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Bill Dodd

2 ottobre 2020

Gli scenari di campagna e di città sono stati spesso in passato associati a due generi antitetici di poesia: quella di evasione e quella di impegno civile. Ma la natura sfregiata di oggi non ha più nulla di bucolico mentre i suoi sempre più frequenti cataclismi hanno smesso da tempo di suscitare il sentimento del sublime, per rientrare nella sfera del quotidiano e della banalità del male.

Bill Dodd è poeta della natura che appartiene alla feconda tradizione romantica inglese inaugurata da Wordsworth agli inizi dell’Ottocento, ma ora radicalmente mutata nei temi e nel linguaggio, sommessamente tradotta nella Stimmung ecologica odierna.

Presentiamo qui quattro sue poesie. Le prime due (“Relatività” e “Grecale”), semplici e brevi, ci mostrano l’antitesi classica fra quiete e tempesta: la leggiadra danza delle foglie in caduta e la violenza del vento che toglie il respiro.

La seconda coppia di poesie (più complesse e allegoriche) forma anch’essa una sorta di chiasma, attingendo a una dimensione metapoetica. Poiché al sapiente impasto del pane della prima lirica (“Pagnotta”), corrisponde lo sbriciolamento del testo poetico nella seconda (“Sogno dello scrittore”). Ed entrambe possono essere lette come metafore del poiein in senso lato.

“Pagnotta” è un componimento esemplare della poesia di Dodd: una sinestesia dettagliata ed estesa. Costituisce davvero un mondo a parte, un’allegoria del poema, ricca di echi letterari (Shakespeare, Donne, e altri): un impasto fragrante di suono e di senso, di frumento e di parola. L’offerta di un’ostia benefica: indubitabile nutrimento del corpo e dello spirito. Sul limite tra percezione e azione, coniuga natura e cultura in un unico dono, un raro sinolo di materia e forma, un impasto di perizia e di amore.

Nel “Sogno dello scrittore” invece, alla danza delle foglie subentra quella delle parole e la messa a fuoco passa decisamente dalla natura all’arte, dall’impasto dei grani alla levigatura e alla rastremazione del discorso. All’esercizio della spersonalizzazione e della cancellatura, a rischio di trovarsi di fronte al vuoto della pagina bianca e al fantasma dell’emozione. Come in una sorta di escursione sull’altra faccia del cielo, dove appare per un attimo la filigrana, la pura forma di luce, l’idea pura della poesia. Di cui la memoria può però solo preservare tracce, “brandelli e bucce di suono”, “chiazze di colori, borbottii”, da consegnare alla pazienza dell’ascolto, finché la pagina, come una foglia, torni a respirare, in attesa di uno scroscio di pioggia.

Ecco allora che natura e arte, ispirazione e tecnica, si ricompongono nell’improbabile miracolo del poema. Mentre la metafora del foglio/foglia che respira ci restituisce la chiave della poesia semplice e vibrante di Bill Dodd.

                                                                                                                                               Giuseppe Martella

***

Testi del poeta inglese Bill Dodd, traduzioni a fronte dell’autore

Relativity

Who says leaves fall?
They haven’t seen
the way this dawn
in a rash breeze
leaf after leaf
of the chestnut
turns cartwheels in the sky.

Hold tight! Feel the earth waltzing
onto each spinning leaf
crash-landing there
time and again
safely, softly.

Relatività

Chi dice che le foglie cadono?
Non hai visto come all’alba
nella spericolata brezza
foglia dopo foglia del castagno
piroetta, volteggia nel cielo!

Tienti stretto! Senti la terra
balzare su ogni foglia rotante
precipitando sopra volta a volta
toccando terra
soffice e sicura.

*

North-easterly

It slams planks, scuttles buckets
it threads every cranny of our home
with icy needles.

No truce.
It has come too far for such niceties.

It shrieks at us in strange tongues
we scamper before it like torn leaves.
We cannot even hold our breath
the wind has kidnapped it.

Grecale

sballotta assi, sparpaglia secchi
infila ogni fessura della nostra casa
con gelidi aghi

nessuna tregua

viene da troppo lontano
per tali sottigliezze

ci strilla in strane lingue
sgambettiamo davanti a lui
come foglie strappate

non riusciamo nemmeno
a trattenere il respiro
il vento l’ha rapito

*

Loaf

I watch the hunk of bread she baked,
craggy, erupting with seeds.
On one end there it stands,
a megalith of grains
an Easter Island torsoless head.

My hand clutches at the sight of it.
It wants to be balanced, shouldered,
hurled. No mineral has such
solid gravitas. Inside it went
palms’ moisture, knuckles’ torque
and stress. And her quiet persistent
desire to make taste beautiful.

And so it is. Taste visits your mouth
like a small goddess, a corn nymph
on a romp, in love with tongue.

Sit easy, let your teeth slowly
mill the grain again. Catch the whiff
of straw there in the aftertaste,
those ghosts of cumin, ginger, sesame.

Lick your fingertips to pick
crumbs from the tablecloth.
These are pearls that once
were ears of spelt. Each one
shaken away is a world lost.
There’s something about a loaf
won’t be denied. Call it
a brief completeness, a readiness
to be itself and then a crumb.
Or something that lends its name
to sharing. Use me! it says,
for god’s sake use your loaf!

Pagnotta

Guardo fresca dal forno
la tozza pagnotta,
rocciosa, che erutta semi.
Megalito di grani
sta su, in verticale
testa senza corpo
da maoi dell’Isola di Pasqua.

Solo a vederla la mano si stringe.
Vuol essere impugnata,
issata, scagliata. Mai minerale
vanta tanta solida gravitas.
Dentro di lei sono entrate
umidità di palmi, tensione e
torsione di nocche. E la tenace
pacata voglia della cuoca
di far del sapore bellezza.

E così è. Il gusto ti visita la bocca
come una piccola dea, ninfa del grano
vogliosa di lingua, in vena d’allegria.

Siediti calmo, lascia che i denti
macinino di nuovo lentamente il grano.
Senti l’olezzo di paglia
nel retrogusto, i fantasmi di
sesamo, zenzero, cumino.

Lecca la punta delle dita
e raccogli le briciole dalla tovaglia.
Quelle ora sono perle
che furono spighe di farro.
Con ognuno che butti via
perdi un mondo intero.

C’è qualcosa in una pagnotta
che respinge la negazione:
chiamalo una breve completezza,
il saper essere se stessa
poi lasciarsi sbriciolare.
O qualcosa che per destino
si lascia condividere.
Usami! dice, per l’amor di Dio,
adopera la tua pagnotta!

*

Dream of the Writer

                                        for Antony Osler

The first phrase danced
down six or seven lines
but the sense needed honing.

He took a razor to it
slashed adjectives
gutted predicates.

Blood of poetry poured out.
Too liquid.

Clotting was needed
syllables must tighten
into knuckles.

Butchery went on
till he faced the glare
of a bleached page,
ghosts of feeling
rushing for cover.

Nothing remained
but to cut deeper
into the fleeing spirit,
till he found himself
on the far side of poetry.

Not blank as he’d supposed
but like a watermark
come free of paper.

It leapt and spiralled
soared in arches
towards the pure form of light

only it was chill
within its movement
nothing his fingers could latch onto.

It was all memory could do
to get him back
through the white sheet
into his room.

There, scattered on the floor
scraps and peelings of sound
begged to be words again
to speak pieces of his heart—

carelessly even, through daubs
of colour, half-rhymes, mumbles.

The bare page was ready, breathing.

He heard its rustle and assented.

Sogno dello scrittore

Il primo fraseggio danzava
lungo sei o sette versi
ma il senso bisognava scolpirlo.

Egli prese il rasoio:
aggettivi furono falciati
predicati escissi.

Il sangue della poesia sgorgava,
ma troppo liquido.

Necessitava di aggrumarsi
sillabe dovevano stringersi
in nocche.

Il macello continuò fin quando
il poeta si trovò di fronte
al bagliore d’una pagina sbiancata
dove fantasmi d’emozione
scappavano alla ricerca di riparo.

Non gli rimaneva
che incidere sempre più
a fondo lo spirito in fuga,
fino a trovarsi
nell’al di là della poesia.

Se l’era immaginato vuoto.
Invece era come una filigrana
svincolatasi dalla carta.

Balzava, mulinava,
si lanciava attraverso archi
verso la forma pura della luce.

Solo che era gelido
dentro il suo movimento,
niente a cui le dita
gli si potessero allacciare.

A fatica la memoria riuscì
a riportarlo
attraverso il foglio bianco
nel suo studio.

Là, sparpagliati per terra
brandelli e bucce di suono
gli imploravano di poter tornare parole
di poter narrare brani del suo cuore—

pure sbadatamente
tramite chiazze di colore
mezze rime, borbottii.

La pagina nuda lo aspettava, ansimante.

Ne sentì il fruscio e acconsentì.

***

Bill Dodd è nato a Lancaster, G.B. Ha insegnato letteratura inglese per lunghi anni nelle università di Bologna e Siena (Arezzo). Ha pubblicato due volumi di poesie: Sightings (2015) e Voicings (2018).