assenza che la fotografia ha introdotto, ci può essere, grazie all’alleanza tra lo sguardo del poeta e lo sguardo del fotografo, una nuova presenza, un nuovo tempo. Un’immagine salvata. Il nulla non avrà trionfato».

Patrizia Sardisco


                             

 

Un lago

Un lago – la sua linea d’orizzonte
la simmetria che specchia le montagne
i rami di betulle che accarezzano

(lunghi capelli vaporosi all’aria
o curvi come salici piangenti)

due cigni solitari che abbandonano
un’antica inquietudine
eleganti sull’acqua scivolando –

…….

 

 Per un futuro d’acqua

*se mai dovesse nascere di nuovo*

Oh, no – non ci saranno altre rinascite
si attendono non-luoghi – e orizzonti sfuocati
laddove non si arriva e non si parte

dove i ghiacci in silenzio
si ostinano a pregare
per un futuro d’acqua –

una forma diversa di rinascita
e poi nient’altro affatto –

Antonio Sambiase

6 gennaio 2023

Copertina _Momenti_Sambiase

Dalla nota introduttiva: “I miei versi nascono da un’esigenza di dare voce, e forse anche qualche contorno, alle emozioni di esperienze vissute da me o da chi mi sta vicino, o da una persona qualsiasi che ha catturato il mio sguardo camminando per strada o viaggiando in metropolitana. Così un momento qualsiasi della quotidianità, mia o di una persona a me sconosciuta, diventa soggetto dei miei versi.”

Poesie estratte da Momenti di Antonio Sambiase (Controluna edizioni 2022)

Non arrenderti (p. 11-12)

Andare avanti per inerzia,
sentire il calore del sole
che brucia la pelle
ma non provare dolore.

Mi sento un pesco,
bloccato sotto il sole d’estate,
inerme, illeso.

Ma sento che devo andare:
camminare, correre, arrancare
per cercare il lume nel fondo,
per dar luce a questa misera vita
di bianco e nero vestita.

Non vedo sfumature,
ho un arcobaleno dentro
che non riesce ad uscire.
Mi sento freddo,
mi sento morto.

Sono un salice piangente,
ho i nervi a pezzi,
si contraggono, fanno male,
trattengo il mio dolore.

Sono un fiore di una landa desolata,
appassito, dal colore spento.

Steso me ne sto
su un misero letto d’ospedale.

*

Ritrovo me stesso (p.21)

In questa notte
tra musiche e parole
rivedo quel piccolo fanciullo.

Mi saluta, mi parla
non lo ricordo.

Una faccia così familiare.

*

Sospensione (p. 25)

Sono sospeso,
abito il mare,
abito la terra,
uccello marino e terrestre.

Vivo di ricordi,
vissuti o immaginati?

Altro non sono
se non un essere privo di forma.
Inconsistente nell’animo
e nella carne.

Fui forma o fumo?
Evaporo, prendo forma,
ho un corpo
tangibile ma inafferrabile.

Percorro rotte,
con mete note,
da una bussola guidato.

Oh, potessi non averti!
sarei senza meta,
senza strada,
sarei essere libero,
sarei aria, acqua e terra!

*

Condannato (p. 46-47)

Cede il mulo
mandato su e giù
per l’arida terra
a trasportar le stracolme
ceste del mattutino raccolto,
che mai potrà mangiare.

Sta là, a giovar ad altri
non a lui.

Ridotto per l’altrui
volontà, ad essere un mezzo.

Spento nella sua natura,
usato per la sua forza,
chiuso in un recinto
e libero
in un recintato campo.

Strigliato e bastonato
ad ogni freno da lui posto.

Eccolo lì all’ennesimo giro
tra la stalla e i campi.

Cedono le zampe,
è sfinito ormai!

Cade a terra.
Ora è libero.

*

Il vuoto (p. 44)
Giorni, sono giorni ormai
che mi accompagna una (dolce) malinconia,
che non ho sentito mai
in me. Mi tormenta
mi parla, mi incanta.

Ore passate a guardare
il vuoto, senza saper che fare
del futuro imminente.
Lei mi desta strane idee in mente.

Manca il coraggio di metterle in atto.

*

Di notte (p. 45)

Di notte me ne stavo
ad osservar il duro incavo
tra il soffitto e la parete,
che mi proteggono,
i pensieri velocemente intenti a scorrere
come un burrascoso torrente,
distogliendo dalla mente
il tempo presente.

*

Falso arrivederci (p. 27)
Delle voci si sentono dalla finestra:
saluti e baci scoccati si odono,
richieste di un’ultima foto insieme.

Con tono di voce da ubriachi.
Si sente lo sbattere delle bottiglie
ancora mezze piene.

Una urla: “mi mancherai”, palesemente
ubriaca, l’altro risponde; “lo vedremo”,
palesemente sobrio, un ultimo abbraccio.

Si separano.

Non si vedranno più.

Foto Antonio

ANTONIO SAMBIASE, classe 1993, nasce a Parghelia in provincia di Vibo Valentia. Dopo gli studi scientifi ci si è trasferito a Roma e si è laureato in Filologia Moderna, per poi intraprendere studi biblioteconomici. Oggi si dedica al suo lavoro da bibliotecario, alla letteratura e alla poesia. Momenti è la sua opera prima.

Giuseppe Settanni

19 dicembre 2022

                                      

                             

*

nel frattempo, galleggiavi
attaccato alla rete

e quel figlio
avrebbe dovuto riscaldarsi
accanto a te

la colpa era scontata:
un lenzuolo, una lampada

respiravi con regolarità

fino a quando
il tentativo
di rendere impraticabile
quell’anima pesante?

il caffè è torbido,
forse si può rinascere
anche senza la speranza

                               

                           

*

piove fango

premio di una saldatura,
conservazione garantita
al minimo

ripetendo
ripetendo involontariamente
involontariamente e al freddo
battere il ferro
finché morte non mi separi

                        

                  

*
al telefono
una volta l’anno
in cerca di dilatazioni
barattoli senza scadenza

ti ricordi
della passeggiata in cattedrale?

avrò avuto, futuro anteriore
in disuso

i cardini rosicchiati
topi nella baracca
quintali di legna
sui binari le formiche

allora quando ci vediamo?

                       
                      

*
se faccio la conta
qualcuno manca sempre
e non posso prosciugarmi
per svanire tra le zolle

al vento rispondo
potevi farlo tu

no, sono il primo a non crederci
a non credermi

alcuni piedi si allontanano
come il pane fatto in casa

                      
                         

*
come volevi
hai portato a termine
la sostituzione

il fermacarte
trattiene i rimpianti,
velleità descritte
a matita

un mondo sbilenco
pronto a riceverti e svanire

accoglimi nel tuo anonimato
dove le definizioni si confondono
con le lancette tagliate a metà

                                 
                            

                                                         

Postfazione
di Ilaria Triggiani

 

                               
Cosa fa di un verso, una poesia? Cosa rende un uomo, anche un poeta?
Sono queste le domande da porsi al termine di Affreschi strappati, terza pubblicazione di Giuseppe Settanni, arrivata un po’ insieme alla stessa maturità anagrafica dell’autore.
Forse perché, già dal titolo, si avvertiva un senso di rottura, un piccolo momento – o motivo? – di ribellione, un’inquietudine non ancora risolta, ma finalmente rivelata.
Come fece l’immenso Montale negli ultimi anni di vita e in risposta a coloro che incessantemente chiedevano cosa la poesia fosse, quale atto – umano o divino – la rendesse tale, dopo questo libro è lecito ancora domandarselo. Se lo chiede il lettore, ma ancor prima l’autore. Poiché è l’autore il primo destinatario del suo stesso poiéin. Poiché la riflessione sul linguaggio, determinante nella poesia di Settanni, qui diventa
umanamente urgente. Poiché da questi versi emerge prepotente una curiosità nuova, rinvenire chi si cela dietro la poesia, e poi ancora dietro il poeta. Come in un gioco di scatole cinesi. Come se la poesia, l’arte, si potessero spiegare empiricamente.
O psicanaliticamente.
Ma il poeta ha la straordinaria dote di affrontare tutto con naturale leggerezza. Anche ora che la materia prende corpo, che il pantone lascia spazio alla scala cromatica, l’ansia non prevale sulla ragione. Il linguaggio si fa più asciutto,
quasi tagliente. Il senso metafisico permane, nella forma e nella sostanza, ma questa volta, purezza e misticismo si alternano a modi crudi, talvolta indelicati, quasi l’autore avesse trovato coraggio. Coraggio di squarciare il velo classico della perfezione e gridare al mondo istanze nuove e potenti.
Ecco che allora la celestiale geometria piana dei pensieri si concretizza, lasciando trapelare un umanesimo talvolta sconosciuto.
L’inconsistente fluttuare delle prime poesie si sporca un poco di terra e sangue, rendendo l’atmosfera più carnale, esiziale. Pur continuando a giocare abilmente tra sacro e profano, ora il poeta sceglie di stare nel mezzo, in un interstizio corporale fino a oggi inesplorato. Sicuro solo all’apparenza, il poeta procede in una sorta di “dialogo allo specchio”.
Talvolta insorge, a volte ripiega, illudendo il lettore di aver smarrito la via.
Sempre più la lirica di Settanni si fa qui ricerca e non risposta.
Stupore e disturbo insieme. Verso il mondo e verso se stesso. Come a evocare una verità, ma allo stesso tempo rifiutando di volerla ascoltare. Che sia questo il momento della maturità, anche artistica, dell’autore?
Settanni sembra ancora non curarsene, perché sa che l’arte è libertà e la libertà è da assecondare.
È questa la sua sicurezza, sicurezza della maturità dell’artista: sapere, appunto, che non esiste sicurezza. Così come non esiste risposta. O forse sì. Dietro la poesia c’è il poeta e dietro il poeta c’è l’uomo! È l’uomo che fa dell’uomo stesso un poeta. Inutile nasconderlo! Nasconderlo mai. Confonderlo a volte.

*

Giuseppe Settanni è nato a San Giovanni Rotondo nel 1981 e vive a Fano (PU). Laureato in Giurisprudenza, è avvocato e docente universitario presso l’Università di Urbino. Prima di Affreschi strappati (Edizioni Ensemble, 2022), ha pubblicato la silloge poetica Blu (Edizioni Ensemble, 2019 – Premio Anselmo Filippo Pecci). Con la poesia Fratture non scomposte è risultato vincitore al Premio Nazionale di Poesia Inedita Ossi di Seppia 2019 e con la lirica Il museo delle mancanze ha vinto il Premio Ariodante Marianni 2020; il suo testo Delirio dell’amore bestiale, invece, gli è valso il Premio Roberta Perillo al Concorso Ciò che Caino non sa 2020, mentre con la composizione Il richiamo è risultato vincitore assoluto al Premio Besio 1860. Ha ricevuto il Gran premio della giuria nel concorso I colori dell’anima (con In un logaritmo) e la sua poesia visiva Dialoghi è stata esposta alla Biennale di arte contemporanea “Luglio a Palazzo Merizzi 2021”. Suoi testi sono pubblicati su vari blog e siti letterari, quali Poesia del nostro tempoLa poesia e lo spiritoL’Altrove – Appunti di PoesiaMargutte, l’angolo Poesia del quotidiano La RepubblicaInverso – Giornale di poesia, l’Angolo degli inediti di Stampa 2009, ecc…

Maria Pina Ciancio

23 novembre 2022

Dopo alcuni anni di silenzio, esce una nuova silloge di Maria Pina Ciancio. La plaquette poetica Tre fili d’attesa è stata stampata nel mese di settembre del 2022, in sessantacinque copie firmate e numerate su carte pregiate ed ecologiche Favini per conto dell’Associazione Culturale LucaniART e contiene in allegato una stampa illustrata su cartoncino dell’artista Stefania Lubatti. All’interno sono presenti i contributi di Anna Maria Curci e Abele Longo.

Nota di lettura di Maria Allo

I Tre fili di attesa, a cui allude il titolo della nuova raccolta di Maria Pina Ciancio, sono le attese e i legami non solamente tra le persone, ma i legami alla terra, a un paese, ai ricordi, alla storia. L’autrice lavora, nelle diverse forme del suo impegno, intorno a due nuclei: realismo e simbolismo. È infatti sempre presente la realtà connessa all’infanzia, alla solitudine, al mito dell’indistinto in fondo alla nostra coscienza, alla terra a cui si riconnettono i riti delle stagioniche permangono nella memoria come indelebile matrice esperienziale, ma la realtà è sempre vista in chiave simbolica, viene trascolorata in immagini metaforiche che connettono i dati del reale a trame più complesse. La ricerca di un’intimità con la natura spinge l’autrice ad addentrarsi nel paese natale, San Severino Lucano, luogo della purezza, che racchiude la verità e non impone delle scelte ma disegna le coordinate del tempo dell’attesa, come dice Anna Maria Curci nella nota introduttiva: “Abbiamo tre fili d’attesa / annodati al calendario del camino /: a bona sciorta / nu’ lavoro ca cunta // u capattiempo ca vene sempre chiù luntanu” (p.8). Ecco la buona sorte, un lavoro che vale, l’autunno che arriva sempre più tardi, nella cultura popolare e nel mondo arcaico e contadino emergono come depositari di un senso dell’esistenza ormai perduto nella condizione alienata della società. Scrivere, come dice Pavese, è spostarsi lungo un percorso continuo tra l’io e il mondo, resta sempre partire dalla realtà, dal dato storico-sociale, personale o collettivo, saranno poi il linguaggio, il ritmo, la qualità fantastica a operare la trasformazione grazie alla quale s’intrecciano altri nessi, analogie, similitudini, metafore. Alle parole scritte è affidato il compito dunque di ricompaginare la solitudine in una comunione: “Talvolta basta uscire per strada/ per riannodare gli orli/ sfilacciati di un pensiero” (p.6). A partire da questo,il cammino dell’autrice diviene sguardo all’invisibile di un Sud mitico “non fanno rumore i paesi d’inverno/ e il giorno e la notte passano zitti” ( p.8) o ”Le parole dette bene in paese/ sono peccati senza riparo/ un gatto randagio/ da scacciare a pedate per strada” (p.9) e cura delle cose e degli altri “ Qui i vecchi hanno la schiena stanca/ appoggiata al muro delle case/ e si raccontano storie condivise/ di veglie e sonni mai saziati”(p.9) con gli stessi occhi con cui ci si sofferma a considerare, pieni di stupore, il divino di boschi, alberi, rane e farfalle , paesi. Infine,questa ricerca di esperienza poetica soggettiva del mito dell’autrice, con mirabile capacità di sintesi, si traduce in un messaggio universale: “Siamo nidi sfilacciati sugli alberi d’inverno/ le guance rosse e gli occhi aperti al cielo” e la raccolta si configura come un’esplicita dichiarazione di poetica, dove Maria Pina Ciancio enuncia le connotazioni della parola della poesia: ”Ho un cielo d’inverno da inseguire/ risvegli e riverberi di resine/ memorie di partenze e di ritorni/ benigne solitudini. La chiusura travalica il fenomeno dell’atemporalità dell’atto poetico con un forte e preciso messaggio: ”Sulla via che ci incontra/ il vento sale e a te mi del riconduce” (p.11), ovvero la parola poetica continua a manifestarsi alla ricerca delle sue radici e al tentativo di rompere il cerchio della solitudine attraverso Tre fili d’attesa. Dietro la veste realistica, la ricerca di un linguaggio attento e calibratissimo, contraddistinto dal dialetto del paese natale dell’autrice, conferisce all’opera una voce inconfondibile, là dove “Timpa del Diavolo è meridiana senza tempo”, come dice Anna Maria Curci ed è chiaro dunque quanto la ricerca di un linguaggio, di uno stile sia funzionale al valore morale della comunicazione letteraria. (Maria Allo)
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“TRE FILI D’ATTESA” Maria Pina Ciancio, LucaniArt 2022

Con una stampa di Stefania Lubatti

Interventi di Anna Maria Curci e Abele Longo

Prefazione di Anna Maria Curci

Il tempo dell’attesa varia la percezione della sua durata muovendo fili che non sono immediatamente riconoscibili, dal momento che l’estensione di questi fa capo a mutevoli combinazioni di fattori.

Tre fili d’attesa di Maria Pina Ciancio ha consapevolezza di questa dinamica complessità e la accompagna a una collocazione nello spazio che rende tale particolare epifania dell’attendere vibrante di segni visivi e sonori.

Gli intervalli tra partenze e ritorni possono dilatarsi e condensarsi improvvisamente, ma ciò che conferisce a Tre fili d’attesa una voce inconfondibile è il loro incontrarsi nella lingua-madreterra del Pollino, là dove «Timpa del Diavolo è meridiana senza tempo».

Abbiamo tre fili d’attesa
annodati al calendario del camino
a bona sciorta
nu’ lavoro ca cunta
u capattiempo ca vene sempre chiù luntano

La buona sorte, un lavoro che vale, l’autunno che arriva sempre più tardi, dunque, espressi in tre versi nel dialetto del paese natale di Maria Pina Ciancio, San Severino Lucano, disegnano le coordinate del tempo dell’attesa tra destino, fatica e alternarsi delle stagioni.

All’interno di queste coordinate, il balzo del cuore pensante si volge avanti e indietro. Quando il movimento è in avanti, esso è caratterizzato da un ricorso al tempo presente che esprime considerazioni di portata universale («siamo nidi sfilacciati sugli alberi d’inverno»), talvolta collegate a una forma del gerundivo che è invito operoso e, insieme, un canto allitterante ai tesori serbati dall’attesa: « Ho un cielo d’inverno da inseguire/ risvegli e riverberi di resine». Là dove il movimento è a ritroso, esso si volge al ricordo e alla rievocazione di vicende singolari ed esemplari, con l’uso ricorrente del passato remoto alternato all’imperfetto: «Sgravò a settembre nel letto/ dell’imbottita rossa/ dove zia Marietta alla buon’ora/ lievitava la pizzicata del pane nero/ Tre giorni covò la febbre/ al settimo Giacomino trapassò/ e anche il livato/ da sotto alla coperta/ in fretta rinsecchì».

Il ricorso all’espressione dialettale non è mai ornamento folkloristico, ma è strettamente collegato alla precisione del dire, tensione risolta efficacemente in un dettato poetico nitido, limpido, e alla nozione circa la necessità, quasi all’obbligatorietà della scelta linguistica, giacché il termine «livato», nel contesto appena menzionato, abbraccia ambiti di significato e richiama sonoramente memorie ben più di quanto possa farlo il corrispondente in italiano, “lievito”.

Le vicende di emigrazione e di aspettative, i «rivoli di storie», le «schermaglie di bambini», la «guerra d’inverno», le «notti difficili da dormire» sono intrecciate, storie condivise e restituite da una voce poetica che sa far tesoro di quel «tempo irreale» che ha il qui del paese tra partenze e ritorni,  a «benigne solitudini» lungo un sentiero che sale, che si inerpica per incontrare.

Anna Maria Curci

*

maria pina ciancio tre fili d'attesa

Talvolta basta uscire per strada
per riannodare gli orli
sfilacciati di un pensiero

Dopo la guerra dell’inverno
c’è chi parte e c’è chi resta
(…)
Gennaro e Vincenzino
sillabano il tempo
in anelli di fumo irregolare
e aspettano i ritorni
tra la ringhiera scorticata
e i gerani smarriti al grande cielo

*

Ci sono notti difficili da dormire qui
per quel piccolo cane a tre zampe del vicino
che abbaia in cima alle scale
e rivendica ai passanti
l’equilibrio sbilanciato e senza nome
della strada

*

Sgravò a settembre nel letto
dall’imbottita rossa
dove zia Marietta alla buon’ora
lievitava la pizzicata del pane nero
Tre giorni covò la febbre
al settimo Giacomino trapassò
e anche il livato
da sotto alla coperta
in fretta rinsecchì

*

C’è un tempo irreale qui
che comincia con la neve
e finisce a quaremma
con la strada che si asciuga
e i cani impazziti che rincorrono
il pallone di Antonella

*

La vita così breve adesso
Il vento s’alza
e cerca l’uomo fermo sul muretto
quello che ingoiava stelle
in mezzo ai boschi
per suo figlio nato muto
con un cardo già appassito
in mezzo al petto

(poesie 2006-2007)

mariapina ciancio

Maria Pina Ciancio di origine lucana è nata in Svizzera nel 1965 e dopo aver vissuto in Basilicata, si è trasferita da circa tre anni nella zona dei Castelli Romani. Viaggia fin da quand’era giovanissima alla scoperta dei luoghi interiori e dell’appartenenza, quelli solitamente trascurati dai grandi flussi turistici di massa, in un percorso di riappropriazione della propria identità e delle proprie radici. Ha pubblicato testi che spaziano dalla poesia, alla narrativa, alla saggistica. Tra i suoi lavori più recenti ricordiamo “Il gatto e la falena” (premio Parola di Donna, 2007), “La ragazza con la valigia” (Ed. LietoColle, 2008), “Storie minime e una poesia per Rocco Scotellaro” (Fara Editore 2009), “Assolo per mia madre” (Edizioni L’Arca Felice, 2014), “Tre fili d’attesa” (LucaniArt 2022). Ha ricevuto numerosi premi ed è inserita in antologie e riviste di settore. Dal 2007 è presidente dell’Associazione Culturale LucaniaArt.

Antonio Semproni

20 novembre 2022

Semproni

Medicina del lavoro

I medici del lavoro avvicinano lo stetoscopio
alle mura della fabbrica
quanti starnuti?
quanti colpi di tosse?
quanti rantoli al minuto?
si devono stilare statistiche
che non guardino in faccia nessuno

Braccianti

Se si accasciano sui pomodori
la scena non è attrezzata per il sangue
nemmeno finto
vanno raccolti all’istante
trascinati nei casolari
senza risciacquo
nella pubblicità non compare la faccia
nella passata non va la pelle

Morti bianche

Se i bulloni fossero stati
immacolati come i bottoni sullo sparato
sigillati come il feretro
forse sarebbero venuti ad applaudire
ma avrebbero trovato i loro eroi troppo indaffarati
preferiscono statue silenziose, la solennità di un museo

Miniere

Giù nelle miniere scavano
per portare alla luce
oro e diamanti
che rappresentano materiali
preziosi
e le ossa dei compagni
che rappresentano materiali
di archeologia
ora che la loro specie è stata cancellata
da un’epocale esplosione del mercato

Fabbriche

Le fabbriche stanno sulla terra
come navicelle spaziali o sommergibili
pare che stiano per levitare o sprofondare
se non ci fosse il fumo
a tenerle in equilibrio
se non ci fossero uomini che devono tornarsene a casa
per non appesantirle troppo
e altri uomini che devono entrarci
per non alleggerirle troppo
tutti a tenerle in equilibrio

Salato e dolce

A colazione alterno salato e dolce
a mio piacimento
potrei farlo anche per gli altri pasti
mi chiedo pure se sarebbe possibile
a lavoro alternare a mio piacimento
l’occupazione e il riposo
la produzione e il premio
ma non so se esercitare la coscienza critica
o dovere devozione all’azienda
grazie cui metto insieme, ai pasti
salato e dolce

Mercati e mercati

Ci sono mercati di frutta, verdura e formaggi
e mercati di blue chips, bond e bitcoin
mercati dove l’uomo mangia pane
e mercati dove l’uomo ha sempre fame
Siano compatiti questi affamati
che si ostinano a non volerne sapere
di gorgonzola radicchio noci e pere
nemmeno un gheriglio
parlano solo di comprare la piazza del mercato
per metterla in una immobiliare
che starà sotto una holding
che verrà quotata in borsa
a Milano, Parigi e New York
allontanandosi sempre più dall’oggetto del mangiare

Mercato dell’arte
Per rivitalizzare il mercato dell’arte
si stanno domandando se sostituire gli squarci su tela
con altrettanti buchi
i favorevoli temono il rimarginarsi lungo i bordi, la vista cieca
i detrattori il risucchio, la sala vuota

Nolo

Quel capitano d’azienda è l’ultimo
ad aver preso famiglia
a noleggio
moglie monofamiliare, prole ampia e luminosa, doppio cane interno
la situazione gli è sfuggita di mano
dopo il reso
ha organizzato cinquanta matrimoni e altrettanti divorzi
costituito famiglie ai quattro angoli del globo
spartito portafogli di investimento tra fratellastri
ora ha una rubrica su una rivista di settore
dà consigli su costituzione, fusione e liquidazione di famiglie

Oscillazione

Si posizionano sui cavi d’acciaio in fila indiana
prediligono la tracolla ergonomica
la valigetta su un fianco può squilibrare
A ogni schianto giù in strada
(nessuno sente niente, gli altri salgono in ascensore)
i sismografi nei grattacieli registrano un’oscillazione dei mercati

Biglietto

È salito sull’autobus e ha mostrato al controllore
i polsi
gli incavi dei gomiti
le ascelle
i linfonodi sono a posto
dica trentatré
il biglietto è stampigliato sulla lingua
la bocca contiene lo stretto necessario
ora che in piedi deve reggersi al nudo

Rider

Terminata l’ultima consegna
il rider è ripartito
con la borsa frigo carica di polsi gomiti rotule
è andato a restituire ai clienti
i resti che avevano dimenticato
domani con membra fresche potranno
passare a ritirare in negozio
per le vie calpestare i caduti

Antonio Semproni (Tivoli, 1988) vive tra Tivoli e Roma. Ha pubblicato una raccolta di poesie in rima: Rime in prima copia, Controluna edizioni, 2020 (attestato di merito al Premio Lorenzo Montano 2022). Sue poesie sono apparse su vari blog (La rosa in più, Niedern Gasse, Mosse di Seppia, Collettivo Culturale TuttoMondo e La Seppia) e un suo racconto breve è apparso sul blog Gorilla Sapiens Finzioni.

Giuseppe Martella

11 novembre 2022

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Ho sempre pensato che l’ispirazione a scrivere poesia contenga una sorta di rivelazione, una misteriosa comunicazione che dal poeta giunge al suo lettore.
Quando questo accade, ci si sente partecipi, avvolti da quella stessa aura d’ineffabilità che aveva suggerito al poeta il suo dire.
La poesia di Giuseppe Martella mi fa un incantevole effetto. È come se un respiro pronunciasse all’orecchio i suoi versi, quasi a trasmetterne uno speciale segreto.
In questi testi l’agilità sostiene la bellezza (categoria non sempre del tutto spiegabile, né confrontabile) e trasmette l’armonia in guizzi di colore imprevedibili, in un affascinante percorso poetico-filosofico che oltre alla vividezza d’immagini immediatamente fruibile dà altro significato al senso compiuto del vivere.
Sono poesie che inducono alla riflessione, come se si fosse messi di fronte a un paesaggio di cui prima non avevamo notato i particolari più importanti, così importanti che nello scorgerli appieno, ci comunicano ulteriore bellezza, pace, speranza.

cristina bove

                         

                       

                                   

Per ipotesi

Ma sì, ma quando, ma poi,
se tutti noi
fossimo presi per incantamento
e trasportati indietro e poi in avanti
fuori del tempo e dentro,
presi e sorpresi dai futuri istanti
indifesi
e prendessimo le cose con i guanti
al fine,
e oltre il confine dell’io ce le spartissimo
spezzando il pane insieme,
finalmente, dimenticando Iddio.
                 
                  
                       

                         GRAN CANARIA

Gran Canaria

Azzurro, azzurro
azzurro il cielo, trasparente è l’aria
dopo la pioggia rara del mattino
fine fine battente
la pioggia mattutina a Gran Canaria.
Azzurro azzurro che scema nel celeste
celeste il cielo
azzurro il mare, bianchi i cavallucci
riccioli bianchi, spuma sulla roccia
che scende sui tuoi fianchi
isola d’aria
la pioggia mattutina ti ha vestita a nuovo
nutrito ha il poco verde, che nella roccia
si perde e al mare mira diventando muschio
mischia l’aria col sale – e fischia una leggera brezza
sul celeste che rischia di annegare –
isola d’aria persa in mezzo al mare.

***
E la figura nell’ovunque luce
svanisce e si dà pace finalmente
si piega come il gambo sulla terra
– è passato un giorno, soltanto un giorno
è passato –
la terra tace, assorbe, riconduce
tutta l’acqua di luce alla sorgente
la terra riproduce fiori e frutti
e tutti quanti ritorniamo alla terra,
tutti ritorniamo alla terra dalla luce.

***
Celeste celeste blu blu celeste
bisogna mischiare i colori
prima di trovare la tinta giusta
celeste blu blu blu celeste
e sfumare sfumare dimenticare
annegare le forme nei colori
un sollievo per l’occhio e per la mente
la forma che si pente nella vita
e si smarrisce e sfuma –
buona fortuna a te, buona fortuna.

***

E così via, raccogliendo per strada
i lacci e le conchiglie e i ricci
gli stracci – le caccole dei cani
gli impicci fra ieri e domani
raccogliendo, scartando
facendo insomma le pulci alla vita
con le dita nude –
doloranti magari, gli occhi stanchi
davanti sempre a un mucchio di rifiuti
e quanti quanti sempre più davanti
sfaticati, stenti sulla strada
quasi sfiniti tutti, tutti quanti –
quasi arrivati, e neppure mai partiti.

***

Scogliere, sassi, sterpi sui dirupi
serpi, forse annidate
nei calanchi
l’isola mostra i fianchi scavati
le gengive dei denti
avvelenati dal cemento
e sento gemere piano le radici
dei radi alberi, zolle di verde
perse nel mare d’azzurro
chiaro scuro di mare e cielo
con qualche vena di ruggine
negli occhi, qualche stilla di sangue
nell’oro di conchiglia
nell’eco martoriata dei riflussi
delle maree, dei tremiti profondi
delle faglie
nelle aeree schermaglie degli alisei,
nell’antico rifugio degli dei.

***

Ogni macchia, lasciata sulla strada
intrisa di semenze
ogni cosa derisa, attende
di essere ripresa, condivisa
come un’ostia dissacrata,
attende di essere ancora una volta
spezzata, spezzata come pane
diluita, stinta, poi bevuta
tutta d’un sorso –
la macchia sul dorso della tua mano
il fuscello nell’occhio
e dire piano, e dire piano piano
sempre più piano dire
sempre più vano il tuo fletterti
in ginocchio (pregare)
la macchia densa
che sta fra il dire e il fare.

***

E prendi la misura, giusta finché ne hai tempo
e prendi il tempo a tua misura
magari a usura, prendilo a prestito
qui se è il caso – tanto
tutto è in affitto qui un tanto al mese
il sole l’aria il mare
il passeggiare così senza pretese,
silenzioso diletto, scendere giù dal colle
senza musica né donne né locali costosi
senza neanche voci quasi
se non quelle delle onde sulle rocce
dell’ultima caletta, della casa dei ricci
dove la tua ombra ti aspetta
in un canto, il solo riparato dal sole
e lì prendi il respiro delle onde
a tua misura – inali forte, trattieni il fiato
e fiuti l’aria a occhi chiusi
salsedine aria pura
misura del respiro, finché dura.

***

                      L’ORA BRUNA DEL PRESENTIMENTO

Le ore sono parole da non dire
e passano altrove e si
disfanno sempre l’una e l’altra
– l’ora bruna del presentimento –
come nube leggera dagli orli illuminati
arancio, rosso perché viene
perché viene sera prima o poi
nell’ora stessa come quando bussa
alla tua porta
il pellegrino sempre più inatteso
sempre più vicino che lo confondi
col tuo stesso profilo che passa
per la cruna dell’ago,
e sì foggia un angolo protetto
come una tortora che si fa un nido
di straforo
nel sottotetto della tua dimora.

***

Non ho parenti, sono solo al mondo
sono un bimbo strambo
perennemente in cerca di adozione
se piango canto la stessa canzone
di sempre –
e mi sovviene il tuo volto parente
madre dai tanti volti ormai dispersi
semicancellati, sovraimpressi occhi sbarrati
madre che urli dalla finestra e sbracci
e mi chiami –
di giudicare io non ho il diritto
il bene e il male che mi hai fatto.
Io sono qui per te natura che non mente
sono tuo figlio, qui, sulla soglia del niente.

***

Mi disse: tu mi piaci. Sposami.
Cavolo, dissi, ci debbo pensare!
Mi guardava fisso con gli occhi spalancati
e dentro gli occhi precipitava il mare.
Sì, d’accordo, sarai dunque mia sposa
– era spuma di vento –
capelli mossi fulvi dai riflessi cangianti
Le dissi sorridendo: io però sai devo partire
sempre
sposarsi sì vabbè si fa per dire,
ci incontreremo talvolta a mezza strada
tra nord e sud tra cielo e mare
e tanto basta no? Uno sguardo al volo
un cenno della mano – sognava
ad occhi aperti – Ci sposammo
in un giorno di sole intenso sul sagrato
di una piccola chiesa – arrivai in ritardo
lei mi attendeva ansiosa ma sorridente –
in ritardo poi lo sono stato sempre
E lei sempre mi ha atteso, paziente
la mia sposa.

***

Ci siamo già lasciati: ora mi dici
non ti conoscevo a fondo
anzi per niente,
ora ritorno,
sai, saremo felici. Ma
ti guardo e mi confondo
e che sarà mai codesta ombra
che mi molesta nel caldo mezzogiorno?
E poi chi se lo aspetta mai un ritorno
dopo tanto tempo!
Ho il forno acceso e mi si brucia il timballo
di riso con cura preparato da mia moglie
– ecco qui sta l’impiccio: le doglie della vita
i rami spogli, sparuti
stenti
che seguono al cadere delle foglie.

***

Andare e non andare: non capire
venire al dunque, poi perseverare
fuggire all’ultima ora
– ora è lo stesso –
e mi capita spesso quest’ora incerta
dove non so chi sono,
e non so a chi chiedo, se mai chiedo
per forza o per amore. Se
tu ci fossi, e se non fossi io,
chiederei perdono a te – perdono a Dio.
                          
                                                   

                                   

                                Postfazione di Rosa Pierno

Attraverso la lettura della prima raccolta poetica di Giuseppe Martella, Porto franco, si scopre di essere entrati in uno studiolo degli esperimenti in cui le ipotesi, che sono già normalmente coltivate in un ambito di incertezza, sono, per sopraggiunta istanza sperimentale, anche immerse nella contraddizione. Ciò fa diventare la miscela esplosiva, ancor prima che sulfurea. Si tratta di ipotesi di lavoro tenacemente attaccate alle loro confutazioni come le peonie di mare allo scoglio: non pongono soluzioni che preve-dano la distinzione, l’operabilità della differenza. Designano un luogo non alchemico, che tuttavia produce l’affondo sui limiti del pensabile. Ne consegue che risultano nettamente delineati anche i profili delle aggettanti ombre in campo ludico. Codesta attitudine della poesia è irrinunciabile, essendo essa artificio. La poesia porta con orgoglio tale medaglia; ciò equivale a porre la sua ironica lungimiranza in bella mostra!
Ma per meglio intendere i termini della questione e la modalità con cui il poeta affronta tale tenzone, è necessario definire le due minacciose leve della tenaglia, ma anche gli stati d’animo in gioco. Le prime poesie, briose, allegre, di una sorprendente levità e ariosità, aventi sonorità rapenti, un certo ravvivato fischiare montaliano, indicano che la vita e la morte sono espresse all’interno dei cicli della rinascita. Le forme compiute si sfaldano in una giostra di nuovi inizi. Ad uno sguardo più ravvicinato, lontano dalle alte sfere, le cose appaiono come resti, rifiuti, inutili ingombri. Un tarlo buca l’areostato, le sensazioni (quelle sensazioni che Mach eleggeva come unico elemento da prendere in considerazione) divengono numericamente ingestibili: la spola istituita tra la sfera dei processi e quella degli oggetti produce dolore, il male di vivere. L’indivisibilità a cui accennavamo all’inizio fa parte di un pacchetto ingovernabile: non si può ordinare, non si può separare il bene dal male, non si può trovare un senso unitario che inglobi l’esistente. Se è vero che non sembra esserci alcun punto di contatto fra la meraviglia che il creato suscita e il «cartoccio di paranza fresca» del desinare e se persino la vita ritorna «secca e muta nei suoi argini», tuttavia non ha senso nemmeno separare l’afflato che comunque si prova per il cosmo e per la propria esistenza. In fondo, l’aria sembra essere, e vale per l’intera raccolta, un filo rosso: l’aria che ritempra e gli aperti spazi del cosmo che ridimensionano formano una sorta di oscillazione che ruota su un medesimo perno. Misura e dispersione procedono insieme.
Dal materialismo iniziale Martella giunge ben presto al recupero di ciò che è spirituale. Regge poco il materialismo delle prime fasi, della gioventù, la lucreziana danza degli atomi. Presto giunge il momento in cui pregare fa parte dell’oscillazione: «sempre più vano il tuo fletterti / in ginocchio (pregare)». La luce abbagliante si mostra in grado di chetare l’animo. D’altra parte, la morte non è esorcizzabile, anche se inserita in un ciclo «e spreme e preme alla bocca dell’anima / come un vuoto pulsante: la paura». Il corpo stesso viene vivisezionato e ricomposto «nei meandri di un labirinto / senza centro». Veri e propri miraggi di concerto con le sembianze polimorfiche di un io che risente del passaggio nelle varie età esistenziali fino ad assumere le forme della natura, la voce del mare. In questo senso, la raccolta si configura come un poemetto delle varie fasi della vita sullo sfondo della ciclicità co-smica. E diversa è dunque la voce iniziale, primaverile, aerea del-le prime poesie e quella dorata, e in svolgimento amorfo dell’età più matura.
In siffatto moto, il sistema linguistico è messo alle strette, non tramite una riduzione delle sue componenti poetiche, ma attraverso equivalenze e sostituzioni concettuali. Senza cioè sopprimere le potenzialità ritmico-intonazionali del verso, il lavoro poetico di Martella si svolge tramite la messa a tema di concetti culturalmente inseparabili: Dio-luce, colore-forma. Per ipotesi, è infatti una poesia che esplicita proprio tale teorema: quei sistemi di idee che tentano di narrare di Dio, («fuori del tempo e dentro», «oltre il confine dell’io») eliminando l’idea del divino che è associato ad essi, non suonano forse come svuotamento dei concetti che dovrebbero suffragare? Non determinano, cioè, l’annullarsi del secondo termine dell’uguaglianza? Ecco dunque che l’inseparabilità, solo apparentemente paradossale, è in realtà pienamente artificiale e giunge alla sua maggior altezza nel linguaggio poetico, lì vivendo interamente la sua complessità.
La possibilità di giungere a qualcosa, se mai sia possibile giungervi, è per Giuseppe Martella intimamente legata alla valorizzazione dei detriti esistenziali, concretissimi, come è estratta da beckettiana memoria. Da tale repertorio proviene quel gusto per le cose infime che fa scopa con il gusto per i segni: «ogni cosa derisa, attende / di essere ripresa, condivisa / come un’ostia dissacrata». La valorizzazione semantica è il luogo ove avviene lo scambio con la realtà, ove la macchia diviene senso, staccandosi definitivamente dal reale per andare a sistemarsi nella rete dell’artefatto culturale. Tuttavia, quello che si è costruito, anche faticosamente, finisce col reclamare a gran voce d’essere disperso: le forme sono da dissipare, quasi per un agognato ritorno a quel caos primigenio, ove regna l’indistinto o, meglio, in quel dondolio perenne tra terra e luce, laddove si osserva che la spola tra ciò che è materiale e ciò che è astratto è tessuta fittamente. Anche la sonorità soffusa, lieve, (mente-pente, sfuma-fortuna) che si rincorre tra ripetizioni lessicali, sostanzia l’impianto semantico. L’ef-usione intimista, una vera e propria ode al presente, ai suoi momenti concreti e fugaci, di cui la marca più certa e afferrabile sono i colori, quei bianchi, sfolgorati come un assoluto, quei verdi smaglianti dell’infanzia, quell’azzurro che dismette la propria forma, quell’effusione, dicevo, di marca affettuosa, vale certamente una riconciliazione con l’esistente.
E, pur tuttavia, è la sonorità che s’impone sull’immagine, nella lettura: «stanno / come faci, tremule, falci / tralci di vite, recise o quasi / i vasi dei fiori appassiti / nelle dimore vuote, o quasi». È nella volontà del poeta di sottolineare la specificità di una pratica che, in quanto costruita con parole, egli si propone di smerigliare al meglio, facendo tintinnare il lessico fino all’intersezione sonora. Con il suono, che fa intrinsecamente parte del senso, Martella costruisce al contempo il resoconto della sua vita, non nel mezzo del cammin, ma su un liminare confine dove si piega e ripiega, come una canna al vento, la possibilità umana di render conto dell’assoluta inconciliabilità dell’ordine cosmico e dell’ordine umano. E, tuttavia, come dicevamo, essi procedono fianco a fianco,
inestricabilmente.
Non rimpianti, ma un accordo da stringere con se stesso, un dichiararsi soddisfatto al saldo, perché è giocoforza farlo, e così tenere a bada le insoddisfazioni che mordono il fianco: «da invisibili venti – e poi ce n’è sempre / uno che mi rode dentro / (un topo forse – forse un presentimento) / e non si acquieta / fra lacrime e sorrisi» tale da essere una dieta quotidiana, «quel codice prescritto / che mescola gli inferni ai paradisi». Non si tratta degli inevitabili rimpianti, dunque, ma della ricucitura, del completamento delle frasi non dette, mal intese, presupposte, tali che la loro consistente numerosità viene a formare un’esistenza dissimile, altra, da quella effettivamente vissuta. La memoria ricostruisce a suo piacere il dato esistenziale, rifondendogli nuova vita e piegandolo a nuove conformazioni. La splendida poesia sulle ore, che apre la seconda sezione, ha la grazia di rendere presente, per mezzo del ricordo, una rivisitata esistenza, ora finalmente intravista in quella vissuta, ma anche di renderla corpo visibile per i lettori, forgiando contemporaneamente un materiale modellabile al fine di saggiare le ipotesi, di visitare le strade non intraprese, di ripristinare ciò che è stato malamente interrotto. Ipotesi che riguardano il senso dell’esistere, proiettato nel cielo e da lì nuovamente rifratto sulla terra, come se il cielo fosse uno specchio ustorio. Le forze emanate da uno stato indeterminato, dubbioso, sembrano ritornare concentrate, capaci, oramai, di rendere il senso disperso un senso conclusivo.
Insomma, l’analisi svela un delirio prismatico che coinvolge l’io. L’ipotesi unitaria su scala macroscopica diviene un ologramma in cui si disfa il mondo. Intatto resta ciò che sfugge al poeta, ciò che lo sovrasta. Ma l’ipotesi iniziale tiene. La vita è stata vissuta e mille cicli sono presenti in una sola vita.
Nella bellissima Canone inverso si coglie appieno il senso dialogico dell’impostazione poetica di Giuseppe Martella, che nel suo traghettare inesausto di novello Caronte, che ancor non si dà pace per il trasporto da effettuare da una sponda a un’altra, vive i ricordi indistintamente dal presente, la morte come non differente dalla vita. Egli, ritorcendo i fili di quelle sue occorrenze quotidiane, che passerebbero altrimenti come un puro insignificante accadimento, le rifonde nelle trame, visive e sonore, delle sue dorate filigrane ove tutto si tiene.

                                 

                       

                              

Giuseppe Martella è nato a Messina e risiede a Pianoro (BO).

Ha insegnato letteratura e cultura dei paesi anglofoni nelle Università di Messina, Bologna e Urbino. I suoi studi riguardano in particolare il dramma shakespeariano, il modernismo inglese, la teoria dei generi letterari, il nesso fra storia e fiction, l’ermeneutica letteraria e filosofica, i rapporti tra scienza e letteratura, e tra letteratura e nuovi media.

Dopo essersi ritirato dall’insegnamento, da alcuni anni si interessa anche di poesia italiana contemporanea, collaborando con saggi e recensioni a diverse riviste cartacee e online (Anterem, La Clessidra, Poesia Blog Rainews, Poetarum Silva, Nazione Indiana, Versante Ripido, Carteggi Letterari, ecc.). Una sua poesia inedita, Kenosis, è risultata finalista al premio Montano 2020. Altri inediti sono già apparsi ne Il giardino dei poeti e nella sezione Instagram di Blog Rainewes.

Fra le sue pubblicazioni a stampa:

Ulisse: parallelo biblico e modernità, Bologna, CLUEB, 1997.

Margini dell’interpretazione, Bologna, CLUEB, 2006.

G. Martella, E. Ilardi, Hi-story. The rewriting of History in Contemporary Fiction, Napoli, Liguori, 2009 (in duplice versione, inglese e italiana).

Ciberermeneutica: fra parole e numeri, Napoli, Liguori, 2013.

Tecnoscienza e cibercultura, Roma, Aracne, 2014.

Anna Maria Curci

25 ottobre 2022


                              
                                

“Insorte” di Anna Maria Curci sonda i territori umbratili della parola, cioè quelli che stanno sul limite e permettono ambivalenza o plurivalenza, individuando un elemento sostanziale della poesia e della lingua: la polisemia. È chiaro, infatti, che l’esperimento riveste, per questo libro, un valore importante, ma allo stesso tempo non si tratta di un puro esercizio stilistico, perché al centro permane la manifestazione di un concetto, di un moto interiore, di una impressione e persino dell’inesprimibile. Per intuire una simile funzione speculare è sufficiente leggere il titolo, “Insorte”, come participio del verbo “insorgere” oppure come “stare nella sorte”, in mezzo alla casualità. Il doppio, però, è anche espressione del bene e del male, di dolore e di gioia, così come in più punti lo sono le tre sezioni del libro che, lungo tale discrimine non sempre chiaro per l’uomo, attraversano il mistero del mito, del patire, della stasi più o meno apparente. In tutto ciò, è la parola che recupera e chiarifica, custodisce la voce dell’Io e cura, però, come l’uomo, rimane sempre vestita di luce e di buio.
                   
Giuseppe Manitta

                       

                         

Dalla sezione Tragedia e idillio

Psyche

 

Sussurra la sua voce tra i nastri

     – scampati nudi alle quinte di bufera –

folle d’Amore per un’eco celata

nel sogno di fondali inesistenti.

S’immerge per lei ch’è inabissata

chi esplora le anse e i fondi del volere

     – brama coatta deriva di corrente –

e recupera il filo e la parola.

                   

Elce

Hanno attaccato al tronco una striscia

con l’altro nome tuo, quello maschile,

e “quercus ilex”, la doppia firma:

rifugio saldo, ramo sporgente,

appiglio a chi accede in altre stanze.

“Quercia di pietra”  ti chiama un’altra lingua.

Una pena? Un passaggio? Un cambiamento?

Su squarcio di domande e all’erba secca

in silenzio offri ombra e riparo.

                   
             

Ciane

 

di natura imperfetta e sete immensa

è l’essenza di scorrere e cercare

nell’intralcio di lacci e cesure

di paratie ferrigne arrugginite

fonte azzurra di pianto e condanna

è sosta e ripartenza di papiri

fiumi di metamorfosi disciolte

vicenda di addensare e rifluire
                       

                     

Dalla sezione Quando tace il latrato
             

Quando tace il latrato

                       

Di notte quando tace il latrato

gli scuri si avventurano a indagare sul buio

Non che sia vero ardire

tastare cauto piuttosto

parete dura o membrana sottile

il gradino nascosto sull’uscio

il patire promesso

di timpani e trafori

Quando tace il latrato cambia voce

Aspetto

nel disordine compatto

                

                

Ustica, 27 giugno

 

Cos’è la verità? Uno specchio ustorio

parabola a difesa dell’assedio

stra-vaganza stracciona e assetata

lazzara sulla soglia di madama

menzogna che festeggia il compleanno.

Gocciano le bugie nei candelabri

per un desco imbandito e imbandierato

con caccia armati a carico sganciato

su vite esplose in volo. Schermo piatto.

Scacco al re e alla sua torre di controllo.

               
              

Sottotraccia

Questa è una storia di appunti fatti a pezzi

di fogli sminuzzati

di righe cancellate.

Questo è il puntiglio di un frammento perso

che ricompare graffio di una riga

sulla glassa che livella e ricopre.

Questi sono i bisbigli i colpi lievi

da muro a muro

mentre fuori è farsa.

Queste sono le note per gli accordi

il controcanto a pifferi e trombette

i vocalizzi muti i ponti a mente.

Dalla sezione Tolle, lege     

 

Tolle, lege

Dietro i vetri i tuoi libri
custodiscono pagine da aprire
in tutti i tempi, dicono: tolle, lege!

Dato per perso, è pur tenace il filo
rincorso a capitomboli sventati.
Prende fiato e dal margine addita.

 

impalpabile sembra e consistente

impalpabile sembra e consistente

la tela che riveste le tue braccia

scavano quelle e riluce questa

del gesto del chinarsi ad ascoltare

le grida senza voce in sabbie immote

il gocciare sommesso nelle grotte

s’offre la tela e donandosi cresce

lo strappo non divide ma discerne

«Aria serena e di sostanza sferzante» *

 

 

Dietro l’altura

o dentro il caseggiato

sere d’incanto austero

attendi i pochi

aura anima aria

ampio orizzonte

sobria bellezza

sferzante di sostanza

serbi partenze.

*CSI, Brace

 

Trobairitz al pianto

Al pianto che martella

replica trobadora:

tu rivolta il berretto,

non distogliere sguardo,

canta e poi canta ancora.

È vuota la parola?

Te lo chiedi ogni giorno,

sopito e sulla strada,

ché si prosegue affianco,

messer lutto e scudiera.

Lunghi tratti in silenzio

e in sordina si accorda

la nota melodia

di pianto e menestrella:

vesti di luce il buio.

                        
                                

Maurizio Evangelista

10 ottobre 2022

Mr Me

Mr. me” di Maurizio Evangelista (Arcipelago Itaca 2022)

“Nelle stanze d’albergo di Maurizio Evangelista vanno in scena i plurimi e postumi teatranti di una vi-cenda umana che ha il sapore un po’ dei vecchi film in bianco e nero, un po’ dei trasalimenti di un’infanzia che riaffiora dolente (“ed è questo che mi porto dell’infanzia / una libertà che non mi sarà mai perdonata”). Il misterioso “Mister me”, volutamente e ironicamente minuscolo, è uomo e donna, è padre e madre, è amato e amante, è vergine e madonna, prostituta e premaman, in un rodeo che si muove nelle multiple prospettive di una telecamera, di un indiscreto occhio fratello.[…]

[…] Il tutto in uno stile che sa conciliare il lirismo sottile con la sfron-tatezza e la leggerezza di una parola comune, apparentemente non connotata. Eppure il parossismo, il gioco di rimandi, le strut-ture chiastiche, i calembour, accendono le storie di Evangelista e i suoi versi, li rendono taglienti e affilati come sempre la buona poesia osa e ha il dovere di fare.”

Alessio Alessandrini  (dalla Motivazione della 7^ edizione del Premio nazionale editoriale di poesia “Arcipelago itaca” – Raccolta inedita di versi – Non opera prima)

*

3. STANZA 103

l’uomo con la giacca scura dorme per finta.

alla sinistra la sua unica figlia
abbraccia lacrime e vestito
come il giorno in cui la diede sposa.

il sole resta sulle persiane a notte
non è ponente né mattino.

distante la moglie ha i capelli malinconici
e il sorriso di un tempo inguaribile.

li ha tutti davanti a sé
con quel tipo di occhi che non si chiudono mai.

*

6. STANZA 109

ogni piano ha cinque piani
una fermata spalla a spalla
(conservazione gomito voce)
io spezzetto mi allargo al centro
sono spiaccicato
occhio per occhio a pugni
tiro a segno svelto aggressivo disumano
presto scendo è sola folla follia FOLLOSITÀ.
si affannano fanno
dicono, attenti narici coprite.
sento chi fiuta
tutti bla bla i loro blaaaaaaaaaaaaa bla
a perdifiato calci.
punite la bocca scoperta
fatelo a pezzi, che non respiri che non odori
che non emetta suoni che non salga su più su
che non schiacci nessun tasto
che non parli taccia muoia
che gridi su giù su laggiù
DISTANZA
minimo 2 metri
minimo senza scampo.

*

13. STANZA 127

marito e moglie
mi chiedono com’è il tempo là fuori

lui con una manica corta e una maglia
annodata alla vita

lei con un cappello immenso
che attribuisco al sole

non ci fa caso alle sue grosse tette.

sto in piedi di fronte a loro
e penso che un po’ dipende da come ci si veste.

loro si guardano e non dicono niente
ma dal mio sorriso si convincono
che ci sarà il sole (probabilmente)

e li vedo tutti e due seduti all’ingresso
a guardare là fuori

ognuno il tempo che vuole.

*

33. STANZA 311

non si chiedeva mai
di albeggiare in viso col sapone
si restava fermi dopo il fischio.
poi Luigi saltava a due i gradini
e l’estate cominciava in pieno inverno

con noi due che contavamo le fermate
cercando gli occhi di chi inciampava.

*

49. STANZA 421

puoi scorgere i cadaveri di due
con una fossa scura in mezzo al petto

è possibile sia il furto dell’inverno
una ferita di vestito sulla giovinezza

se questa eredità tenuta stretta
vale un pensiero così semplice
che non rivela nulla.

cancella i cani per strada
cancella i mattoni dalle case
cancella le città dalle città.

cancella l’esistenza di tutte le vite visitate.

e puoi vedere in pixel
il momento in cui uno sussurra all’altro
qualcosa d’incomprensibile al telefono
e il corpo rabbrividisce

soffocato nell’accenno di un #abbraccio.

*

Maurizio Evangelista è nato a Terlizzi nel 1980, vive a Bisceglie. Dopo la laurea in Scienze Politiche ha pubblicato le raccolte poetiche Suonatore di corno (La Vallisa, 2010) e La città inventata (Secop edizioni, 2015) con il quale ha ricevuto il premio della critica “Vrdnicke Venac Vile” a Sremski Karlovci in Serbia. Organizzatore e direttore artistico dal 2010, con Teodora Mastrototaro, dell’evento Notte di Poesia al Dolmen, Evangelista ha pubblicato in diverse antologie in Italia e all’estero, tradotto in inglese, russo, po-lacco, serbo-croato, spagnolo e albanese. Nel 2017 ha partecipato alla XVII edizione della Giornata Mondiale della Poesia di Varsavia su invito del poeta Aleksander Navorski, ed è stato tra gli ospiti della XI edizione del “Trireme della Poesia Ionica” a Saranda, in Albania, su invito del poeta Agim Mato. Oltre alla poesia ha pubblicato suoi racconti per l’infanzia nei libri Gli animali e noi (Ed. Adda – Scritture Meridiane Per Ragazzi, 2013), So dire di no (Ed. Adda – Scritture Meridiane Per Ragazzi, 2015) e La rosa di Damasco (Ed. Adda – Scritture Meridiane Per Ragazzi, 2016) a cura del prof. Daniele Giancane.

Patrizia Sardisco

1 ottobre 2022

recensione di M. Carmen Lama

 

Sìmina ri mmernu

-Semina d’inverno-

(di Patrizia Sardisco – Ed. Cofine 2021)
recensione a cura di M. Carmen Lama

Proteggere le parole, sempre. Sono il mezzo più caratteristicamente umano che abbiamo. E quando nessun altro mezzo ci consente di portare a soluzione dei problemi, spesso le parole fanno miracoli. Le parole dei poeti, nello specifico.

Patrizia Sardisco, poetessa molto sensibile e attenta ai molti problemi del presente, cerca di far sentire la propria voce attraverso i suoi versi incisivi, incandescenti, duri come pietre, eppure molto chiari, affrontando una tematica che è purtroppo di casa, frequente, nella nostra bellissima isola, la Sicilia, specialmente nei mesi estivi, quando il caldo naturale molto al di sopra del sopportabile, serve a degli sciagurati come schermo per nascondere le loro mani distruttive, appiccando subdolamente dei fuochi che in pochi minuti annientano aree boschive, collinari, montane, con gravi danni anche agli animali, dei quali sono habitat naturali.

Il titolo di questa raccolta (di poesie-denuncia di comportamenti inaccettabili) è paradigmatico nel senso accennato in apertura di questa mia recensione: è necessario seminare e proteggere le parole poetiche, dare loro ampi spazi di fecondazione e di vita, affinché diventino stimolo alla riflessione e alle azioni positive conseguenti.

Prendendo come esempio l’agricoltura, si dà per scontato che la semina invernale di alcuni prodotti, mentre dà continuità all’operosità contadina, esige anche un’attenzione particolare proprio riguardo alla protezione delle piantine, con sistemi quali il riparo del terreno con teli impermeabili per proteggere le radici e far mantenere il calore più a lungo possibile, mentre la temperatura è bassa.

Eppure le piantine che superano l’inospitalità del terreno invernale hanno già una loro particolare resistenza, vanno solo aiutate un po’.

E traslando poi il discorso agricolo al mondo poetico, viene spontaneo pensare che anche le parole dei poeti abbiano già in sé una loro particolare resilienza, ma non sarebbero molto efficaci senza un loro appropriato uso in contesti che richiedano una speciale vigilanza, senza la protezione (affidata soprattutto ai poeti) che le aiuti a “crescere” e a diffondersi.

Seminare parole poetiche, come fa la poetessa Patrizia Sardisco con lo scopo di far conoscere le conseguenze disastrose di atti così incivili come il dar fuoco ad aree naturali estese, è infatti un modo esemplare per scuotere le coscienze, per sensibilizzare le persone alla responsabilità dei comportamenti, al rispetto della natura, e per far sì che ognuno faccia la propria parte nel tenere d’occhio l’ambiente e nel cercare così di prevenire anziché subire comportamenti dettati solo e soprattutto dall’ignoranza e dalla cecità di chi non si rende conto che i danni recati alla natura si ripercuotono inesorabilmente sugli uomini stessi e sulle loro attività.

Mette in guardia, la poetessa, coloro che non sanno (e non pensano) quello che fanno. Lo fa in particolare con una poesia-manifesto, che riporto di seguito interamente, in quanto parla da sé (anzi “grida”!):

Opposto del morire  / è il pensiero / come la semina / è l’opposto del tacere / il vento sa. / Dove cuce, dove dipinge / dove non è rumore / né sbadiglio / seminare è accendere la favilla / che comanda e chiede / giustizia al suo destino / e intanto al buio tempra / la generosa sostanza del legno / e solitudine di altezza e ombra / di foglie che stanno al proprio posto / lungo tutto l’inverno / per chi le guarda / per te che stai pensando a loro / in quest’istante. (pag. 25)

 

“Seminare è accendere la favilla  che chiede giustizia al suo destino e che al buio tempra la generosa sostanza del legno e lo prepara a colmarsi di foglie che stanno (devono stare!) al loro posto così che si possano ammirare, pensare, nella loro preziosa funzione di vita per l’albero-madre e per l’ambiente circostante”

Seminare le parole poetiche, sempre, ogni volta che sia necessario, è accendere la favella per dire quel che va detto, per non tacere rendendosi indifferenti e quindi corresponsabili.

Il poeta sa. Il poeta chiama a raccolta con la sua voce potente chi ha a cuore le cose che ci ri_guardano, che ci sostengono se a nostra volta le sosteniamo.

Sono molto efficaci i versi delle poesie di questa breve ma importantissima silloge/documento.

Ne scelgo alcuni in particolare, perché mi hanno coinvolta in maniera impressionante, con reazioni fisiche reali, come la pelle d’oca, il tremore, la mancanza di respiro, l’assenza di voce:

Di colpo, con gli occhi pieni di neve / avvoltolati dalla vampa agostana / con la fretta stupita e vana delle bestie / col loro stesso spavento dissanguato / pure così distanti / da loro e in salvo / vicini spalla a spalla con la notte / pure così lontani / fuoco di fuoco sta gelando l’estate / così di colpo avvoltolato inverno. (pag. 9)

 

Cenere: non è più bosco / come qui questa lingua / soavemente adagiata sulla carta / non è più lei, non dura / non suda più, non reclama.//

Mi empie il cuore di neve / l’ombra di questa mano che la sperde / leggera a leggerla, forse / comunque inascoltata. (pag. 15)

 

E ancora:

Portone di deposito / che non so più chiudere / e  adesso si lamenta, scosso / mentre il buio s’insinua.//

Quest’inverno greve non arretra / questa neve di cenere / è nel paesaggio e negli occhi / un uguale fuoco / ma è la mia voce / il bosco di tizzoni più agghiacciato / come quando le dita nella ghiacciaia / il gelo si incolla e penetra / non si sentono più, sembrano / estranee, ma messe in bocca bruciano. (pag. 10)

 

Ho riportato le poesie nella traduzione in italiano, per rendere più fruibile questa mia recensione, ma non renderei veramente giustizia alla silloge se non sottolineassi il fatto che l’origine delle poesie è il dialetto siciliano, lingua che oltre ad assegnare una precisa identità a coloro che la parlano, ha una sua specifica connotazione non facilmente trasponibile in italiano, esattamente come avviene per le traduzioni in generale.

Con un valore aggiunto, per il dialetto, in quanto esprime concetti con un’immediatezza e una forza che non si riesce a rendere in italiano, né in qualsiasi altra lingua.

Queste caratteristiche (immediatezza e forza) credo attengano a tutti i dialetti, in quanto essi hanno radici ancestrali che, se pure nel tempo possano avere subìto delle modifiche dovute ai passaggi generazionali e ai tempi che cambiano irrimediabilmente, mantengono tuttavia una loro peculiare specificità storico-antropologica che ne rafforza, più che indebolire o attenuare, le origini stesse.

Pertanto le poesie vanno lette nella lingua in cui hanno visto la luce, per sentirle vibrare insieme alla voce della poetessa, per ascoltare il tramestio l’affanno lo scombussolamento che avviene a tutti i livelli, dalla consapevolezza della mente, al cuore, alla fisicità tutt’intera, fino alla soglia dell’inconscio e forse ancora più in profondità, nell’anima.

E solo dopo, confrontare l’esito della lettura dialettale con le poesie in italiano, per provare a comprenderle bene, per provare a farle proprie entrando direttamente nello spirito del testo.

È soltanto un breve excursus, il mio, in questa raccolta di poesie che rimescolano il sangue, che fanno riaffiorare emozioni forti (già da me vissute in prima persona), paure, ma soprattutto indignazione, nel ricordare, ad esempio, la trasformazione di meravigliosi spazi verdi, in arido e nero deserto di tizzoni che fanno da sfondo a un paesaggio che sarebbe altrimenti da favola.

A ciascun lettore spetterà poi il compito di addentrarsi nelle poesie con le proprie personali sensibilità, seguendo le proprie inclinazioni e disposizioni d’animo, interpretando o semplicemente lasciandosi lucidamente trasportare nelle gelide atmosfere prodotte dai fuochi, rilevando nel contempo le “ossimoriche” situazioni descritte e, forse, impallidendo nell’immaginare la disperazione di chi assiste, inerme, a violenze così gravi (tanto più perché ripetute) sugli ambienti naturali.

Un grande plauso a Patrizia, quindi, che mette il dito su una piaga ancora non guarita, su ferite gratuite e ancora aperte, inferte a una terra che non merita niente di tutto questo, che andrebbe invece preservata, resa migliore, feconda, non solo nell’ambito naturale, ma più in generale, negli aspetti socio culturali, negli aspetti di tradizione, di estetica antropologica, di etica delle relazioni…

E inoltre molte grazie a Patrizia per aver dato voce anche a me! E chissà a quanti altri…

  1. Carmen Lama

(24 settembre 2022)