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Elia Belcufinè

9 giugno 2022

Elia Belcufinè

*

Da “Solletica i papaveri il vento

Sedici Terzine

Di Elia Belculfinè

*

*

1

Neve sul pino –

Maggio si allontana.

Peschi sfioriti.

*

2

Fiore di gelso –

Marzo grida ancora!

Passaggio a est.

*

3

Salta il topo –

Sull’iris balza l’ape.

Ah, ladruncoli!

*

4

Versa il vino –

Lunghe ombre roventi.

Roghi di marzo

*

5

Bevo il vino –

Passi sul viottolo.

Bevo ancora!

*

6

Colpo a vuoto.

L’uccello sbigottito

rantola, cade.

*

7

Marzo aprile

sussurrano i pini,

falò di voci.

*

8

Pietra d’inchiostro.

Il mio yatate vibra –

Scrivo in piedi.

*

9

Seguo la luna –

Orme nella polvere,

lungo il passo.

*

10

La lupa tace –

Quattro cuccioli morti.

Luna perduta.

*

11

(A Unə Cittadinə)

Carə amicə –

Soltanto per amarci.

Sole indiano.

*

12

Moltiplicata

vaga una rondine –

Firma il cielo.

*

13

Fumo da solo.

Alba adriatica –

Tossisco piano.

*

14

Dodici haiku.

Una finestra schiusa –

Penombra miele.

*

15

Ridda nel buio.

A piedi nudi va –

Ragazzo-topo.

*

16

Versi di riffa.

Una cesta di strame –

Fiori là dentro

*

Elia Belculfiné, nato a Caserta il 29 – 9 – 83 Vive a Cascano. Nel 2012 ha pubblicato per Aletti la silloge “Primi sintomi di una gravidanza”. Sempre per Aletti è apparso nel saggio “Verso la poesia – Alla ricerca di senso” di Maria Carmen Lama.

Elia Belculfinè

14 marzo 2022

Elia Belculfinè – La rosa rosa  – Ed. Rp.libri 2020

(Recensione a cura di M. Carmen Lama)

 

La rosa è materia privilegiata del canto dei poeti per la sua particolare bellezza, il morbido profumo, la forma dei petali sovrapposti che agiscono in funzione della trasformazione lenta e delicata dal bocciolo alla rosa matura, aperta allo sguardo di chi la ama e in qualche modo anche conturbante.

E poi ci sono i molti colori, compresi quelli artificialmente prodotti, che esprimono significati particolari, tutti riferiti a sentimenti di amore e di amicizia.

È forse per tutte queste qualità, ma anche per la simbologia di cui è stata investita, che la rosa è diventata un oggetto poetico tanto altamente considerato.

Simbologia chiaramente sottolineata da Dan Brown nel suo Codice da Vinci, in alternativa alla mela del mito del paradiso terrestre o alla mela d’oro del mito del giardino delle Esperidi da cui tante conseguenze sono scaturite, secondo l’ispirazione di Omero trasposta nell’Iliade.

 

Un poeta che di recente ha preso a simbolo del suo canto una rosa, e nello specifico una rosa rosa, è Elia Belculfinè, con la sua ultima silloge, edita da Rp.libri nel dicembre 2020, dal suggestivo titolo “La rosa rosa”.

In molte poesie del libro la rosa ha parte in causa in vari modi e contesti.

Il  colore rosa sta a ricordare, in generale, un sentimento di affetto che si declina in amicizia, amore puro, innocente, o anche ammirazione e con l’aggiunta di un apprezzamento della raffinatezza ed eleganza attribuite alla persona alla quale le rose rosa sono dedicate.

 

Non so se consapevolmente e in quale misura il poeta Elia abbia scelto questa specifica rosa per voler significare i sentimenti sopra accennati, o almeno alcuni di essi; basti tuttavia essere certi che sia  riuscito a trasferire, nel suo modo peculiare e originale di poetare, questi sentimenti in diverse poesie della silloge.

Ne darà conferma una lettura attenta e partecipe, che sia in grado di andare oltre la superficie delle parole e dei versi e di estrarne il senso profondo che il poeta ha voluto comunicare.

 

La silloge comprende quattro sezioni, la seconda delle quali suddivisa a sua volta in due parti.

Nella prima sezione, Operando nel fuoco, il poeta sembra mettere in scena un paradigma elementare (elementare perché ancestrale!) dove il fuoco emerge, in ultima analisi, nelle sue connotazioni purificatrici, non senza essergli debitori della sofferenza prodotta dalle bruciature per aver osato avvicinarglisi troppo fin quasi a toccarlo.

Il fuoco a cui Elia allude è il fuoco vivo che tormenta il poeta producendo in lui gli spasmi del creare, del fare artistico, dell’essere investito della necessità interiore di scrivere per riuscire a venire fuori, anche se solo momentaneamente, dal dolore, dalla sofferenza, vissuti come DNA dell’anima, cioè come qualcosa che è intrinsecamente connaturato all’essere poeta.

 

È questo un atteggiamento tipico del poeta Elia che, anche in altre poesie edite o inedite, a cominciare dalle sue prime poesie, non manca occasione per sottolineare quanto “il poeta” debba soffrire (perfino le sue stimmate…) prima di potersi considerare tale.

Ritengo sia molto pregevole il fatto che ancora lo ribadisca, anche se in altri modi, forse più “scottanti” perché più consapevoli, in quanto si evidenzia un dato importante: il poeta più maturo non smentisce affatto le sue prime esperienze poetiche, anzi sempre più le rafforza rielaborandole.

A un attento e partecipe lettore, che abbia un minimo di familiarità con il lessico poetico di Elia, non può sfuggire il senso di questo ritornare sul tema del lavoro “sofferto” del poeta. Era già molto chiaro al giovane Elia, ed egli sa che mai potrà liberarsi di questo tormento creativo.

Scrivendone sembra volerlo alleviare.

Ma le sue parole toccano il culmine, quando scrive, ad esempio, in chiusura della sezione che stiamo analizzando: “Uomo scorticato dai graffi dei tuoi artigli / (Scrivi, ti perdi, o sei paziente, simbiosi e fiamma) / Che più di tutti hai patito il solfeggio della carne”.

 

In questa sezione le poesie si servono dei “correlativi oggettivi” (di eliotiana memoria) che all’apparenza mettono insieme immagini lontane, ma tutte sono finalizzate a rendere l’atmosfera di accanita e instancabile ricerca del poeta, che tenta di affinare le parole rendendole taglienti, urticanti, in linea con le fiamme del fuoco sacro..!

 

Le due parti della seconda sezione, Le allegrie del vino, hanno rispettivamente il sottotitolo I passati e I passanti.

Nella prima, cinque poesie dense di calore, sono dedicate a persone che sono passate per l’esistenza e con le quali il poeta intrattiene un dialogo che forse non era mai venuto meno, neanche dopo la loro scomparsa, e che qui tende a fissare il rapporto di reciproca benevolenza, ricordando (di ognuna) dei tratti caratteristici riferiti al loro modo di essere o di fare.

I versi sono incalzanti, come se il poeta attendesse da ogni destinatario dei suoi versi una risposta, un messaggio.

 

Nella mia immaginazione, è come se il poeta volesse prendere forza dalla loro morte, ed è esemplare il fatto che “Al limite di fiamma, non vi è fuoco che intacchi/ il cuore dei poeti”, e anche questo: che “I morti non muoiono mai, sempredesti filari e vortici”, e anche questo: “Dove vanno i morti, con gerle / di fuochi sulla collina?” […] “Accolgono i poeti…”

E come per i morti il poeta prega “l’amore gentile che si fa la pietra col vento” così si può intuire il suo desiderio di essere ad essi accomunato nel suo destino: che il fuoco non intacchi il suo cuore, che il poeta non muoia mai e che sia a sua volta amato.

Anche in queste poesie le parole fanno le immagini e le immagini rafforzano le parole e creano atmosfere alle quali non si resta affatto indifferenti, perché coinvolgono, chiamano in causa anche il lettore.

 

Nella seconda parte, ancora cinque poesie, questa volta dedicate ai passanti. Ma chi sono i passanti? Sono vaghe figure metaforiche che, attraverso passaggi inaspettati e accostamenti audaci di parole, simboleggiano ancora la Poesia: “Maestra che cuce le vele per i pirati” […] “Ma ciò in cui non vuole / infilare l’ago è la sua lingua lacerata / dall’infamia del suo canto, / che in realtà è un cicaleccio nella grondaia” – quest’ultimo verso a voler intendere l’insoddisfazione del poeta, come se l’esito del suo affannoso cercare fosse un semplice “cicaleccio”.. – e così di seguito, nelle altre poesie, dei versi rivelatori: lo “Sgranaossi”, gli “ofidi colloquiali”, “Tu giungi alla riva della coscienza […] dove i poeti guardano a oriente, coi battiti nelle sillabe..”, “Ermete sul trono / che canta ai poeti la sua tristezza”.

 

Il poeta è inchiodato nella sua funzione e la esplica prendendo a prestito dalla vita quelle visioni che circolarmente lo riportano al suo mondo, alla sua ispirazione creativa, al suo meticoloso lavoro nel quale, in definitiva, non è ancora arrivato se non quasi al punto di partenza.

 

La sezione che porta lo stesso titolo del libro, La rosa rosa, si articola in poesie in cui le rose fanno da sfondo all’azione del poeta, alle sue riflessioni sul destino dei morti, sulla loro vita notturna, sul loro rapporto con i loro morti e sull’essere morti, talvolta, anche dei vivi, o sul credere che “l’amore possa vincere sulla morte / eternamente”, o sul chiedersi se non ci sarà fine per i tormenti dei poeti, (“il peso del verso, con la stessa zavorra delle ombre”), per finire con “Un solo pulsante teorema: la fiamma cantare, / il drappo spregiudicato del tuo dramma / nella singola battuta” […] “Nulla resta, che nulla ci ostacola / agli eterni palpiti dell’usignolo” (qui, un velato omaggio all’usignolo di Keats?). E ancora: “Rifiuta la luce, sovente, la stella dei poeti”.

E nell’ultima poesia Elia codifica la dannazione dei poeti e il “temere per il seggio della mia eternità. Sono / o non sono nella schiera dei poeti?” – esponendosi in prima persona.

Ecco fin dove può giungere il tormento! A intaccare continuamente l’identità stessa del poeta.

 

La silloge si chiude con un bellissimo omaggio a una poetessa di grande talento creativo ed espressivo, con la quale il poeta Elia condivide un sentire che va oltre ogni umana troppo umana comprensione. Entrambi si pongono, infatti, a un livello poetico che è di pochi eletti. 

Cristina Bove è la fortunata destinataria delle ultime poesie della sezione I registri di Marcel. (Elia = Marcelin altra dimensione…!)

 

La prima delle poesie a lei dedicate è una bellissima dichiarazione d’amore, tanto forte e solido è il legame non solo poetico ma anche umano fra i due poeti, come da figlio a madre.

La seconda, un formidabile manifesto poetico, artisticamente perfetto, (già da me analizzato in altra sede) che insiste sulla necessità della ricerca continua del poeta. Scritta molti anni fa, denota l’estrema chiarezza di idee in proposito, già nel giovane poeta..

Tra le restanti poesie vorrei segnalare in particolare la penultima, “Le tue parole alle mie mani..” nella quale Elia si rivolge a Cristina elogiando le sue parole perché gli  “aprono strade di canzoni” e la interpella in modo diretto identificandola come “Anima, ginepro di partitura: musica / sorgiva alle tue dita, maestra…

Ecco, il riconoscimento a Cristina non è solo di essere vera poetessa, ma di più… maestra!

Lo scambio fra poeti è senza dubbio fonte di arricchimento reciproco, ma qui Elia si fa un po’ da parte per lasciare più spazio alla sua amica.

Si percepisce un atteggiamento di umiltà di fronte a una poetessa la cui esperienza creativa poliedrica può lasciare a volte interdetti per la semplicità con cui esprime concetti profondi, avvalendosi non solo dei propri vissuti ma anche delle sue ampie conoscenze in molti campi del sapere.

Ma, giunti al termine della lettura de’ La rosa rosa, non si può che essere certi che Elia non è da meno, e che quindi in questa ultima sezione del libro vi è un dialogo fra “grandi poeti”.

 

La consapevolezza che il nostro ancor giovane Elia dimostra riguardo al suo status di poeta e alle difficoltà che questo lavoro comporta è evidenziata in molti modi, con immagini e metafore molto incisive.

Sembra quasi che egli risieda su un sottile crinale delle parole, perennemente in precario equilibrio e debba trovare il modo di non precipitare. E nei continui e necessari assestamenti sia costretto a correre sempre il rischio, perché sa che ne vale la pena. Pertanto le sue azioni sentono vivamente la fatica, ed è solo quando il canto lo sostiene che riesce a trovare un po’ di sollievo dalla sua sofferenza del vivere in quelle condizioni di fragilità e dalla sua sofferta solitudine. È come essere costantemente in prova, e a ogni prova successiva si alzi il livello ed è come ricominciare.

 

Ma il poeta qui prende a prestito dalle rose la bellezza, la raffinatezza e l’eleganza, anche se connotate da effimera fragilità, e tutte queste qualità trasferisce nel suo stile, offrendo a chi legge una sorta di magia, e se stesso come uno dei sortilegi cui fa cenno,  perché l’alchimia delle sue parole è un dato di fatto che si manifesta come “invenzione del proprio linguaggio poetico”.

Nella lucida sintesi introduttiva di Antonio Bux questo linguaggio viene inteso come musica per “una litania senza fine e preternaturale” dove le parole “anche chiariscono quanto sia dolce sentirsi condannati, e forse anche folli, nel destino di diventare cenere”…

Come le rose, e tuttavia con la certezza di essere stati portatori di amore nel senso bidirezionale di dare e ricevere: il poeta ama le cose che canta ed è amato per il suo canto.

 

 (13 febbraio 2022)

 

Dalla sezione Operando nel fuoco

 

Recrudescenza, nella luna, del tuo male.

Alta sul pioppeto umilia,

gettandosi sulle rotaie, un usignolo dentro i versi.

L’eternità ha il furioso dulcamaro delle olanzapine,

col tuo segreto sfigurato, sorella…

Il giorno è d’autunno, un secolo fa.

Mai vedesti ridere tua madre.

Il suicidio delicato del rabdomante –

Leggervi dolore è un’oscenità comune.

Isolarti al fondo, fra le stelle d’acquitrino.

I poeti sono aria. Non versi? Sei tu a dirlo…

Strappato all’orologio l’orpello della meta.

Corollario, cerca il piatto d’ombre, il sangue col rame.

Sia, fitto di agrumeti, Città Radiante, il sole.

Concrezioni di labbra.

Rime nella notte, mai baciate.

 

Dalla sezione Le allegrie del vino

 

La maestra è una sarta magistrale.

Cuce le vele per i pirati.

E i vestiti alle bambole del vicinato

Coi panni da lavoro del marito

a cui non imbastisce un abito o intavola il piatto.

Quando ha finito si beve un vermut

tra amiche. E se ne va al cinema

con le sue miserie.

Ma ciò in cui non vuole

infilare l’ago è la sua lingua lacerata

dall’infamia del suo canto,

che in realtà è un cicaleccio nella grondaia.

 

Dalla sezione La rosa rosa

 

Smagrita, viva. Ti perdi nelle luci,

ulivo, come sfregiato pianto.

Si agitano i poeti, hanno croci,

sì. I poeti della Pasqua, nel torpore di voci

con rose di sutura sulla bocca. Nella calura d’amianto…

Rosa rosae

Rose rosa. Sulle spoglie della notte, i poeti

affondano nella pietraia fino ai denti.

Ma raccolgono il vino cercatore. Le ulne

al viso, si dannano: l’amore canta lemme lemme

le idiopatie latenti – filigrana scarna – alle culle

affannando. Nessuna fine i loro tormenti? Cara M,

il peso del verso, con la stessa zavorra delle ombre.

 

 

Dalla sezione I registri di Marcel

 

Se non confidassi in te, Signore,

e nel desiderio che tu sia al di sopra

di ogni poeta, il mio canto sarebbe

una nota fissa. Nella carne aperta della tua voce

si ravviva il suono degli uomini.

Dolce creatura, quale musa domani

ci tremerà nel seno! Ma un canto

di solo delirio inaridisce presto negli occhi

il rinforzo di voce alla tua sete.

Se il verso è un campo da arare,

se ogni sillaba è semenza faticosa, credi…

Vedrai spuntare in ogni sguardo

il cereale smagliante della tua parola.


Mi chiamo Elia Belculfinè. Sono nato a Caserta il 29 settembre di qualche anno fa. Scrivo poesie da prima di quella data (mi pare altissimo dirlo, ma non mi prendo molto sul serio, a dire il vero).
Abito a Caserta con la mia compagna.
Elia

il blog di Elia Belculfinè

Elia Belculfinè

1 marzo 2021

Dall’introduzione di Antonio Bux

Una voce davvero inedita, quella di Elia Belculfinè. Una voce densa, onirica, frastagliata. Una voce che sembra prendere (e pretendere) l’eredità della migliore poesia del novecento per farne un omaggio teso al disfacimento. Perché pregna di decadentismo, questa poesia sembra dialogare con i morti e i fantasmi, spesso anche dei vivi, che il poeta incontra sul suo cammino. Così come di riflesso, il poeta incarna nei suoi scritti ciò che non è più degli uomini, se non nella morte o nel silenzio. Ovvero quella sottile sensazione di essere dentro al segreto della vita solo per subirne il richiamo straziante.       E sembra dirci, Belculfinè, tra queste pagine, che il verbo inconsolabile della poesia è il solo messaggio possibile per chi vive ai margini dell’esistenza.        E allora il poeta subisce, si contorce tra le parole che in questo libro musicano una litania senza fine e preternaturale; ma che anche chiariscono quanto sia dolce sentirsi condannati, e forse anche folli, nel destino di diventare cenere, un bel giorno. Già che la cenere è la terra fertile dove la rosa avvampa del suo colore più chiaro. Perché ogni vero poeta sa questo: che i sognatori vanno via se li si cerca, come le rose

 

 

 

OPERANDO NEL FUOCO

Il papavero sigilla l’ape a trarne ogni molecola.
Con il vello del suo corpo
oscura la prima eclisse della stagione.
Danza, onde è nodo il doppio filo
che a possederla è un vento caro.
Frangente d’ombra inascoltata,
sui meridiani che ha incisi nelle pietre.
Negherà alle rose il suo sesso, a primavera.
Verrà notte, per finire in fondo
nell’incavo del dire d’occhi e labbra.
Coordinate a terre incognite, spinta fuori, a largo…
Segreta, al buio sentirebbe la piaga che il ghiaccio
ha fatto alle coppe dei narcisi.
Valli, cale d’arena sotto cirri a frotte di pioggia nuova.
Un tuono presago di festeggiamenti.
L’ansito di bufera nel vestito da carceriere.
Sa che il sacrificio non si terrà, senza che sia presente.
Ha l’illusione di scampare al carnaio di occhi questuanti.
Mani sgraffiate in rovi di aspettativa.
Un tramestio di foglie sui sonagli del pantano.
E il vento si ormeggia alle pietre del ruscello.
I bambini si cullano su lacci di canapa
ai rami alti del sambuco, non si curano di nulla.
Offrirà il suo miele a chi tenterà di tradirla.
Nell’assetto di sensale fedele, guardiana
entro ritmi segreti, mondata all’alba
dalle polveri acquisite nell’urto con la luce.
Affilando le sue armi contro l’ardesia, scintillante nell’attrito.
Rifiorisce il calicanto sul greto, il fiore di foglia sulla rupe –
orifi amma disorganico. Custode di fonti di miracolo,
non sarà mai regina né madre.
Apri, sulla ghisa, il rovente che ignora il cielo.
Mansueta, creta dolce che s’avviva.
Fra poco verranno a contarti
unghie e denti, le impollinatrici.
A ricordarti il tuo nome – fresia o giglio d’acqua.
Si esaltano a cingere il tuo velo, sulla soglia.
A un’afa intima di rose, conchiglia su un labbro di riva…
Musa, traslata in corpi di bambini.
Con divise nette, alla loro radice
il sangue pesa, delibando eucarestie d’assenze.
È tutto in ordine – carezzandoti il muso;
parola candita, nel filare di torce.
Sul tuo corpo martoriato dal sesso;
apri una genesi nell’incastro di mogano.

 

 

Recrudescenza, nella luna, del tuo male.
Alta sul pioppeto umilia,
gettandosi sulle rotaie, un usignolo dentro i versi.
L’eternità ha il furioso dulcamaro delle olanzapine,
col tuo segreto sfigurato, sorella…
Il giorno è d’autunno, un secolo fa.
Mai vedesti ridere tua madre.
Il suicidio delicato del rabdomante –
leggervi dolore è un’oscenità comune.
Isolarti al fondo, fra le stelle d’acquitrino.
I poeti sono aria. Non versi? Sei tu a dirlo…
Strappato all’orologio l’orpello della meta.
Corollario, cerca il piatto d’ombre, il sangue col rame.
Sia, fitto di agrumeti, Città Radiante, il sole.
Concrezioni di labbra.
Rime nella notte, mai baciate.

 

LE ALLEGRIE DEL VINO
I passati

 

Saldate a braci e astri, le mani dei poeti
sono le mani dei morti, su lettere bruciate all’alba.
Con gli orti a sorde ombre, nelle mani
delle ballerine di Degas. Cercando nel sangue,
per il grano dei versi; nei cieli lieti a terra,
ancorati, con saldezza di carne e carme.
Vengono a blandire ogni seme carico del vento.
A indire battesimi donati a giorni secolari.
A tergere il cristallo del sangue, come pietra
da smussare in fiato. Pietà, Erato,
per l’incendiato cuore dei poeti.
Pietà di noi tutti, culle di strame trasparente di parola.
Eliseo, con fiori di cetra, Anna di luna; Silvio,
benedetto chitarrista! Caduto sul lastricato di rose,
nel cogliere il balzo della candela,
sul ghiacciaio impercettibile del cuore.
Giovanna degli spiriti, che trovasti la chitarra
in frantumi, su una branda di fiori.
Alberto e Lelio, come gigli in banderuole di seta.
Tutti, Marta, Salvatore – dei giorni di pesca; Adele –
la Pietà e la Sete; Davide, Don Mario, Alessandra.
Nato di voi – di voi soltanto il riso che soppianta
la mia fame. Che fare di voi tutti?
E degli altri che intrecciarono le dita e la
voce, a quelle dei miei morti, per urgenza
o per caos, con la lingua putrida della fede?
Chi sei, Giovanni? Chi siete Ortensia
e Gilda? Vi sistemerò con esattezza,
fra le carte e i sigilli dei poeti,
salendo al monte dei vostri sospiri, che
tormentano un’allodola di chissà quale stagione.

 

ROSALBA 1917 – 1994

Rosalba, rosa e alba, chiarisce il mattino.
Oltre i bioccoli di rive, si sperde il sordo
cielo, e lontano; cinto di semi veglianti
alla morte dei vivi. Un giorno cercasti
nelle vesti per scorgere il tuo cuore.
Era una stufa di maioliche, inconoscibile tortura.
Una granata dolce, aperta a spicchi di figli –
levità di bianco e di rosa; un telaio fermo,
che aspettava le tue mani. Era il sole intarsiato,
nottetempo, di nostalgie nemiche,
la musica alla pena di cosa passante e nuda,
invece nessuno intonò la chitarra leggera,
il plasma denso delle voci, carezza di strade.
Dov’è che vai, stamattina? Quanto a lungo vive
una rosa? Cos’è una rosa? Chi venne in primavere
a tendere i serici fili della luce?
Fu d’aurore la tua carne,
grano tessile di vene aperte nella terra.
In quel nido di sarta, fra piume avare, stoffe
di ingenti alfabeti – rosa e alba…
Eppure l’alba disperde le sue rose,
a tenere piaghe nelle epifanie del sangue.
Ebbi, da bambino, qualcosa da rubarti.
Faranno un sospiro i gerani, e gli uomini
diverranno pietra,
ami di prodigiosa pesca. L’ago
del cuore punta oriente. Tu grida forte,
quando sarai pronta, mettiti in cammino.

 

 

LE ALLEGRIE DEL VINO
I passanti

 

La Maestra è una sarta magistrale.
Cuce le vele per i pirati.
E i vestiti alle bambole del vicinato
coi panni da lavoro del marito
a cui non imbastisce un abito o intavola il piatto.
Quando ha finito si beve un vermut
tra amiche. E se ne va al cinema
con le sue miserie.
Ma ciò in cui non vuole
infilare l’ago è la sua lingua lacerata
dall’infamia del suo canto,
che in realtà è un cicaleccio nella grondaia.

 

 

Il custode del camposanto è gravemente malato.
Anche se il cardiologo dice che è tutto a posto,
si vede da un miglio che il suo cuore è una pietra.
E forse ha un figlio rinchiuso in cantina
che nutre con i garofani sulle tombe.
Il suo sangue ristagna nel basso ventre.
E si contorce per le coliche,
ma è solo mancanza di una carezza.
Pare un ectoplasma. Lo chiamano Sgranaossi,
che se lo vedi, lo capisci al volo che mestiere fa,
senza che ti mostri la vanga e la sua catena.

 

 

LA ROSA ROSA

 

Lasciami scorrere nelle pareti, cardine
d’estate, o come il colibrì in fiamme
sulla tua lingua, la notte che portava in dote
i nostri figli. Non ho da fare alcun testamento.
Per loro ho atteso accanto alle rime dei miei debiti
con la luce. Che facesse vino delle mie risme
l’estate di San Martino! Ma nei covi la musa
frustava i tuoi occhi guardiani all’oro sciocco dei poeti.
Mi diedi, invecchiando, alle carte degli ebbri, al lume acceso
di rive inascoltate. Ma neppure questa è la mia colpa.
Potevo cantarti nella carne, per ciò che fu
della rima Elia – poesia. O il credere che sul fondo
i demoni si battano sempre con la luce,
nella paranza in cui molti cadono degli uomini.
Che i figli superano i padri, soltanto soffrendo.
Il non aver fiducia che un simbolo d’astri venisse
un giorno a sperdersi fra le travi, per sollevare il tuo male
che sai infinito. E che ha nome in Dio.

È inutile gareggiare con il telaio della notte.
Moltiplicarsi in stanze buie, dove l’assenza
è l’unica che alberga negli spazi.
Più tenebra, o goccia di lanterna nelle sere?
Un solo pulsante teorema: la fiamma cantare,
il drappo spregiudicato del tuo dramma
nella singola battuta.
Duello. Amico, caro: morte!
Nulla resta, che nulla ci ostacola
agli eterni palpiti dell’usignolo.

 

I REGISTRI DI MARCEL
(a C. B.)

 

Torni l’agile cantare. Torni il segreto
che famelici ci tenne in seno
a giorni di innumerevole prodigio.
Salga in misure d’orzo
la canzone dal cuore nero.
Salga in misura di chitarra
la canzone imminente.
E tu, poeta, angelo senza sguardo,
scagliala lontano.
La parola è dentro il tuo moschetto di piuma.
Tu, brigante di armonia, dalle per cuore
un tamburo, dalle per cuore una campana!

 

 

Le tue parole alle mie mani
aprono strade di canzoni.
intessono sandali di corda,
per il dedalo assurdo del giorno,
a un passo di rotta, per la dignità di esistere –
polvere e vento. È lì che ti vedo, a un varco,
come aspettassi un figlio pronunciare il primo
bacio perché neghi per sempre il nome dei tuoi seni.
Le tue parole, olio di visioni contro il morso di cuoio,
vile alla mia coscia: è il silenzio di ogni poeta.
Anima, ginepro di partitura: musica
sorgiva alle tue dita, maestra…
Ho comprato una cetra di crine
che la mia voce la spezzi,
un sol tocco. Insieme alla giara
delle notti, dove non c’è
un canto a blandire la mia sorte.

 

 

Elia Belculfiné, nato a Caserta il 29 – 9 – 83
Vive a Cascano. Nel 2012 ha pubblicato per Aletti la silloge “Primi sintomi di una gravidanza”.
Sempre per Aletti è apparso nel saggio “Verso la poesia – Alla ricerca di senso” di Maria Carmen Lama.

Elia Belculfinè

7 marzo 2020

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Oh, ma io ti troverò!

Dove va la mia vita se non ha più ali, e seta di suono,
il vento di libeccio. Se l’albero è rotto e la parola non naviga a vela…
Avessi almeno un cavallo puro, un baio simbolo di fuga…
Allora io sarei pago, e tu diresti sul ricamo della mia morte – costui Visse –
Ma ho soltanto i miei fogli, onde elemosinare un brandello di sole…
Solo i fogli sui fogli sui fogli per decorare la lettera d’amore del mio inferno.
Madre, sorgente del mio sangue,
vita battuta fra i porti e i ruscelli, dove sei, dove, vita mia?
Sei qui? Nella lama tonda della ragione?
Nel filo della terra tosata dalle danze dei cavalieri?
Sei qui, nella chiesa posata sulla punta di un fuso?
No, non ci sei. E io mi tormento. Forse – lì? No, neppure.
                    
                    
                       
Il cortile

Nel cortile del palazzo Saraceni
c’è ancora un’ancora fumante, tesoro di mari mai percorsi.
Nel cortile c’è un tavolo coperto con un vello di raso.
Era la vela di una strana imbarcazione, su cui nessuno potette salire;
ha il dono, nello sfiorarlo, di proteggere il cammino di chi stia per mettersi in viaggio.
Sotto il glicine del palazzo c’è una scarpa intrisa di sale che il figlio del padrone
non fece mai in tempo a calzare. E sui tetti passano le rondini.
Le rondini volano in tutti i versi, cincischiando l’aria come una stoffa di fuoco…
imbucandosi negli squarci a cielo aperto come lettere d’amore
che nessuno vuol ricevere.
Le mie rondini di trenta primavere in cui ho sognato porti nuovi, nuovi amori e speranze.
*
Come il cortile abbandonato da anni è il mio cuore.
Il mio cuore è un porto che non ho mai lasciato.
                    
                    
                       

Helena

Poi, ogni cosa marcì, – anche i suoi capelli
che invitarono la discordia di una dea…
a trame, a inganni che la divertivano, quando, in giro,
da fare, poi, non è che ci fosse molto.
Il ricamo e i giochi nel grano non l’avevano mai presa…
E le lezioni di clavicembalo, in una stanza buia, senza una finestra
o un cenno di resa dell’orologio.
Rame incandescente, fino alla piega dei pantaloni alla zuava.
Una treccia o una cipolla, o sciolti lungo il taglio di lama del vento. E pure mancina.
Me era felice. E non perché aveva piegato l’Olimpo alle sue voglie…
Né per le attenzioni dei rampolli che tentarono di rinchiuderla in torri, galee, prigioni.
– La chienne au bois dormant –
Questo la annoiava. Neppure mai attese l’amore – noia noia noia…
Io sono fuggevole, e l’amore è noiosamente eterno.
Io sono un sirtaki, E dio è un cardine fisso, dio ce ne scampi…
Era felice che tutto marcisse. Anche la sua bocca, che però ancora
cantava, che però ancora baciava teneramente. Fin sotto alla pianta dei piedi…
Che tutto, splendidamente marcisse. Le doriche e i basalti, e le spighe nei suoi occhi
verdi come il veleno più mortale di cui si possa disporre… Le sue scarpe, i suoi guanti di vellutino.
Poiché ogni cosa, sì, un giorno, era stata fiore nuovo e profumo e sangue leggero.
Quanti possono affermare lo stesso?
Potevo io aspirare all’immortalità? Siamo seri!
E allora datemi un vento blasfemo, un volo di rondini a sera, disse, in cui io possa sperperare la mia anima.
Datemi un cuore scevro dei sandali. Una dinamo impazzita,
Una girandola, Datemi la clessidra incrinata che indora il maggese.
                    
                    
                       

Vivere?

Non c’è vita in questi occhi.
Queste mani – queste mie mani sono carri di neve.
E i tuoi capelli come fili di rame…
raccontano la favola nera del mattino cercato
per credere in dio, per simulare l’Esodo vivo del sangue,
fino a questa fortuna di porti, fra le nubi cave di febbraio
che sfiorano le tue labbra e la mia miseria di creatura sola.
A lucidare gli stemmi inutili dell’animo umano.
A offrire la strenna della bellezza nera, nera, nera…
Le tue caviglie, prive di sonagli, ricordano
la morte, in una danza antica, la vita… che ci impegnò
per la parte migliore del tempo.
Non c’è poesia stamani.
E il sole è alto sui ponti delle navi,
asciuga il bucato steso sui fili della pena incantevole di chi vive. C’è
solo il vento che scompiglia il prato.
E due ragazzi che giocano a rincorrersi nell’erica;
non si chiedono che ne sarà di loro. Sciocchi. La vita li colpirà all’improvviso.
Presto, oh, presto, Giulio, Francesco, voi perderete
per sempre perderete
le corse nell’erica, il vento leggero che riassetta il prato come un lenzuolo incandescente,
i piedi nudi sulle braci della giovinezza.
C’è il sole, sì, e una allegria colpevole – L’esistenza sopravvalutata.
Anche l’amore significa poco. Non c’è poesia, stamani.
                    
                    
                       

Ho bisogno di poesia,
per vincere sulla morte,
ma i poeti non possono morire,
proprio come gli altri uomini,
come non muore questo vento fra i salici
questo piccolo scricciolo in gabbia
che è il mio cuore.
ho bisogno di desiderio
e che urli
fuori dal pozzo della notte
per parlare d’amore a mio figlio,
perchè mio figlio mi insegni l’amore,
ho bisogno di speranze vaghe
gettate alle pietre
perchè tu possa innalzare il nome di dio
sopra questa fanfara di maschere entusiaste
che circondano il simbolo di un diamante
ho bisogno che mi chiami poeta,
più che esserlo davvero
perchè una lenta fiducia può sollevare il mondo
dal prezzo folle
di infinito balocco
di mondo,
che tu creda
che la poesia è un grande
miracolo
e che può accadere a chiunque,
_ nuda miniera di uno sguardo_
perchè io possa creare
una stella danzante.
                    
                    
                       

Assurdi equilibri

I monti sulla terra antica? Troppo alti.
Non possiamo scalarli. Le strade del paese innevato
troppo intricate – potremmo perderci
per sempre.
E l’amore un gioco mortale,
per viverlo dovremmo
rinunciare alle nostre eternità.
Allora, scaliamo i monti, perdiamoci, amiamoci,
ignoriamo la morte come l’erica
e le campane…

*
Io ti ho rivelato l’anima, nella danza
del mio sangue sorgente
in cui germoglia un dio illogico che si chiama Amore…
Prima asceta della pazzia ubriaca,
la mia carne era un gemito…
Ma il mio vino canoro impoveriva gli arazzi
nei tuoi occhi
facendone zerbini chiusi entro una fortuna di parole. Cosi in mille di loro t’hanno calpestato.
Mi spiace. Più che porgerti una mano?
Si, mostrarti una strada, un canto
netto di poesia.
Guardami, sono un giubilo dolce di passato.
Approda sul mio saluto (tu sei una nave), oh sillaba,
sull’alba silvestre novella.
L’urlo del mio confine chiama te Amore
che non ho mai conosciuto…
                    
                    
                       

Si va

Il dolore della rosa esultava.
La poesia affascinò la notte, e nella tempesta
le calendule tremarono con il pianto.
Ogni volta provo un’allegria acuminata;
– madida di grazia è la pazzia,
brandisce la falce, si prepara alle messi.
Tre violini infuocati infiammano la trinità…
Tu celebri la vita, vendendo il tuo suicidio da una stanza caritatevole.
Le torri si piegano, i figli giungono a baciare la terra; un tempo
amavamo lo stallo del lago, libellule, le parole fumanti, sollevate via…
i cestini con il pasto. Pronti per essere decantati i versi, delibando un binario
che non sarebbe mai finito.
Il luogo della notte è abitato da cani randagi – lascia loro l’osso della rivoluzione…
Chi ti conosce fruga tra i noccioli in cerca della tua carogna.
Saldare il cielo fra le canne mute della felicità, interpretare la fine dell’estate.
Credere, voler credere, fermarsi innanzi alla veranda, fra le stelle del viaggio,
oltre il cimitero della neve.
L’immagine dell’assenza si quieta sull’erbe.
Il macellaio mi offre lingua e fegato – scelgo il fegato, Giuseppe…
I carri del sole procedono sino al confine della città.
Su uno di essi viaggia un giullare potente, un arabesco chiamato – Poesia.
Incidere di lame – prestigiose cose senz’anima
Stanno tirando su le nostre case dal fango. Guarda – camminano i santi nell’ultimità del giorno…
Le cantine si rivoltano contro il cielo.
Giunge alla riva il poeta segretamente.
Si va.
                                       
                           
                         
                             

Io non lo so quanto vale il ferro, quanto il piombo, un giardino
un respiro, perché io, sì, sono
gente come me”

(Elia Belculfinè)

Elia Belculfinè

10 dicembre 2017

Riproposte

 

https://giardinodeipoeti.wordpress.com/2012/01/18/elia-belculfine/

 

Elia

 

Elia Belculfinè

7 Maggio 2016
                             
                                   
Serial Killer
                      
                              
un uomo mi ha spogliato e mi ha
cavato gli occhi
sono preoccupato perché ora saprà che erano gli occhi
di un altro… uno dei paia che tengo nel comodino
per non sciupare i miei.
sono una specie di maniaco.
un uomo mi ha rubato un paio di occhi
al caffè grande sull’appia
domenica 6 marzo 2016 ore 23 43
un giorno strappato a una pentatonica in la. Il tizio
un pederasta di certo dal modo in cui tiene il microfono
buon padre di famiglia, magari allergico ai semi di
girasole_
ci fa giocare al karaoke mentre sfilano le nuvole
là fuori sopra ai campi dei peschi
come su una passerella_
là fuori, una volta ci sono stato_ tu puoi dire lo stesso?
come farò senza i miei occhi?
mi toccherà andare là fuori di nuovo!
e stasera ho voglia soltanto di essere qui, qui dentro, con la pancia
piena e le orecchie sintonizzate sulla fine del mondo.
30 mila persone cantano i giardini di marzo
di lucio battisti
ora in questa stanza bianca lunga 20 kilometri e altri 20 di distanza
dal mediterraneo_
e un ragazzo in carrozzina chiede a me_ ma non
sa che lo chiede a me_
Il senso di una vita avventata_
non so risponderti_ ma mi piacciono
i tuoi occhi_ ti va di fumare una sigaretta
con me – lì – fuori?
*
31mila persone che cantano
e alla fine anche io canto_ continuai a camminare
lasciandoti attrice di ieri _al nord, lì da dove vengo, si portano colori
vivi.__e un angelo si bagna le labbra
nella sambuca_
e la sedia di vimini cigola_ ho messo su peso_
e le persone continuano a cantare, 30.00o di loro qui dentro_
identici uguali a me e a te.
non ho mai visto un luogo più deserto sulla terra
…ho abitato in caserme… terzi piani… camposanti…
chiuso in questo margine di buio strillante_
brillante. un brillante strillante_
Altro qui

Elia Belculfinè

14 Maggio 2015

Alchìmia Alchermès

 

I
Un epistolario                                      di Melville
Ritrovato in una basilica benedettina.
Svolgevo i miei studi
sulla relazione fra
il tempo meccanico e lo spazio
Lessi di un seguito al suo Moby Dick – perduto –
Le conservo gelosamente, fino ad ora
non ne avevo fatto parola.

Una bozza-
La balena ______catturata__in fine.
“a me le ossa, a me
il grasso”
Non volli credervi. Bruciai tutti i miei testi raccolti in anni di sete errabonda. L’attesa è solo un attimo prima di essere felici, non
esiste altro motivo
che giustifichi un ristagno sotto i cieli verdi – e le parole sono gli specchi _traversati da Alice, confluiti in questo tropo insulso: il trattenersi,
l’essere nudi contro la didattica delle

fo_r_m_e.

*Non sono uomo ma posso umanizzarmi.
Non sono pazzo ma per cinque minuti al
giorno indosso le vesti di giullare
senza il permesso della contea, studi che mi
comprovino i sonagli.

Né le mie vene hanno il sangue blu degli schiavi
bambini. _________ Ma riportami i fulcri della grande luce.

II
Ho avuto molti amanti
Alcuni di loro dai capelli azzurri di Pierrot
Altri tentarono
Di vedere la mia bellezza, li maledissi per sempre, ma nelle notti
                                                                                           senza lume
evoco ogni amore irragionevole,
Attraverso i mari dell’indifferenza,
e mi inabisso
nel mio mietuto igneo che è il cibo dei poeti
E dei trovatori.

III
Osservo la sua danza, mia sorella la notte,
stelle guizzo d’acciughe fra le varie modulazioni della frequenza pensiero
Non sono mai uscito
Dal centro di igiene mentale.
Il piccolo chiostro
Su cui gli infermieri spalancano le finestre
Piene di impronte digitali
Tutte uguali.

IV

Né oggi né per quello che chiami domani,
io benderò la supernova rossa del mio respiro, lo stesso vale per il tuo. Ma lasciate che sia
                         come uno scricciolo fra
Gli arcolai del
rovo, lasciate che dall’alto
del mio albero io canti il mio
poema di gioia.

– Picchiettio di piedi scalzi. Crepitio di fanali –
E ancora
                                     mi duole che _in questo
abito di seta io tanto cocciutamente sia
                                             corsa dietro a cento
                                                  cappelli rubati dal vento,

a tale amore __daltonico. Fischiante.
Quale ingenua, e dici
vantarmene – l’ insidia incessante __delle
mie __povere __carte.

Quante stelle in una chela
di granchio!

 

 

il blog di Elia

Elia Belculfinè

27 marzo 2015

Elia

ROBIN

1

 

                                                        Da dietro il suo triangolo

mistico, l’incerta voce arricciolante –

passa i piatti con la polenta,
batte con una candela accesa ruvidamente il rullante;
un nuovo dio è solo un motto.
La terra da pagare, la terra da fare supplica. Ogni volta quella pena

spigolosa negli occhi,  come
uscisse da
uno specchio fino a sbucare  nel salotto con il lampadario
di Murano e le poltroncine

rosse di velluto. Un centrotavola pieno di datteri
di cristallo a grappoli.

 

Diceva che sarebbe sempre stato
quello che sarebbe
potuto essere___________ il desiderio non durò che un attimo

Tanto a lungo trattenuti  i fuochi cadranno e scrosceranno giù lungo la grondaia.

insopportabile piuma dell’avere
i segni di un lento umido accoppiamento
con la propria forza.

___________

 

 

2

La Venere di Warhol scese con un cesto di papaveri

nel grembo, in quel mattino

di neon accesi sopra le incerate a fiori, e un mangianastri fra le mani, l’Om del pesce

rosso e gli elefanti comprati con tre sacchi di arachidi

nella legnaia. Bip!

Scese dal muro in cartongesso.

Mi confessò . sono una spacciatrice_______________________

riscrivendo quel suono sopra le mie squame

poi allunga la mano in un

sacchetto pieno di

 

occhi di serpente; toh,  dice questo è un regalo,

la prossima volta però me lo paghi.

 

Come credi possa permettermi un elefante?

______________________________________________________

In bilico fra equazione e disequazione, fra Saffo e Alceo

che per un ragazzo sono la stessa cosa.

________________________

 

3

________________________

 

Il Colosso di Rodi si sta polverizzando

giorno dopo giorno.

 

Gli scimpanzé hanno costruito cunicoli ovunque, dedali di rumore –

sarà difficile raggiungere il __Giordano

senza perdere qualche uomo.

 

Non siamo puri, non a questo giro di boa,

con il parabrezza ghiacciato

su cui raschiano i tergicristalli,

e i limoni nell’abitacolo, raccolti dalle mani

di qualche dea dell’amore.

 

Si va.

 

O Mari tranquilli, voglio una vela aperta come una finestra.

Ho bisogno che qualcuno mi battezzi

nel nome dell’uomo.

 

_________________________

_______________________________________________

_________________________

 

4

L’abate di Montecassino

per cinquemila euro

ti faceva entrare nella Fiat – Oh, Lili Marlene, conservo le uova

della tua ultima cova. L’abate scoperto e trasferito._________ davvero

umile e  pio e savio ——–

Mezzo insanguinato, dovevi proprio sputarlo

qui il tuo salva-denti?

 

*

Mia moglie era a un funerale:

Un oscuro uccello becca il grasso tra

l’oro dei cadaveri

 

Noi siamo i barbari . parola di Dio

staccando il prete il crocefisso dal rosario

di perle di fiume.­

 

Il crostaceo ha la corazza rosa e dura: un soldato giocattolo a cavallo

e incomincia a puzzare, <<gettalo nell’acqua appena bolle,
metti a candeggiare i piattini delle offerte____

Avremo ospiti a cena>>

 

Comico, davvero. Gente di mare di sponda

gente di sabbia

e di rabbia e di bibbia. Visitai un cimitero, strapiombo sul mare;

nella cappella c’era una panca che avrei

voluto rubare – O Francesca

O Laura,

O Beatrice

– Credo che ogni poeta ____________debba avere la faccia del

boxeur dopo l’incontro. D’esser solo e di solo poter dire.

Ero l’ultimo arrivato e mi toccò di mangiare

la polenta avanzata, fredda

 

dolente | nella serale __quiete. tamburo basco battuto

da una coda di lepre. Chi laverà___________

tutti i cucchiaini? Chi getterà queste ossa

di pterodattilo ai lupi?

 

 

Elia Belculfinè

18 gennaio 2012

Elia

                                   

La poesia di Elia è un ibrido di pensiero, eventi, sintesi fulminanti e piccoli particolari determinanti all’armonia totale nella quale tutto il suo essere fluisce. Egli ama la poesia come ama la sua donna e questa carnalità possente si percepisce benissimo: la notte “dolciastra” “scoppietta fra i denti”, sicché noi la assaporiamo e la sentiamo come un fuoco d’artificio che vive prepotentemente. I capelli della donna amata hanno i colori dell’olio nuovo, ecco, assumono corposità liquida giallo verdino: non si può davvero dire che qualcuno, prima di Elia, abbia usato tali aggettivi, metafore e mescolanze. Un modo poetico di porsi azzardatissimo, che nelle sue mani è semplice, ma soprattutto sovrabbondante, sicché una metafora ne genera altre e ancora altre, la sua poesia diventa infinita, non incomincia e non finisce: c’è ed è circolare.
“Come ogni donna tu ami con il sangue pieno”: l’innamorato trae una regola generale dal proprio caso particolare, se poi questa meraviglia sia vera o no è secondario, non gli interessa.
Volevo anche dire qualcosa anche sui suoi “a capo”. Per un poeta moderno, che si affida alla musicalità interiore piuttosto che alla metrica e rima esteriori, gli a capo sono fondamentali e mai casuali. Eppure quelli di Elia arrivano imprevisti, come se uno avesse parlato di seguito a lungo e alla fine, a caso, gli mancasse il respiro. Allora ecco lo spazio bianco, senza una regola, che lui non mette dopo il punto, ma riprendendo fiato quando non ne può più.
Per fiato intendo la sua pienezza poetica e la sua novità.
C’è una grande naturalezza espressiva, che viene da un pensiero poetico costante. Non si sente alcuna costruzione o sforzo creativo, che egli sorvola anche quando un pullulare di metafore emergenti l’una dall’altra dovrebbe creare una boscaglia, e invece qui c’è uno strano ordine disordinato, dove ogni parola si mescola senza unirsi del tutto, ma riemergendo in colori puri, prepotenti, caldi e intensamente umani.
Egli non teme di chiamare “amore” la sua donna, “venuta per resuscitare i morti”, e di esprimere anche il male della vita :”ed ogni cosa è aceto”. La sua poesia è da godere come una bevanda dai sapori confusi d’incanto non stridenti durante una giornata di caldo e di noia. Non è una poesia facile perché l’irrazionale e il razionale s’intersecano formando una strana linea di pensiero difficile da commentare, ma semplicissimo da assaporare. C’è anche un altro elemento che soltanto la grande poesia lascia: si rilegge e nuove sfumature rapiscono, sicché uno dice: ancora la miniera non è esplorata, il più e il meglio rimane nel fondo dell’iceberg.

Domenica Luise

 

                         

                        

.
Nemesi

Sto con la tua voce, adesso,
donna piena

di lemma.

Adesso è spazio, non è tempo, quello che non ho, neppure un granello ne ho piantato
in riva al mare. Ma una scusa vale l’altra.| E’ una notte dolciastra, attesa
da una vita, scoppietta fra i denti,
mentre pilucco preghiere
di cui non
ricordo la fine e mi rincresce di non avere
modo per invocare
una specie di pietà sensibile,
una rinuncia definitiva.
E’ mia nonna che me lo ha insegnato: tenere sempre in bocca qualcosa
mentre si prega, ma che sia piccolo, un tipo di isola
possibile.

Anche un chicco di riso può andar bene, quando mancano i simboli
e non resta che la stanza vuota, nemmeno il camposanto
di quell’estate a precipizio sul mare, e
i tuoi occhi scuri battuti dal vento
sopra una tolda ventosa,
pieni di relitti e di
aeroplani.

                                       

II

Sei coscienza,
sangue, e questo specchio lieve che mi unisce a ciò che è fuori.
E sei, e i tuoi occhi, ciò di cui

un uomo non ha paura, li ho conosciuti,
il sole era grato di
risplendere

fra i tuoi capelli quel giorno, almeno sembrava.
Hanno il colore dell’olio nuovo. La notte non è cieca qui, ti
vedo nei primi amori lavati con spazzola di ferro,
i primi, battezzati con la tempesta nel
cortile della

grande casa.

Tua madre raccoglieva la pioggia per le piante in una grossa tinozza azzur_
ra messa fra i gerani, e ti innamoravi di tutti questi
fantasmi, lo credo. Era il tuo sangue che
amava. Come ogni donna tu ami con
il sangue pieno.

E sperperi l’amore per il mondo.

Oggi sfioro
la tua luna. Tua perché tua

Tua perché hai pagato.
La sfioro con la piuma d’oca delle mie dita. No, non è una piuma!
è una cava di ardesia, perdio! ma la mente
è un albatro, questo è certo, e il corpo
si sfilaccia sempre più facilmente.
Pesa essere un figlio.

Ogni giorno, amore.

                     

III

Credo

di non aver mai sperato così forte, prima.
Credo molte cose. Credere una cosa non significa necessariamente escluderne un’altra.
Ma è così che un uomo diventa uno che se
ne intende

di cassette di sicurezza, di davanzali e spifferi,
dei desideri, della polvere che può intasare i polmoni;
andando per eliminazione, fino a una
specie di salvezza.

Mi hanno allenato
a morire, nient’altro mi

riesce meglio, sai?

Scassinare e scrivere.

Nonostante tutti i discorsi sul vento e le rane e il fatto che a un ladro non si paga
la vecchiaia. Ci vorrebbe una domanda adesso, su questo
specchio d’acqua di neve sciolta
fra i pioppi,
un quiz a sorpresa come sui banchi
e non ho nulla da

chiedere. Nemmeno so il tuo nome e se sei una.
Ma sento crescere in me la parola,
proprio ieri invocavo
un caos irreparabile,
come deve sembrarti una lacrima usata per
gioire. Per essere felici soltanto
Perché impazzisco sempre più spesso negli ultimi tempi –

Un demonio lo si trova per ognuno ed ha una sola voce.
Non vuoi proprio dormire con me?
Scrivo ogni cosa aperta a pochissimi fiumi,
non compatto – io – e bestemmiando sul fondo del bicchiere
Perché è lì, nel convivio, che
è scritto il nome del
poeta.

                             

IV

I tuoi occhi staranno senza eccezione
fra i teatri più animosi della luce, li vedo già coperti da lenti scure
Non si parlerà di

risurrezione senza scrivere in calce
la parola malleveria, senza associare il tuo respiro a
qualche grossa banca.
Vendono le nostre mani nel mercato
in piazza, amore.
E giro con la moneta del sole fra le dita
non è poi così calda, sai?
Ma fa ribollire il
sangue

Ed ogni cosa è aceto. Fresco contro l’arsura delle arroganze.
So che guardi costeggiando questo mezzo buio su poche
vecchie cose portate da amici
che non vedo da anni

so che guardi e stendi il velo della bellezza senza che firmi in cambio nes
sun assegno e il mio animo sobbalza quando ti siedi e
stranamente la sedia non diventa
un trono.

Ma ti accoglie come accoglierebbe chiunque.
Non ne so costruire

E’ di questo che mi vergogno, perché cerchi la sosta, ed io qualcosa
da non finire. Continuerò a contare le cose che non
sono accadute, cose andate in malora per via
di certe parole.

I balconi lasciati alle pietre, alle erbacce.
Ma il mio cuore è un’isola
incantevole, ogni infarto da poco lo ha fatto –
non ci sono tesori al mondo, amore.
L’anima è aria, desiderio.

E anche gli ultimi smetteranno
di parlare.

                             

                          

                                   

Novembre

Lo scenario – il tuo
sangue incrinato – la coppa di una grande divinità indiana – la tua
terra – la moltitudine nei bar sovraffollati, la sera prima della
grande festa – Vino, eternit
Rituali e tramonti: il

Titolo è della poesia

di Vittorio, e inforchi il tuo arcobaleno perché le
strade qui da fare a piedi
lasciano piccole

vesciche nella suola delle scarpe. Bmx. In fin dei conti
sei cresciuta guardando il meteo sul terzo
canale, guerre stellari,

come premio per il buon contegno. Sbuffando
per un riflusso della bile,
ingoiato l’ultimo

boccone.

                               

II

Il testo. Risicato, preso da una locandina

della sagra del borgo medievale –
banda popolare, i
fagioli

bolliti in un trogolo di cotto.Sostenuto – primadonna – tu che piagnucoli, ma è gioia, nel vedere
che tuo nonno Vincenzo ha un posto davvero accogliente,
su al cimitero vecchio, nella
cappella di San Felice.

Perché chiedere un sorso d’acqua?
Su questo avrei da ridire,
amore mio.

Il mio, di nonno? Mi ciba da anni – resoconti
– anitre selvatiche –

marchiati a fiamma ossidrica nella mani di mia madre. Come
aprire un lunario rubato di sottecchi
al tempio
al centro del giardino, fresco: l’albero mzimu, un abete di 30’anni,
in cui
si incarnano gli spiriti dei miei gatti – ne ero certo, qualche
anno avanti – E’ da qui che dobbiamo ripartire.
Staccare il frutto prima

che sia maturo,

III

bagnarci la lingua nell’acqua di scolo dei Poeti, ora che il giorno lo
scagli nel fiume della fontana, sasso dopo sasso. Deve
venire la gioia, sollevando le cortine da
sopra agli occhi
confusi: quello che tu hai cercato,

quando la follia spuntava cocente nell’animo illogico:
un filo d’erba che spacca la zolla,
muto

e intralcia le normali faccende dei morti: punti, sanguinano
e cadono in polvere.

Lasciatemi dormire – la sala vuota,
qui, dietro la coulisse
del mondo –

non ufficiale. Generico.
Doppio.

                           

IV

Con la sola luce dell’ora di pranzo. Levata in alto, aerea, la cantilena
dei forasiepe tra i castagni di quest’estate, camminavamo
tra gli alberi e i pali del telefono,
nudi come solo

gli innamorati possono essere,
ci sgolavamo giù per il fosso:

l’insostenibile bascula dei pensieri. – Una danzatrice
del ventre, occhi pieni
di insegne tutto esaurito, in qualche
trattoria, simbolica:

coreografia;

donna maestosa, dea del minuto e
dell’ora viva.

Zoppica, vestita di tulle rosso. Ha i tuoi stessi occhi feriti come
una colomba, il tuo fiato che si squaglia
nell’acquasantiera.

Sei venuta per recitare la parte dell’Imperatrice.
Selvatica. Sorpresa mentre
sollevi la mano

contro i tendini della luce gelata. Sei venuta.
per risuscitare

i morti.

                         

                                            
Piccolitudini

#8
Luna calante
Si incendiano le orbite dei versi;
luna crescente.

#9
Le mani fredde.
Cosa bolle sul fuoco?_ Un
rollio di culle.

#10
Ora mi sveglio.
Trent’anni ho vissuto
Acqua chiara.

#11
Crepita il tempo;
ho scritto lettere piene d’amore.
La forma di antilope.

#12
Siamo in 2. La rosa
e la forbice. Un giardino
pensile.

#13
Spacco una mela. Non avevo mai avuto
così freddo. Scrivo a una
vecchia fidanzata.

Mi chiamo Elia Belculfinè. Sono nato a Caserta il 29 settembre di qualche anno fa. Scrivo poesie da prima di quella data (mi pare altissimo dirlo, ma non mi prendo molto sul serio, a dire il vero).
Abito a Caserta con la mia compagna.
Elia

il blog di Elia Belculfinè