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Andrea Pomella

29 luglio 2015

Non ho nemmeno una lettera

Quando correvo incontro a un sacchetto di gelati
che portavi nell’ora del tramonto o sotto il sole d’estate
e tu guardavi di sbieco le cose e ti soffermavi
sulla mia mano tesa come quella di uno zingaretto
sembravo la freccia che mira al cuore
le ginocchia macchiate di terra
le fiamme
incurvate dentro gli occhi
il braccio che implorava la benedizione
di quell’oro da succhiare a morsi
abitavamo allora
in un’immondizia di palazzi edificati
come macerie
Roma distava un pezzo di campagna, un’ansa di fiume
una corsa d’autobus su una valle di sterpaie
quei palazzi di borgata preservavano
la schiena della mia infanzia
come una chioccia grassa o il petto di una balia
ti ho visto ieri arrivare senza provviste
malato della tua follia della tua furia
correvo da te come un orfano in cerca
del mike blond della eldorado
non ho nemmeno una lettera
in cui ho riposto i miei riccioli, le scarpe
bagnate di pioggia
l’odio
quel vento che non era nostro
quel tempo che non era
nostro

altro qui

.

Andrea Pomella

17 aprile 2013

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Andrea Pomella, se vi fidate, è uno scrittore-narratore. Non sto scoprendo l’acqua calda: scrittore e narratore non sono sinonimi. Ci sono scrittori-scrittori e narratori-narratori: i primi solitamente scavano con ruspe di parole, o grimaldelli, o zappette da orto urbano, a volte amoreggiano con la pagina, la coccolano, la seducono e se ne lasciano sedurre. Sembrano come quel tale che esce di casa per andare a comprare il latte, ma, sorpassando il supermercato, pensa “ci torno più tardi, faccio una capatina al parco”. Uno così tornerà a casa senza latte, ma avrà notato le gemme sugli alberi, la luce tutta particolare dell’ora del giorno e della dolce stagione, avrà ascoltato i propri pensieri gocciolare clop! clop! per poi scorrere via nel carso della coscienza. Ecco, lo scrittore troppo scrittore si dimentica di narrare una storia, la ritiene cosa secondaria rispetto alla “scrittura”, questo totem a cui sacrifica volentieri il “plot” (pronuncia: trama). Il lettore non sempre capisce, non sempre è grato della bella pagina, soprattutto oggi che di Gadda, ciccia: i più vogliono soprattutto sapere come va a finire.
Poi ci sono i narratori-narratori: quelli, il plot, è una bazzecola, ci sguazzano. Come fanno a congegnare le scene, i personaggi, lui che dice a lei e, oh cavolo, adesso scoppia il casino: mistero. Però talvolta tirano via, potrebbero approfondire, curettare un po’ il tartaro del personaggio, dargli una mano di bianco o lucidarlo con il sidol della retorica (pronuncia: raccontare con arte), ma niente. Mai contenti, questi lettori. I lettori smagati, come me, di sicuro non si accontentano. Dicevo che Pomella è uno scrittore-narratore: se quello che penso delle due tipologie s’è capito, non avete altro che da rinsaldarle e otterrete il meglio di quello che un novelist del terzo millennio dovrebbe essere.
(qui: http://lunediscrittori.wordpress.com/?s=andrea+pomella)
Ma qui sono venuta per parlarvi di alcune poesie che ho letto del nostro romanziere. Siccome non sono abile con l’ermeneutica che è roba da filosofi del linguaggio, mentre sono, più che una critica, una criticona, e piuttosto bizzosa e selvatica, peraltro, ho bisogno subito delle mie virtuali lavagnette, prodotto di una professione ormai quasi trentennale su cui, vedete, ho scritto poesia civile. E, tanto per liberarci degli ammalorati distinguo, tanto in voga in quest’epoca per molti versi saccente, aggiungo subito che le categorie tradizionali qui impiegate a spiegare saranno liberamente rivisitate e piegate allo scopo. Dico, dunque, poesia civile perché è evidente che la materia centrale delle poesie di Pomella verte su argomenti scottanti, sulla nostra storia recente, tratta quei temi che un tempo avremmo definito con modestia d’attualità: licenziamenti, soldati in missione di pace, soldati ammalati, povertà, emarginazione. E, coerentemente con una poesia di sostanza, lontana da narcisistici ripiegamenti sul proprio individuale dolore (che di questi tempi eleva troppe volte un canto criptico, malamente involtolato in pannucci tardoermetici), il tono appare per lo più colloquiale, affine alla prosa (certi passi di Pomella, ne La misura del danno, il suo ultimo romanzo sono, al contrario, poetici). La colloquialità è frutto di un fare liricamente disteso: che è il pregio fondamentale della poesia contemporanea, quanto la tendenza prevalente a gnommero ne è la peste. Ma dentro ad un tessuto di stampo “narrativo”, quasi prosastico, si stagliano momenti di acutissimo lirismo: per ritmo lessico sintassi. Faccio un esempio, tratto da Il silenzio sull’uranio e la conta dei morti. C’è una madre che pensa al figlio soldato ammalato per l’esposizione a sostanze radioattive; spera in una guarigione e che il ministro “addetto alla saggezza” (oh profezia dei poeti!) ascolti la sua petizione di “carta straccia”:
la corda dei panni tesa sull’orizzonte impiccherà
ogni giorno il sole
sul tetto
la chiusa trisillabica mima lo spegnimento delle speranze, con immagini di morte si lega ad anello all’incipit:
E’ libero il soldato, è a un passo dai cipressi
costretto nella siepe di ferro del suo letto
Interamente e profondamente liriche Non ho nemmeno una lettera e Ogni giorno un vecchio uomo.
La prima sull’infanzia in borgata, il rito del gelato portato dal padre, un uomo che guardava di sbieco le cose:
Roma distava un pezzo di campagna, un’ansa di fiume
una corsa d’autobus su una valle di sterpaie
quella borgata appare come una valle disseccata: e, niente, quando si evoca una valle, se non è teatro di un canonico locus amoenus diventa immediatamente un locus horridus, di dantesca memoria.
Il vecchio sdentato che si ostina a mangiare in mezzo alla gente in carriera, da solo in mezzo ad una compatta tribù di ciechi, ben abbigliati, per sentirsi meno solo.
I momenti lirici, accanto a quelli più narrativi e piani, hanno una forza tale da irradiare la loro luce su tutto l’arco del componimento: a sconfessare, se mai ce ne fosse ancora bisogno, la nota distinzione crociana tra “poesia” e “non poesia”: che noi accogliamo giusto il tempo di ripudiarla e di ricordare come però tocchi di leggere a volte “canson per forsa di scrittura” che mirano all’effetto eccentrico e aurato quasi a voler confermare, al contrario, che non s’ha poesia se non s’abbia un tantino di astrusità e oscurità o di mielato bamboleggiamento dolorante.
I metri ci direbbero “versi liberi”, definizione non del tutto corretta perché i versi lunghi sono suddivisibili in metri conosciuti: enedecasillabo e settenario, settenario e ottonario accostati, fortemente scanditi, come nel già citato Roma distava un pezzo di campagna, un’ansa di fiume/ una corsa d’autobus su una valle di sterpaie. In particolare questi due versi mostrano tutto un tessuto di vocali aperte a, e che continuano anche nei sottostanti versi, ad indicare un sentimento infantile di curiositas e speranza del bambino che è ricordato come uno “zingaretto”, come un “orfano”.  Vi vedo la lezione del Pavese di Lavorare stanca, l’elegiaco (alla greca) Pavese.
Di particolare suggestione sono i versi finali di Due soldati dall’Afghanistan:
I loro cuori sono alberi
da cui pendono i frutti
beccati dai corvi.
Leggo questi versi come estendibili alla condizione dell’uomo moderno che non abbia rinunciato alla sua humanitas: il prezzo da pagare è lo strazio dei cuori.

Lucia Tosi

                 

A un licenziato

E tu non ridere non piangere e non pensare
né con gli occhi vivaci, immensamente intelligenti
né col cuore pieno di allucinazioni
e non stringerti i lacci delle scarpe con la soddisfazione
di chi va alla forca
la tua vita è con le spalle al muro
l’umanità e tutto ciò che è astratto
anche quel cane magro di tua figlia
negherà l’ombra che ti ha seguito il corpo
e tua moglie – abbi cura di lei –
che il tuo altruismo è un altro genere di menzogna
e sebbene tu non sia né mascalzone né onesto
quello che ormai ti manca è l’amore per definizione
il gelo nel secchio che è diventata la tua vita
il tuo lavoro convertito al cristianesimo
nel precetto evangelico della carità
e se anche non avessi cinquant’anni
e una stanchezza dell’intelligenza
non perderti
in lacrime sul domani che non viene
chi ti ha arruolato nei ranghi di questo genere di umano
ti ha rimesso alla porta, è il progresso
l’uomo mangia uomo
il sistema più spiccio per riportarti
in guerra

*

Il silenzio sull’uranio e la conta dei morti

È libero il soldato, è a un passo dai cipressi
costretto nella siepe di ferro del suo letto
disteso come una città sotto l’uragano
sua madre è sulla soglia di casa, lo guarda
va a comprare un po’ di spesa sul fare
del giorno, prima che lui diventi pioggia acida
uccello o albero nero
o mare che obbliga le sue onde a vigilare
Questa notte
il suo figlio soldato non ha ancora quarant’anni
militare da dieci e come tale
assegnato nei teatri di guerra
di Kosovo, Balcani, Afghanistan e Iraq
ma così umide e coronate le sue ciglia
di minuscole lacrime da bambino
così piena di rovi e cardi la polvere
che gli ha ridotto le mani a due schiave
che dirlo soldato è un’offesa al cielo
quel nido di ossa e cenere che ha visto il mondo
in missione di pace per vergogna
di chiamarla guerra
E sua madre si sposta una ciocca di capelli
e pensa a quando tornerà come tornano
gli uccelli
o come ricresce l’erba, e il soldato allora avrà
di nuovo labbra fiorenti e muscoli alle gambe
non più la materia senza nome che ha respirato per le strade
l’uranio, il tungsteno
la festa di ballo e fuoco che ha cosparso il mondo
di guano
Ma il soldato nello specchio è già un morto
un caso come cento in un dossier
sua madre, suo malgrado, anche oggi si vergognerà
delle lacrime in anticipo, scriverà
una lettera di carta straccia al ministro addetto alla saggezza
e per quanto le riguarda nel tempo a venire
la corda dei panni tesa sull’orizzonte impiccherà
ogni giorno il sole
sul tetto

*
Non ho nemmeno una lettera

Quando correvo incontro a un sacchetto di gelati
che portavi nell’ora del tramonto o sotto il sole d’estate
e tu guardavi di sbieco le cose e ti soffermavi
sulla mia mano tesa come quella di uno zingaretto
sembravo la freccia che mira al cuore
le ginocchia macchiate di terra
le fiamme
incurvate dentro gli occhi
il braccio che implorava la benedizione
di quell’oro da succhiare a morsi
abitavamo allora
in un’immondizia di palazzi edificati
come macerie
Roma distava un pezzo di campagna, un’ansa di fiume
una corsa d’autobus su una valle di sterpaie
quei palazzi di borgata preservavano
la schiena della mia infanzia
come una chioccia grassa o il petto di una balia
ti ho visto ieri arrivare senza provviste
malato della tua follia della tua furia
correvo da te come un orfano in cerca
del mike blond della eldorado
non ho nemmeno una lettera
in cui ho riposto i miei riccioli, le scarpe
bagnate di pioggia
l’odio
quel vento che non era nostro
quel tempo che non era
nostro

*

Ogni giorno un vecchio uomo

Ogni giorno all’ora di pranzo adocchio
Un vecchio uomo che ha l’abitudine di sostare
In un ristorante a self-service dove le cameriere
Educatamente fingono di ignorarlo
Ha il suo tavolo stabilito che occupa a metà mattina
Nella parte più soleggiata del locale
Trascinandosi dietro un piede gonfio e bluastro
Lo vedo masticare il cibo con le gengive
Perché ha mascelle rancide e senza denti
E una camicia azzurra stinta che protegge
usando la premura antica di appendersi al collo
una tovaglina di carta prima di mangiare
E spende il magro di una pensione in buoni-pasto
Con due menù al giorno da 7.50 per sentirsi forse
Meno solo
Meno solo fra le cravatte ben annodate
Meno solo fra i tailleur eleganti di professioniste che si aggirano
Su tacchi costosi inciampando ai tavolini
Con vassoi stracolmi di verdure essenziali e ricche
Di praticità
Dovresti vederlo questo vecchio uomo
Accerchiato come un albero dalle radici antiche
Tra le guglie risplendenti della modernità
Ha lasciato che il tempo stabilito passasse
E ora spende la sua vecchiaia commerciabile
Con le monete di giorni che furono
Così di fronte a questa ulteriore conferma
Della nostra incapacità a funzionare
Ad assolvere il dovere di accompagnare
Ogni uomo in condizioni garantite di decoro
Io vorrei
Vorrei che la Via Lattea lapidasse
I nostri osceni corpi squadrati
I nostri crediti bancari e i fondi-pensione
le nostre tribù barbariche
le nostre pretese di patriarcati
Perché a ferirci saremmo noi che siamo ancora tutti
Sulla terra
E non lui che è già per metà
In cielo

*

Insubordinazione

Lei svelta di tacchi corre
al posto di guardia c’è un foglio
con l’orlo sbalzato e una dentatura ufficiale
una notizia del comando generale :
Ordine alle donne-soldato, vietato rimanere incinta!

vietato al grembo di ingrossarsi
vietata alla vita di uscire piangendo
vietato il cielo e vietate le stelle
vietato tutto ciò che è contrario alla causa delle forze
di terra
la vita è cosa marcia e mediocre in un fronte
di guerra

lei “donna-soldato”
– una parola incoerente un ossimoro
una contraddizione in termini –
ora sa
che se per pura sventura o malasorte
nel suo ventre materno sotto il giubbotto a lama di ceramica
spunterà una bomba a mano rotonda e piccola
e viva
che non fa parte della dotazione originale
che non farà polpette di carne delle anche di un bambino
che non sopprimerà orchi e babau
un tribunale militare ne chiederà conto
col capo d’accusa di insubordinazione

Così la più
ricca
civile
potente
democrazia occidentale
manda la procreazione davanti

a una corte marziale

*

Due soldati dall’Afghanistan

Il cielo è bianco
sulla soglia delle rovine
della città antica
bianchissima è la fiamma dell’estate
vasta come l’Asia
per i nostri giorni così lontani
le nostre città assediate
da aperitivi e finger food
Farah è un pianeta vecchio di duemila anni
nella Tv satellitare
suona di ruggine e di bombe
è il suolo che asciuga i morti
al sole
è una città di scheletri
un coltello conficcato nel dolore della terra
trent’anni di guerra hanno ammazzato
anche i sassi
e per ultimo
un soldato che portava
il nome italiano di una nazione in guerra
tornato in una bara
col tricolore
il picchetto interforze e il trombettiere
che intona il Silenzio
l’altro è americano
catturato il 30 giugno a Paktika
beve tè e pensa alla sua ragazza
che spera di sposare
pensa alla sua bella famiglia
nella casa d’America.

I loro cuori sono alberi
da cui pendono i frutti
beccati dai corvi.

           

Andrea Pomella è nato a Roma nel 1973. Scrive su IlFattoQuotidiano.it e sulle pagine culturali dell’Unione Sarda. Ha pubblicato monografie su Caravaggio e su Van Gogh, il saggio sulla povertà 10 modi per imparare a essere poveri ma felici(Laurana, 2012) e il romanzo La misura del danno (Fernandel, 2013).