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Enrico De Lea

11 aprile 2018

riproposte

 

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Enrico De Lea

21 marzo 2013

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Rune che trascendono il tempo: le poesie claustrali di Enrico De Lea

Le poesie di De Lea sfidano l’adagio secondo il quale dovremmo, nel leggere poesia, porci in sintonia con una presunta o percepibile personalità del loro autore. Il fatto è che queste poesie rifiutano integralmente la vulgata – ormai assiomatica – secondo la quale la poesia è espressione di sé in senso storico o psicologico: prodotto, probabilmente, dell’individualismo ottocentesco accolto e fatto proprio dal romanticismo in avanti. L’annullamento dell’io non corrisponde nemmeno al suo riassorbimento in una società di cui si è parte integrale, come nel Settecento; né si avvale di tecniche procedurali e meccaniche care alle avanguardie novecentesche.

Niente di tutto questo. Vero è che l’atmosfera spesso cupa, apocalittica e claustrale di questi versi («tra un sansilvestro dormiente e l’accordo / unanime dell’apocalisse dell’anno nuovo…», la cura del mondo) fa pensare a un nuovo barocco, all’allarme di una nuova fine; fa forse pensare a un Milton per come è ripreso da un Geoffrey Hill, o un Tasso riattualizzato da Franco Fortini, o anche il Montale arroccato della Bufera (d’altronde il sintagma «specchio ustorio» e il termine «sfrigolio» usati da Montale fanno da intertesto, cioè sono ripresi, nella poesia (per verba)).

A differenza di Montale o Hill non c’è tuttavia nessuna eroicità del soggetto poetante; non c’è, anzi, proprio nessun soggetto poetante in questi versi che – incisi come su tavolette d’argilla, con lettere più simili a rune o geroglifici – sembrano essere diventati indipendenti dal proprio autore, che sì le modella con quasi ossessiva padronanza  formale, ma annullando sé e il mondo nella staticità araldica, estranea, che le caratterizza. Sono suggestioni sonore e visive captate in forma frammentaria, tessere di un mosaico di là da venire.

A monte c’è, mi sembra, una fortissima tensione alla trascendenza di sé e del proprio tempo. Della trascendenza di sé ho già detto: nessuna traccia biografica, nessun alter-ego che dell’autore faccia le veci, nessuna incrinatura sentimentale. La trascendenza del tempo è perseguita in vari modi: anzitutto, a livello linguistico nell’uso abbondante ed esibito di arcaismi lessicali (efebo, corte, stromento, nullo, favella, ivi, lasso…) e sintattici (per es. inversioni e iperbati: «Se d’un virile sgomento / ciba la corda») assunti senza nessuna intenzione ironica o parodistica – filtri incompatibili con la severità ascetica di questi testi -; siamo insomma di fronte a una «lingua morta» che ha fortissimo potere di straniamento nell’era dei media.  Il tempo viene trasceso però anche evitando ogni obliquo riferimento alla realtà contemporanea: nessuna descrizione d’interni intimi, nessuna concessione a quella che altrove, negli epigoni della Linea Lombarda, sta diventando una retorica del quotidiano.

A dire il vero gli interni ci sono: parlano di separatezza, clausura (il «castrum», la «celletta del monaco / Orfeo», le «scale» di (assolo) e (la cura del mondo)) ma non possiamo abitarli perché anch’essi vengono solo accennati, impedendo a ogni contesto unitario di emergere. Oltreché ellittici sono, in un certo senso, bidimensionali, immediatamente simbolici: è come se, trasponendo all’arte figurativa, De Lea recuperasse polemicamente (ma la polemica non è nel testo: nella scelta a monte, piuttosto) le pale d’altare del duecento, rifiutando sia la figurazione diretta sia l’astrazione. Ciò che invece si recupera è la prassi del mestiere, dell’attenta orditura fonetica presente in tutti i testi (un paio di esempi quasi a caso: «la coRda l’aRco lo stRomento» e «ToRTo alla TRaccia, all’aRTe») e tendente al pietroso, all’aspro, al virile, in corrispondenza con il dettato e con gli scenari di reclusione virtuosa tratteggiati.

L’insistenza sul valore archetipico dei referenti è evidente, a livello linguistico, nell’uso preferenziale per l’articolo determinativo (lo stromento, la favella, il mutilo signore, la sorgente delle selci, il frutto lasso, ecc.) o, più spinto ancora, nell’ellissi dell’articolo tout-court di marca ermetica (Credenza dei clarini, emporio, archetipo, ecc., con effetto quasi vocativo). Mentre il debito, anche linguistico, nei confronti della tradizione ermetica e il recupero del trobar clus è stato giustamente evidenziato da Federico Francucci, non mi pare che sia stata messa abbastanza in luce l’appartenenza di questa poesia a un filone denominato «archaeo-poetry» da Brian McHale (2004): filone modernista che comprende Geoffrey Hill (specialmente i Mercian Hymns) oppure, da noi, il medievalismo di Enzo Fabiani messo in luce da Mauro Ferrari. Tuttavia, se in Hill la storia medievale è riportata nel presente con intenzioni ironiche e polemiche, qui anche i numerosi riferimenti medievali (il castrum, le posterule…) partecipano – insieme alle suggestioni orientali dell’emporio o mitiche di Orfeo – a un’indeterminatezza che non ha niente della ricostruzione storica: si trascende non solo la storia presente, ma anche quella passata.

Infine, sempre a proposito di trascendenza – che è implicita, che non assume mai le forme di un desiderio espresso né meno che mai di una posa – non è forse un caso che il primo testo (assolo), sottolinei l’immaterialità della musica legata alla religione («Credenza dei clarini») quanto allusioni ai cicli geologici («erosione dei tocchi / d’ossidiana»): entrambi al di là del tempo, al di là del soggetto. Come acutamente scrive Michele Ortore, quella di De Lea diventa la «metafisica di una poesia che sa e vuole rimanere ignota, come ci è ignota l’essenza del calcare e dell’arenaria».

 

Davide Castiglione

 

 

***

(assolo)

 

Credenza dei clarini,

erosione dei tocchi

d’ossidiana.

Solerte elevandosi ai gelsi

proruppe in scale ai dirupi,

con quale dimestichezza l’efebo

delle sue argille.

 

 

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(castrum)

 

Provvisto di torri, cammini di ronda e posterule,

l’abitato consiste d’una corte lastricata,

siccome baldacchino vi è coperto un vano,

con un piccolo altare per il sacrificio…

 

 

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(tua voce)

Se d’un virile sgomento

ciba la corda l’arco lo stromento,

strazia la gola

dissecca la favella.

 

 

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(altr’ove)

 

Con l’orecchio al mercato levantino

risuona emporio, dove echeggia

accadico, alibi della radice,

dell’amara pastura dell’agire.

 

 

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(mito del vallone)

 

Nullo consorzio, il mutilo signore dei cippi

dimentica il legno del ponte, la sorgente

delle felci e il serro dell’origano.

Qui non s’arrende il disertore Diego.

 

 

***

(scritturale degli ori)

 

Celletta del monaco

Orfeo, ivi s’aggruma

melico il candore

del corpo lasso,

della parola offesa,

passione per tortora e sparviero –

o pertinenza alla catena buia.

 

 

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(minor Minoxes)

 

Il frutto lasso della dama,

dedalo del mugghiare,

raspa col corno

un talamo di pietra.

Torto alla traccia, all’arte

del solstizio, scopre

nel pugno

la chiave rugginosa.

 

 

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(per verba)

 

Sfrigolio della passione ustoria,

si scherma dallo specchio, copre

ogni acqua – è serpe di Laconia,

magistero del taglio nell’icona.

 

 

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(la furia refurtiva)

 

La furia refurtiva

archetipo discorre, lo riscuote

muto bronzo dell’epoca,

tonante, tinnante, sempre

per manufatte lastricate

strade in pietra d’avi,

nell’infanzia del morente

si consolida, l’orante.

 

 

***

(la cura del mondo)

…l’infero di quell’ombra, tutta padre, intenta

a leggere al lume d’olio la cura del mondo

come una bagattella imprecisata, un salto

di bambino, dietro la scala in legno

tra un piano e il superiore, ed in silenzio –

il silenzio dell’intero Zorio – tra uno scalino, il primo

che tocca il cotto, e l’ultimo, che rinnova

la vista della collina e dell’antico mare,

tra un sansilvestro dormiente e l’accordo

unanime dell’apocalisse dell’annonuovo…

 

 

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Enrico De Lea (1958) dal 1988 vive nell’alto-milanese, originario di quell’area della Sicilia tra Messina e la Valle d’Agrò (in particolare Casalvecchio Siculo), a nord del taorminese.
Pubblica nel 1992 la raccolta Pause (Edizioni del Leone) e nel 2009 la raccolta Ruderi del Tauro (L’Arcolaio Editore, Finalista al Premio Lorenzo Montano 2010 – Verona).
Suoi inediti sono stati premiati al Premio Poesia di Strada 2010 (Macerata – Festival Licenze Poetiche), dove è stato finalista nel 2011.
Con una raccolta inedita è stato finalista al Premio Miosotis 2010 – Edizioni d’IF – Napoli.
Nel 2011 è stato, altresì, finalista al Premio Lorenzo Montano 2011 – Verona, con la raccolta inedita “La furia refurtiva”.

Suoi testi sono apparsi sulle riviste Specchio (de La Stampa), Sud, Atelier (su cui è stata anticipata Acque reali, poi sezione di Ruderi del Tauro); in rete, suoi testi sono apparsi su La poesia e lo spirito (di cui è collaboratore), su Rebstein – La dimora del tempo sospeso, Nazione Indiana, Compitu re vivi, Imperfetta Ellisse, Clepsydraedizioni, Mutter Courage, Filosofi per caso.

Il suo blog da presso e nei dintorni raccoglie parte della sua produzione.