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Enzo Campi

1 ottobre 2012

Due gli aspetti caratterizzanti la poesia di Enzo Campi: uno è senza dubbio l’alto tasso di concentrazione lirica, accompagnata da un linguaggio sorvegliatissimo, talora prezioso, a registrare narrazioni intense, eccezionali, veri lampi di intuizione; l’altro il sentire filosofico, di cui il linguaggio reca diffusamente tracce iniziatiche.
Tale binomio realizza una tessitura complessa, di non immediata fruizione, che accoglie la tradizione aulica e iperletteraria, ma anche il gusto per il gioco di parole, le ripetizioni, gli accostamenti dettati da suggestioni foniche: perché è convinzione di Enzo Campi che la poesia non possa e non debba abdicare alla sua rilevanza e differenza, mentre parrebbe, questa, la pratica più diffusa attualmente.*
Un tratto significativo (che credo ci si debba attendere sempre dalla poesia, quando essa è tale, mi si perdonerà l’ovvietà della sottolineatura) è la sua inclinazione al negativo. La negatività assume svariate forme nella parola poetica: o perché essa parla del male, o perché descrive assenze, perché tenta di ridare vita alle cose morte, o, al contrario, perché parla di cose che ancora non ci sono. In ognuno di questi casi, e altri possono darsi alla stregua di questi, la cosa narrata ci disturba con il suo venirci in-contro, non in battere, ma in levare, non con la prevedibile sequenza di immagini e dati che conosciamo, ma con il dettaglio che irrompe e stravolge l’atteso. Come aderisce Enzo Campi a questa specie di ineludibili “ordini di scuderia”? Innanzitutto con un lessico elegante che cerca la parola desueta, ovvero incastona in un tessuto piano, mai colloquiale, il termine tecnico della filosofia, della linguistica, ma anche il vocabolo esatto, usuale, che subito acquista una rilevanza poetica (soprattutto se il lettore è pronto a cogliere la citazione: che non si presenta come certo facile e, talora, nauseante citazionismo postmodernista decotto, usurato; non è ammiccamento, ma attingimento classicista, verrebbe quasi da suggerire).
Alcuni esempi: affabulanti fraseggi, insipienza, gesto coatto, limo, forgiare, algida febbre (bell’ossimoro), simulacro, innervarsi, glossolalie, morendosi (che mi pare un riflessivo tutto filosofico), nerofumo (come non non ricordare Montale, Gli orecchini), ortivo, meteore semantiche, radura (mi piace pensare ad Heidegger e a Thomas Bernhard), abiurare, mimesi, coacervi, anelito aporetico
La negatività si esprime attraverso ossimori e vocaboli con il prefisso privativo in-: impronunciabili, inesprimibile, irrimediabilmente, indebita, inconosciuta (termine culto, rispetto a sconosciuta), inappartenenza; attraverso termini che evocano privazione, silenzio, ustione, caduta, errore: relitto, sprofondare, vampa, sfocato, evanescenza, tacita, silenti, malata, putrida, sadica, ostruire (sadica /pietra ancora si scaglia/ a fionda ostruendo/del limbo l’accesso: versi, questi, oltremodo notevoli); frequenti gli enjambements che separano ora il sintagma nominale, ora quello verbale smembrando sensi e ritmi e ricomponendoli, veicolando altri significati. Tra tutti i componimenti esaminati, spicca, da questo punto di vista, “si pensa come sapido”:

si pensa come sapido
ascesso non pretende
sferzate d’alloro né
lavici accadimenti
a rivalutare tuoni
silenti in minimi gesti
malamente mimati ma
soffia e sbuffa ciclici
crolli come dire ecce
e niente come a dire
da malata radice risale
putrida corteccia e sadica
pietra ancora si scaglia
a fionda ostruendo
del limbo l’accesso

circa il quale meritano attenzione il gioco fonico e il ritmo depistante come in pùtrida corteccia e sàdica/ pietra che vede i due aggettivi sdruccioli chiudersi ad anello su corteccia, mentre, in realtà, sadica è riferito a pietra, separato dall’inarcatura.
Una notazione del tutto personale, dacché cerco nei poeti, come un segugio, le possibili affiliazioni (Petrarca direbbe che ho ragione, poiché nessuno è “baco”, ma tutti i poeti sono “api”): Enzo Campi mi ricorda Franco Fortini e, un poco (più che altro nell’intenzione ri-vivificatrice, che non negli esiti, che sono tutti di Enzo Campi) Andrea Zanzotto.

*          “…si tende alla sola illustrazione, dimenticando così il “mezzo” attraverso il quale quelle illustrazioni si manifestano. In buona sostanza, l’attenzione al significato “facile-facile”, l’impegno civile e le varie cartoline di turno sono (quasi) sempre date in pasto senza prestare attenzione alla “scrittura”(da una nota preziosa dell’A. in http://rebstein.wordpress.com/2011/02/20/piccolo-alfabeto-del-malumore/#comments)

Lucia Tosi

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Ciò che sopravvive all’apocalisse è il relitto che anticipa l’avvento morendosi

Se pure scandita per lessemi
impronunciabili rinviene chiara
al lobo la sentenza che il coro
dissemina, da giorni, nell’intero
intorno: ciò che sopravvive
all’apocalisse è il relitto
che anticipa l’avvento morendosi

Per questo il viandante può approdare
solo naufragando e rivendicando
l’ascesa, la caduta, la sospensione
e gli affabulanti fraseggi in cui
montare e smontare la serie dei
feticci. Ecco, questo è l’aspetto
trascendentale del sacrificio.
E tutto si pone in attesa,
come se lo stallo fosse l’unico
escamotage capace di lenire il peso.
Certo, il coro aiuta non poco,
lavora di fino, con ago e ditale
e replica, puntuale, colpo
su colpo, vanificando le schegge
che tentano di travalicare
il rituale in cui annullarsi. Così,
tanto per recitare di getto la sterilità
del dato di fatto, che non si fa,
non si disfa mai da solo, ma rinnova
l’insipienza che regola il gesto coatto
di rendersi allo speco. E ad ogni passo
in avanti il viandante si volta indietro per
sbeffeggiare il passo che l’ha preceduto.
Così, non curandosi di ciò gli si para
dinanzi, inciampa nel sasso e imprime,
nel limo, lo stampo del suo corpo, poco
affine a qualsiasi declinazione temporale.
Questo è il verbo del tempo, una cosa
tra le cose, ripete fino allo sfinimento
il coro, e in un solo istante tutto diventa
labile e si forgia nell’evanescenza
di un soffio impossibilitato ad agire
e reagire. Così, a mezza via tra l’algida
febbre e lo spasmo contratto, quel viandante,
troppo umano per essere reale, si sovrappone
al simulacro, si sistema nella gabbia
e si pone all’ascolto di quell’irritante
brusio che recita la litania del passaggio.
Non disdegna il salto sul posto, ma non si
sposta neanche di un centimetro. E pure
s’interra, ogni volta di più, innervandosi
nello spasmo, come se la sua sola ed unica
preoccupazione fosse quella di sprofondare,
di stabilire un regime di prossimità con
quelle radici più volte ripudiate, non per
libera scelta, ma solo per quella tacita e
pacifica consuetudine che non può ridursi
alla mera ripetizione di ciò che può essere
verificato nel breve volgere di un battito
di ciglia. E anche il coro, in segno di lutto,
non può far altro che recitare il mea culpa
e osservare un minuto di religioso silenzio

Se pure sussurrata per oscure
glossolalie risuona chiara
al lobo la profezia che il coro
incide, da sempre, levando
lo scalpello: ciò che sopravvive
all’apocalisse è il relitto
che anticipa l’avvento morendosi

Per questo, forse, il viandante muore
solo scrivendosi. Del resto c’è
un solo humus da riplasmare, ma
sono infiniti i lapsus da perpetuare.

***

da Ligature (inedito, finalista Premio Montano 2012)

l’animale che ci sorprende
nudi e provoca il disagio
la voce la sola che possa
dire isola senza colpo ferire
la zattera che aspira alla
deriva il nerofumo che si
spaccia per vapore o nebbia
il punto ortivo a cui ogni
verbo vorrebbe tendere
la mano non sono mirabili
espedienti per restare al passo
ma solo meteore semantiche
attraverso cui farsi largo
per approdare nella radura
e rivendicare il diritto di
affiancarsi all’inesprimibile

*

solo libere andate
e reclusi ritorni
minima la pioggia
a colmare la crepa
sfocato residuo
che rigenera altro
dal necessario
e si svela l’incanto
nel simulato incarto
da cui esonda
l’infertile seme

*

si pensa come sapido
ascesso non pretende
sferzate d’alloro né
lavici accadimenti
a rivalutare tuoni
silenti in minimi gesti
malamente mimati ma
soffia e sbuffa ciclici
crolli come dire ecce
e niente come a dire
da malata radice risale
putrida corteccia e sadica
pietra ancora si scaglia
a fionda ostruendo
del limbo l’accesso

***

da Il verbaio – Dettati per (e)stasi a delinquere
(inedito, Terzo classificato Premio Giorgi 2010 – Finalista Premio Montano 2011)

prélude
(anesthésiant)

non ci sono chiavi più o meno adatte

per prima cosa lo spasmo
di pari passo con il tonfo
l’uno elettrico
l’altro sordo

poi la retina
irrimediabilmente
c i r c o n c i s a
dalla
luce

la latenza singhiozza
un baluginio di garbugli di voci

la latitanza favorisce
l’appropriazione indebita

*

angoisse d’une seule fin

come i residui di limo
avviluppino la fronda
rendendola sacra
è cosa ancora inconosciuta
e a nulla varrà
risalire la china a piedi nudi
se non a infittire le piaghe

anche il sangue reclama il suo verbo

vacua imago del solco
che tatua il derma
della cosa sovrana

*

pas mal

s’incava
come sabbia sotto l’unghia
la permanenza al senza
che imprime la sua firma
declinandosi nell’e v a n e s c e n z a

e quel neonato silenzio
che si configura
come antenato del senso
voltando le spalle
alle piaghe e ai germogli
muove il suo passo
verso il punto
che sfugge alla presa

*

passade

non c’è un velo
dietro il quale
nascondersi
e insieme offrirsi

tutto rinviene
al nucleo incandescente
che ha forgiato
la nostra labile
assenza

tutto procede
di vampa in vampa
e la mano
armata di mantice
è condannata da sempre
a riattizzare il fuoco

***

da Dei malnati fiori (Smasher, 2011)

Corifeo)

il simulacro mostra il relitto da cui è stato generato
e nella risata altisonante che abiura la parola
l’ingrato coro gioca col suono
cercando le figure di fuoco
che ancora sfuggono al loro destino di cenere

Coro delle Parche)

tabor labor

une maille a l’endroit et une maille à l’envers

*

non vale l’inesausto flusso solo
il presunto sunto qui prosciugato
assunto a dogma del magma
che fibrilla nelle fibre della firma
sempre mancata e rinviata ad altro
che è diverso da questo eppure
sopravvive agli attacchi rivendicando
le tracce sbiadite ma incise
a colpi di scalpello e preservate
nelle teche come rose messe in posa
e no non vale né sale
solo cade e decede al tempo
che non è l’adesso che non sarà il poi
e solo rivendicherà l’inappartenenza
a qualsiasi mimesi che non sia simulata
e silenziata nel gesto atavico che tutto
racchiude e amplifica perché il verbo
è distanza infinita e riproposta
di rose senza stelo e cose senza amore

*

si moltiplicano i coacervi
e lo sterco dilaga
mi dileguo dal puzzo
soffiando con tatto
l’anelito aporetico
del mio non sarò mai là
ma accetto
approvo
e non ricambio lo sputo
perché l’imbuto
tracima
l’umore ambrato
che abiura l’ambrosia
e aspira
al sangue versato

*

[…]

e la voce
che sventola lesta
l’appena accennato
soffio
sogna il patibolo
a differire

***

Enzo Campi

È nato a Caserta. Vive e lavora a Reggio Emilia.
Autore e regista teatrale. Video-maker indipendente. Critico, poeta, scrittore. È presente su riviste e in alcune antologie edite, tra gli altri, da Liminamentis, LietoColle, Bce Samiszdat.
È autore del saggio filosofico Chaos. Pesare-Pensare, scaricabile sul sito della compagnia teatrale Lenz Rifrazioni di Parma.
Ha pubblicato per Liberodiscrivere edizioni (GE) il saggio filosofico-sociale Donne – (don)o e (ne)mesi (2007) e il saggio di critica letteraria Gesti d’aria e incombenze di luce (2008); per BCE-Samiszdat (PR) il volume di poesie L’inestinguibile lucore dell’ombra (2009); per Smasher edizioni (ME) il poemetto Ipotesi Corpo (2010) e il poema Dei malnati fiori (2011).
Terzo classificato al Premio Giorgi (2010), tre volte finalista al Premio Montano (2010, 2011 e 2012).
Suoi testi critici e poetici sono presenti su svariati siti e blog letterari.
È redattore del blog La dimora del tempo sospeso. Ha curato prefazioni e note critiche in diversi volumi di poesia. Ha diretto, per Smasher edizioni, la collana di letteratura contemporanea Ulteriora Mirari e curato l’omonimo Premio Letterario. È ideatore e curatore del progetto di aggregazione letteraria “Letteratura Necessaria – Esistenze e Resistenze”.

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