Da Versi animali, inedito
I
Sotto il sole o al gelo d’inverno,
in salita, per campi, sull’asfalto,
in acqua, nella nebbia, nel fango,
in discesa, sulla neve, nel caldo,
sotto rovesci di pioggia battente,
o aghi di pioggerella invadente,
in senso in verso al vento contro
le onde quando del mare deserto
la voce nel mio passo è in canto
correre è la sbronza di vita,
banchetto di libertà assoluta
festa al buio che ti scaraventa
fuori di testa per restituirti
del corpo la segreta potenza;
È orgasmica scopata con la vita
quando da lei mi sento tradita,
è furia d’amore che nell’assolo
del vento fa ascolto d’elezione,
dell’abbandono riconciliazione.
È fucina di versi da prendere al volo
nel boccone che mastico e frantumo,
visione che per ore rigiro in un bolo
in gola perché non si perda nel nero,
finché al largo del cielo di nuovo non sono
sola a tradurre il passo in corsa del respiro.
È oro nella miseria, sull’abisso pedana di volo,
trampolino di lancio di ogni mia resurrezione.
II
Correre a lungo mi ha insegnato
la pazienza di nutrire la speranza,
l’arte di restare sempre in ascolto
del corpo come di un concerto.
Mi ha insegnato a seminare i licaoni
di ambizioni che masticano i cuori
a rialzarmi dagli agguati degli umani,
degli amici delusi a caccia di favori,
a lisciarmi del tutto via dalle ali
i sorrisi al cianuro degli affabulatori,
le strette al vetriolo delle loro mani.
Mi ha dettato la sopportazione
del dolore fisico e interiore,
la perseveranza dell’intento di vedere
il tutto nel frammento e ricominciare
senza all’orizzonte traguardi di chimere.
**
Black
Da bambina correvo con un cane
accanto in ogni mio allenamento,
passavo il guinzaglio da una mano
all’altra per scaldarle nell’inverno.
Nero e imponente come un alano
potente più di Cerbero all’inferno.
In corsa per chilometri sul manto
bianco senza ombra dell’incontro,
sempre fianco a fianco nel silenzio
in simbiosi un passo dopo l’altro,
fino al giorno in cui calò il sipario
sul mio grande cane immaginario
per abbandonarmi sola sul palco
a improvvisare la parte di adulto.
Da Alfabeto dell’invisibile, Samuele Editore 2015
Correndo nel sottomura degli Angeli
Basta un niente alle ruspe per abbattere una casa
frantumare anni di perizia e di pazienza,
smembrare le stanze dalle fondamenta
pochi mesi al male per demolire un corpo,
oltre trent’anni di corse e allenamento
penso mentre annaspo con il fiato corto
arrancando come un grido nel silenzio
dell’alba di un giorno non ancora risorto.
– il cuore germoglia da un albero morto
residuo insospettato di uno schianto –.
Ma i miei cani lo ricordano chi sono
come grilli balzano fuori dal sentiero,
hanno fuoco negli occhi colmi di respiro
mentre mi volteggiano attorno da lontano;
poi li raggiungo tra l’erba in mezzo al fango
di nuovo come loro sono d’aria e movimento,
c’è una linea bianca alla fine della strada,
acqua calda per guarire dal gelo e una casa.
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Correndo sulle Mura degli Angeli
Lungo la navata centrale che risale
in quel suo violento slancio verticale
nella Notre Dame d’alberi la pioggia
smalta lo smeraldo delle foglie,
accende le colonne di corteccia,
interseca le note d’acqua del respiro
sciolto in fruscio di passi sul sentiero –
Corri forte lepre dov’è inutile la fuga
in quest’invernale primavera seminuda,
quasi non scrosciasse che sole per sentire
pioggia defluire se il vento col sudore
gela sulla pelle come brina sulle punte
di rami fuoriusciti dai relitti della notte.
Da Il mondo è nato. Poesie in prosa e non
Poi un bel mattino arriva l’inverno. Deserto, un tappeto di foglie rosse macchiate dal mogano del manto di Eva, che all’improvviso spicca la corsa ed è una freccia di fuoco che divora il verde dell’erba increspata dal vento, la fa crepitare come un incendio. Gli alberi sono giganti che nello slancio si abbracciano in alto, formando una cupola che lascia trasparire un cielo inesistente e bianco. Uscendo dal tempo entri nell’infanzia che ti porti dentro da una vita precedente, ti senti l’ultimo essere al mondo e forte, come quando da bambina avevi un cane nero assente sempre al fianco, ogni volta che uscivi nella nebbia per entrare in un altro mondo, dove mancava il mondo ed era una mancata presenza a dissipare la paura, dando fiato al respiro, mentre lo guardavi salire e farsi nuvola nel vento sempre contro.
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Anche il fiume non sempre tiene la sua corsa
quando si rannicchia in attesa della pioggia
o slancia e imperversa per non tenerne altra.
Alla fine non è inutile restare
in fondo alla cascata separare
colpi di frusta riaprirli verso il mare:
C’è sempre un silenzio da salvare, o scivolare
negli occhi di te che sei stanco e non ricordi
che soli nei guai lo siamo sempre stati
e amati mai.
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Si deve esistere come in una corsa, che al mattino non vorresti cominciare, mentre il sonno al corpo nel buio ha ricordato gli anni, che hanno reso più sensibili muscoli e giunture. Non ci si deve risvegliare da ieri ma nascere nuovi, come quando muovi i primi passi sull’asfalto per raggiungere il sentiero. Ci si deve avvicinare cautamente a una giornata, trovarla vuota tra gli alberi deserti, avere il tempo per rintracciare se stessi, ancor prima di portarsi agli altri. Avere il tempo di rispondersi, ancor prima di accogliere domande che non chiamano risposte, d’interrogarsi, prima di attendersi risposte negate.
E si deve ricominciare ogni volta come dopo una corsa, quando il corpo sente il freddo e non la mente e dell’inverno ti accorgi solo dalle estremità irrigidite, dalle mani gonfie e dolenti. Quando non senti gli anni e il dolore perché non avverti il peso del corpo, che è divenuto lieve, uno con il movimento, con l’immaterialità del viaggio, evaso dalla gabbia del pensiero, affrancato dai ceppi della memoria e dell’attesa, dalla sospensione della perduta lotta quotidiana, sempre più dura, in quell’alzata di spalle che ci tacita e consuma.
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Tre giorni che la nebbia non si alza, salvo un breve intervallo a mezzogiorno. Eppure… quando all’alba esco a correre c’è nel respiro una sorta di pace, mentre il foglio bianco si srotola davanti ed è lo stesso che ho lasciato alle spalle nella sera, solo più chiaro, impregnato di una luce irreale che non è quella del Sole, umido di raggi raccolti come un bene. Posarci sopra i piedi, procedere nel bianco è calcare l’itinerario di un viaggio. Quello del ritorno, forse. Non c’è tristezza per me nella nebbia, non più. Forse perché ha tenuto nel suo grande ventre gelido l’infanzia, quella che ho cercato altrove, andando via da Ferrara alla fine della scuola, quando ti senti grande, e invece sei ancora un ragazzino inerme. E incontri tutto quel che incontra un ragazzino inerme solo in giro per il mondo. Per poi tornare alleggerito di quel fardello di fiducia e fedi che hai vuotato anno dopo anno per la strada, manna per i rapaci, speranza per te che si sazino di quella. Sul foglio bianco leggo l’infanzia che la nebbia ha custodito intatta. Dice di quando correvo da bambina lungo la cinta muraria, con un cane al mio fianco. Era grande, con i denti di neve, il pelo nero, fitto e lucidissimo. I suoi passi moltiplicavano i miei, mi tenevano compagnia, si portavano via la paura. Era il mio amico immaginario. Correvo e mi passavo il guinzaglio da una mano all’altra. Il guinzaglio serviva a stringere i pugni per riscaldare le mani. E serviva a trattenere il mio amico vicino perché credevo che una volta libero se ne sarebbe andato anche lui. I cani invece no, non se ne vanno.
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Correre sotto la pioggia mi è sempre piaciuto, meglio se la pioggia è forte ed è freddo e devi far fatica per scaldarti e tutto il sangue si agita e precipita in soccorso, meglio se c’è vento e devi andargli a testa bassa contro, meglio se è sabato all’alba e ti senti parte integrante del percorso deserto, figlio del tuo mondo.
Ma è ancora più bello correre con qualcuno che è pazzo come te, che sente in sé la tua esultanza di correre, di buttarsi dentro le pozzanghere, segnare impronte nel fango, saltare rami caduti e schiacciare mucchi di foglie con un balzo, incespicare lungo le salite erbose e scivolare lungo le discese. La gioia è correre ammirati e sospesi con la meraviglia della natura che è un Irish Setter, guerriero dolcissimo e paziente, folle di vita, aspettare che il sentiero sfoci nel prato liquido che si estende e confluisce nella nebbia, per vederlo inebriarsi nel galoppo: il torace profondo dimora di un cuore inesauribile e grande, lo slancio micidiale delle zampe posteriori e la perfezione del gesto vibrante e facilissimo, che coincide con la mente e con il corpo, il movimento della gioia di esistere, gli occhi pieni di passione che ti guardano felici invitandoti ad accelerare, ad andare oltre le misure, a forzare sulle tue due misere zampe.
Chiara De Luca:
corre 15 km al giorno. Traduce da inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese e olandese. Scrive poesia e narrativa, si occupa di fotografia e videomaking. Ha tradotto una sessantina di raccolte poetiche di autori contemporanei. Ha curato l’antologia di giovane poesia contemporanea Nella borsa del viandante (Fara, 2009) e pubblicato A margine dei versi. Appunti di poesia contemporanea (2015). Ha pubblicato i poemetti La notte salva (2008) e Il soffio del silenzio (2009) e la silloge Il mondo capovolto (2012). Ha pubblicato le raccolte poetiche per custodire l’amore (2004), in parole scarne (2005), A mia madre (2015), La corolla del ricordo (2009, 2010), The Corolla of Memory (2010, con una nota di John Deane e la prefazione di John Barnie), Animali prima del diluvio. Poesie 2006-2010 (2010), Alfabeto dell’invisibile (2015), confinando l’inverno (2017), Il mondo è nato (2017), Grani del buio (2017). Ha pubblicato l’antologia bilingue La somma di ogni ritorno/The Sum od Each Return, con la traduzione di Gray Sutherland e la prefazione di Giancarlo Pontiggia e l’antologia bilingue La ronde du rêve, con la traduzione di Jean-Claude Tardif e Elisabetta Visconti-Barbier e la prefazione di Werner Lambersy. Nel 2008 ha fondato Edizioni Kolibris, casa editrice indipendente dedicata alla traduzione e diffusione della migliore poesia contemporanea. Nel 2015 ha fondato la rivista internazionale Iris News. Il suo sito è http://chiaradeluca.net