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Daniele Barbieri

18 luglio 2017

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Persi nel cerchio dell’essere

 

Queste sette poesie costituiscono l’attacco di una raccolta (al momento in cerca di editore) che si intitola Persi nel cerchio dell’essere. Il titolo platonico-parmenideo, o neo-platonico (in verità polemicamente anti-tutto-ciò) manifesta comunque un atteggiamento filosofico di fondo, che sente il mondo come fatto di cose e di parole più o meno con il medesimo peso, ma niente altro. Niente idee iperuranee, niente Dio, nemmeno un io su cui appoggiarsi con confidenza. Solo un senso di basilare sospensione nel vuoto; e in questo vuoto c’è il rapporto con le cose, con le parole (come dire con gli altri e con il mondo), ma senza certezze. Le parole e le cose ci arrivano e ci colpiscono, e tra queste c’è naturalmente anche l’io, una cosa (o una parola) tra le altre, solo vagamente più familiare.

Siamo persi nel cerchio dell’essere, perché l’idea di essere ci infonde una certezza fondamentale, ma ci fa perdere poi il rapporto con tutto quello che non è riducibile a idea. Queste poesie sono l’inizio di un viaggio nella consapevolezza di questa dispersione, tra rivelarsi dell’illusione e drammatica pregnanza del mondo che ci pervade. Lo conosciamo, non lo conosciamo, il mondo… ha senso parlare di conoscenza se cerchiamo di sfuggire l’illusione dell’io? Chi conosce?

O sarà forse che quello di cui ci troviamo alla ricerca è una sorta di accordo, in senso musicale, una sorta di andamento che si trovi in sintonia con un qualche andamento del mondo, delle cose o delle parole. Così si giustifica l’omaggio William Blake con cui si apre la raccolta, con il riferimento a una poesia che parla della creazione e della poesia, dove le parole sono cose, paurosi correlativi oggettivi persino nell’ordine in cui sono state messe. Ed è la medesima cosa che si cerca di fare nelle poesie che seguono (e in quella stessa, naturalmente).
                                                 

                                 
                                     

Feroce

 

le foreste della notte ci hanno travolti del tutto

bruciando brillando siamo quelli che vanno nel mondo

senza gravi simmetrie e senza lance di lacrime

 

senza torcere le viscere di nessun cuore violento

di nessun cuore violato quando il tuo cuore ha iniziato

a battere quale torbida mano quale terribile

piede quale mia illusione di passione perfezione

di morte di imperscrutabile splendore quale altra

 

vicissitudine estrema può richiamarci al modello

arcaico astruso, feroce

 

Capire il messaggio

 

se cerchiamo di capire il messaggio, eccoci di colpo

persi eccoci nuovamente figure lontane, sintomi,

 

allusioni a un’impressione di verità, se cerchiamo

di comprendere il messaggio, afferrando la chiave, eccoci

 

improvvisamente persi, istantaneamente figure

lontane, lontane, fragili, lontane figure fragili

di incomprensibilità, quando cerchiamo di capire

 

e non ci siamo, non siamo vivi non restiamo veri

non viviamo, non restiamo nemmeno cerchiamo più

 

quando ricerchiamo, eccoci di colpo persi, fragili

e lontani e dimenticati

 

 

Riconoscere il dettaglio

 

nella voce della voce che ti parla con insistenza

riconoscere il dettaglio insinuante intraprendente

rintracciare sfumature di un’identità controversa

 

nella voce del peccato nel peccato del peccato

nel dettaglio di una voce di un’identità sfumata

nel disagio del dettaglio nell’angoscia della voce

 

che non è mai veramente stata voce ma memoria

memoria atroce memoria del peccato e del peccato

della mia voce insinuante e delatoria sorprendente

 

controversa identità nel parlare e nel morire

sfumatura identità nel peccato e nel morire

delatoria intraprendente che ti parla sino alla fine

 

Rime

 

io sono ben consapevole della mia identità

scarsa ondeggiante irrisolta andante debole sconvolta

 

ogni volta che cercando il nocciolo rassicurante

si sonda in profondità afferrando solo altro, tante

 

voci fàtiche molteplici consequenzialità

automatiche e abbondante viltà quando si reprime

 

il sospetto che persino nell’anima non dissolta

non risieda nessun io, ma imperversino le rime

 

 

Versando

 

stiamo versando dell’acqua, siamo dentro una versione

tralasciata delle cose, teniamo la brocca in mano,

stiamo versando dell’acqua in un catino bianco, siamo

 

versati pure noi dentro la versione abbandonata

lasciata dimenticata dispossessata del mondo,

siamo perduti nei versi, riversati come acqua

 

bianca in un catino, pure noi abbandonati spersi

perduti tra righe ignote, rime che suonano strano,

una versione scordata della canzone del mondo,

disarmonie inconsistenti, gorgoglio dell’acqua bianca

 

nel catino bianco, al culmine dei versi

 

Ma come?

 

ma come? ma come siamo deterministicamente

così assiduamente in moto? così eternamente pronti

 

al fare al sognare al vincere all’illusione di valere

più del mondo che ci mette pedissequamente in moto,

 

pedestremente dinamici dinamitici come

scintille infuse al tritolo, motorini interminabili,

 

stantuffi, pulegge, vortici, entusiasmi di perpetua

pirotecnica esistenza, scaturigini pensanti

 

ma come? e come restiamo così privati di colpo

del tempo, del senso, della soluzione che consola

 

 

Di un angelo

 

 

è l’immagine di un angelo non quello che si precipita

giù dai cieli con le ali da drago bensì l’altro

 

sterminatore dell’Eden luminoso con la spada

che ci sta davanti entrando nel buio della navata

duecentesca buio anch’esso e tutto di legno scuro

 

quasi eroso dalle acque di un diluvio improbabile

ma ugualmente spaventoso ad ambiguamente accoglierci

 

nella sua alterità arcana con la sua tromba di legno

scuro dentro il suo profondo essere immagine a sua volta

del numinoso di mezzo quasi che il caldo di giugno

 

là fuori potesse fare davvero appello alla materia

secca e vera quella calda che a toccarla ci brucia

quasi come la sua mistica lama

 

 

 

Daniele Barbieri

12 novembre 2015

Afasia

poiché non ci sono più parole a raccontare come
si dispongono le pulsazioni sopra il palcoscenico
coatto del cuore, voce cui non viene data forma,
visione non nominabile, un destino di emozione
intimamente taciuta, poiché non è esprimibile
l’articolazione fine del tuo discorso del cuore,
del dibattersi del cuore, il senso determinato
dell’azzuffarsi del muscolo nella stretta finale
quando le cose aggrediscono e non si sa come fare
e neanche più le parole ci riescono a districare
dall’improvviso groviglio che d’improvviso fa male

 

 

altro qui    

Daniele Barbieri

16 febbraio 2013

ritratti, professori, Isia Urbino, A.A. 2010/2011

 Belle queste poesie; si aprono su un mondo e si chiudono su un altro, con un po’ d’ironia e un po’ di desolazione. Si affidano sia alla visione che al pensiero e impastano un lessico specialistico a quello colloquiale. Barbieri conosce la grande libertà di cui gode la poesia per statuto: libertà di contenuto, di stilemi, di scelte lessicali e retoriche, si accomodano sul versante lirico ma non disdegnano quello narrativo o sapienziale e riflessivo. Dicono l’angoscia ma anche il divertissement, il gioco fonico e assonante.
Nessuno, infatti, è mai riuscito a dare una definizione esaustiva della poesia, essa sfugge ai canoni e ad ogni forma di ingabbiamento eppure ha regole rigidissime che la governano e l’orecchio attento sa discriminare la buona dalla cattiva poesia.
“Il poeta è colui che con le parole incanta l’animo e fa battere il proprio cuore e quello altrui. Anche se non siamo fatti da Dio siamo fatti di Dio. (……………) La poesia è un lungo viaggio nell’ ignoto.” questo dice Roberto Benigni, che molto l’ha frequentata e che forse è lui stesso un poeta che si nasconde.
La prima poesia di Barbieri è un gioco di immagini specchiate, il taciuto ha più corpo del detto e il detto , dopo aver troppo a lungo atteso, finisce in un climax crescente di parole assonanti che accompagnano, descrivendola, la sconfitta.
Gli argomenti scelti dal poeta Barbieri sono banalmente quotidiani , ma quale corda d’angoscia urla con il suo rumore l’aspirapolvere. L’oggetto diventa metafora di una stare dentro un male che non ha terapie e che la quotidianità nasconde. Così come quando le afasie dimostrano che il detto non è servito, il dire è tardivo, il senso è caduto e si dibatte nel male e tutto d’improvviso diventa inesprimibile , inestricabile . Presago di dolori attesi “a cosa serve sognare quel dialogo inconfessabile/ se il rischio è precipitare in un baratro più vorace” anche quanto si protende piacevolmente alla nostra sensibilità , al nostro sguardo, al nostro cuore, la sola risposta, forse insensata, è la rinuncia perché fino a quanto sapremmo reggere?
Non ha molti luoghi residuali dove concepire un senso che resti e non si disperda al vento o non si dissolva ai tempi; ovunque si vada cercando si annota un’assenza: “—–nessuno risponde al battito /del batacchio forte sulla porta, risuonano i colpi /verso il bosco, lo sappiamo, è abbandonato all’inverno /l’eremo disabitato delle monache,….”.
Trovo veramente molto bella la poesia “I camini”, diventati animati, uomini senza meta in marcia verso non si sa dove, ciascuno con una propria personalità, ognuno con un destino comune.
Vi invito a leggere i versi che aprono la poesia, con un gioco di magia e con la precisione che solo un grande poeta è in grado di inventare:
“avanzano, stanno, avanzano ancora, stanno di nuovo
immobili, stanno fermi, là contro la luna bianca
che fuoriesce dal colore del cielo, azzurro, procedono
come in quel gioco che appena chi lo conduce si volta
scattano tutti, per poi tutti ripresentarsi immobili
quando lui torna a guardare, ecco, per le vie di roma,”

A lato di una scelta di oggetti più che di creature, vale la pena soffermarsi sul dettato poetico di Barbieri; egli utilizza un lessico non alto ma neppure basso, conosce ed usa con maestria assonanze e climax, metafore e altre finezze retoriche , con molto garbo e quasi il lettore non se ne avvede. Le sue poesie non sono lunghe, sono compatte e complete, dotate di un’interna coerenza semantica ed espressiva.
Conseguire un tale risultato è merito da maestro; credo che proprio questa maestria renda superfluo il collocamento delle sue poesie fra il novecento passatista e l’avanguardista duemila, fra lirica, narrazione e linguaggio postmoderno: l’emozione può stare vicina alla mielina e ai dendriti, con ciò intendendo che il lessico emozionale può andare sottobraccio a quello settoriale, senza produrre stridori e senza che avvertiamo forzature.

Narda Fattori.
               

                

Gonna

su quella gonna che oscilla le parole non esprimono
nessun potere, si fermano lì, sotto l’orlo lieve
e il suo discorso di onde vaghe, il suo stagliarsi instabile
contro il fondo indifferente, il suo suggerire incalzante
alle parole di smetterla, che è un altro campo quello,
e che nemmeno lo sguardo può sperare di risolvere
tutta l’infelicità del protendersi dentro l’alveo
ispido del desiderio, arrestandosi lì, all’attimo
in cui la porta si apre, l’oscillazione si chiude
nell’ombra di là, lo sguardo insiste ancora un poco, poi
dimentica, divagando, divergendo, desolato

Permanente

l’urlo permanente e bianco e alto dell’aspirapolvere
affonda nella mielina dei tuoi dendriti rendendoli
incapaci di trasmettere altro da lui non sembra
a chi lo guarda da fuori nient’altro che uno strumento
domestico ma vissuto va da dentro quel suo grido
per ritrovarti poi nella tua medesima cucina
estranea perduta piena d’insanabile spavento

Afasia

poiché non ci sono più parole a raccontare come
si dispongono le pulsazioni sopra il palcoscenico
coatto del cuore, voce cui non viene data forma,
visione non nominabile, un destino di emozione
intimamente taciuta, poiché non è esprimibile
l’articolazione fine del tuo discorso del cuore,
del dibattersi del cuore, il senso determinato
dell’azzuffarsi del muscolo nella stretta finale
quando le cose aggrediscono e non si sa come fare
e neanche più le parole ci riescono a districare
dall’improvviso groviglio che d’improvviso fa male

                 

L’eremo delle monache

all’eremo delle monache, quattr’ore di cammino
per il sentiero innevato, svalicando dentro l’ombra
verso quel sole di là, verso l’eremo delle monache
abbandonato all’inverno, le campane congelate,
tutte le finestre chiuse, nessuno risponde al battito
del batacchio forte sulla porta, risuonano i colpi
verso il bosco, lo sappiamo, è abbandonato all’inverno
l’eremo disabitato delle monache, è incerto
l’addossarsi al muro sotto il sole, sopra qualche sasso
libero dal ghiaccio, in alto le finestre asserragliate
contro un nemico di nulla, contro un’altra assenza, stretti
nell’attesa del disgelo, assiderati

           

I camini

avanzano, stanno, avanzano ancora, stanno di nuovo
immobili, stanno fermi, là contro la luna bianca
che fuoriesce dal colore del cielo, azzurro, procedono
come in quel gioco che appena chi lo conduce si volta
scattano tutti, per poi tutti ripresentarsi immobili
quando lui torna a guardare, ecco, per le vie di roma,
uno due tre, i camini, ecco che avanzano, stanno,
contro la luna nel fondo, rossi ed immobili, avanzano,
uno due tre, stanno, avanzano ancora, si manterrebbero
quieti se loro potessero, al caldo, al tepore interno
del loro fumo, del loro stesso intestino, ci guardano
dal tetto sotto la luna chiara del cielo del mondo
di un altro mondo, avanzando, aspettando, scattando avanti
nell’attimo cieco, quando non li controlliamo più

                

Sogno

cosa vuole questo sogno indecente questo racconto
che non si può raccontare questo ineffabile fare
che rimane un suggerire stili di fuga impossibili
e alternative impensabili questo fremito acuto
ai miei sensi alla mia vita prigioniera alla paura
di rompere l’incantesimo che ci sostiene a galla
cosa vuole questo vivido intrecciare inopportuni
sguardi nel posto sbagliato nel sogno che non va detto
a cosa serve sognare quel dialogo inconfessabile
se il rischio è precipitare in un baratro più vorace

Io

quando io ti dico io, tu lo sai bene che io
mi confondo su che cosa sia io, che cosa ti stia
dalla mia parte dicendo, mi è assai più chiaro che cosa
sei tu, progetto del mio desiderio, soggetto che
irrompe, dialoga, segna la persistenza dell’essere
veri, teneri, concreti, amari, capaci, di dire
a loro volta tu, specchio che mi da forma, la più
desiderata di tutte le parole, a dissipare
tutti i sospetti, mattone prodigioso dell’esistere
davvero
                
Daniele Barbieri (nato 1957). Poeta, semiologo, studioso di linguaggi. Ha pubblicato per Campanotto La nostra vita, e altro (2004). Come critico ha pubblicato numerosi libri. Quelli in cui si parla anche o principalmente di poesia sono: Nel corso del testo. Una teoria della tensione e del ritmo (Bompiani 2004), Segnalibro, volume b. I testi poetici – Il teatro, volume antologico per il biennio della Scuola Superiore (Bompiani Scuola 2006), L’ascolto musicale. Condotte, pratiche, grammatiche (a cura di, LIM 2008), Guardare e leggere. La comunicazione visiva dalla pittura alla tipografia (Carocci, 2011), Il linguaggio della poesia (Bompiani 2011). Sul Web: www.danielebarbieri.it www.guardareleggere.net, ancoraunaltrome.wordpress.com.