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Fabio Ciriachi

4 luglio 2015

Come si cade

Il giorno in cui s’era sentito male
aveva attraversato il pomeriggio
succo d’arancia la tovaglia a righe
un senso come intero di bellezza
passata (dunque finisce così la
bellezza, con la rassegnazione)
le voci incidevano il silenzio
non gl’importava niente non le amava
più, pensò che se fosse giunta notte
non l’avrebbe ostacolata piuttosto
coccolata anche se con freddezza
poi vide il seno affacciato al décolleté
un tremolio sull’onda dei passi
e ne invidiò le ghiandole obbedienti
– avesse avuto una morbidezza
simile nascosta dentro, magari
nei gesti negli sguardi attorno agli occhi
o nei pensieri nelle decisioni –
avesse concordato con chiarezza
un modo per concludere l’impresa:
poche parole e tutte di peso
pochi silenzi senza impressionare
ma che importanza poteva mai avere
(il corpo estraniato dal dolore
gli parve un movimento di nemici
e non si rese conto che si arrese).

altro qui

Fabio Ciriachi

24 settembre 2012

 

(Foto di Dino Ignani)

note critiche di Augusto Benemeglio

Cosa saprà opporre la nostra voce
a quanto confermato dalla dissoluzione, dalla lacrima, dal marmo?
(J.L. Borges)

1. La caduta
C’è una certa grazia anche nella caduta, nel morire, quasi lievemente, come una foglia che si stacca dal ramo; uno fa splash dentro di sé, quasi un’implosione, dice addio alle piccole trite banali cose di tutti i giorni, agli attraversamenti dell’oasi pomeridiana (… “aveva attraversato il pomeriggio / succo d’arancia la tovaglia a righe”), alle annotazioni a piè di pagina, dove s’annida (forse) il mistero e la bellezza della vita, ed ecco, si ritrova in un silenzioso ultimo grido, non quello di Munch, che è angoscia piena livida gialla turchina del tutto e del nulla, ma nella pienezza vuota, nella vacuità tonda, nelle architetture senza peso dell’invisibile, nello sgretolarsi della luce e del tempo, nella “pastorizia” dei morti di Fabio Ciriachi, visti dal suo sguardo geometrico, verticale , implacabilmente ironico e affettuoso, pur nel dolore fatto di lontananze, assenze , nostalgie profonde. E con quello stesso sguardo, egli sembra dirti: “ Amico, guarda che il passato non sta dietro le nostre spalle, il passato è ciò che rimane della dimensione verticale”. Il passato è nel voler risorgere giorno dopo giorno, anche quando ti ritrovi davanti a un sacco di ossa stracci bottoni asole polvere, fili di fumo, cirri, nembi, evanescenze, ombre, tutto ciò che tuo padre “fu”. Ora è tutto lì, in quel sacco di tela che naviga nel cielo come un vascello misterioso, in quei secoli infranti, nella concavità della mia memoria. Riflessi, specchi, delirio circolare, la notte che se ne va a picco da qualche parte, o da nessuna parte, un gioco di trascendenze che tutti pratichiamo senza conoscerne le regole. Siamo sempre in attesa di qualcuno che bussi alla nostra porta, al tempio sacro che è il nostro corpo, un “corpo dilatato”, ed ecco che quando avviene (non saprete come, né l’ora, né il luogo), d’improvviso, il tuo corpo vacilla, cade, s’infrange, e quasi non te ne accorgi. Lo guardi cadere, come se fosse di un altro, ci fai un pensiero strano distaccato, confuso, non tuo , in dormiveglia, come tra la coda di un sogno che se ne è andato e l’altro che vorrebbe iniziare. Non c’è più nulla, nessun dolore, in quel battito ultimo, in quell’istante ultimo, anzi ti sembra che non aspettavi altro per tutta la tua vita, e ora ti ritrovi in un sorriso ironico alla Clark Gable, e quell’ombra che ti viene incontro lungo la pianura e che nasconde il cielo e il sole scorticato e i sanpietrini del “Quo Vadis?” , sull’Appia antica, e l’acqua lustrante delle fontane romane, le più belle, le più squillanti del mondo. Tu l’hai già vista prima, da qualche parte, quell’ombra, ma non ricordi più dove. E te ne vai, arreso, con le braccia conserte, in croce, quasi senza accorgertene, te ne vai per sempre, consapevole (ora lo sai con assoluta certezza) che non c’è alcun passaggio, alcun ritorno: Se una comune astinenza segnasse/ ora l’inizio di un’epoca nuova/ se in tanti provassimo a cambiare/ preparandoci in tempo alla morte/ vera, senza aldilà, soltanto fine… (vds. “Ascoltare la morte a orecchio nudo”.

2. Il grido del basilico
C’è,in quasi tutte le poesie di “Pastorizia” (Empiria, 2011) di Fabio Ciriachi quest’urgenza della memoria, questa reiterazione diffusa dell’evento più doloroso della sua esistenza, la morte del padre, il passato che ritorna, che sta sopra di noi, che si fonde con il concetto della caduta e dell’abbraccio, ovvero questo angoscioso bisogno di solidarietà, unica difesa contro il male dell’uomo. Ma il poeta avverte anche il dovere del recupero delle piccole cose quotidiane, e lo fa in maniera elegiaca, quello che è stato efficacemente definito il “canto della perdita”. Fabio è uno di quei romani un po’ atipici, diciamo meglio di stampo antico, quelli che guardavano in faccia la vita e la morte con virile coraggio (e guai non fosse stato così ai tempi dell’Impero!) e, apparentemente, con quella grazia lucida, metallica, un poco aristocratica, ironica, cinica, che è un po’ la cifra morale e la caratteristica peculiare del romano inteso in senso lato: Da qualche parte sulla via del mare/ cappottando con una Topolino/ si moriva perfino in allegria. (vds. “Primo dopoguerra”)
Ciriachi è uno che, socraticamente, sa di non sapere, uno che si sente un semplice visitatore della vita e della morte e dice a tutti noi: Amici miei, nessun essere umano conosce il significato della propria creazione, se non nel suo aspetto primitivo e biologico. Nessun uomo, nessuna donna, conosce lo scopo, ammesso che ce ne sia uno, il significato possibile in quest’essere buttato nel mistero dell’esistenza. Ma è soprattutto un poeta, con la sua ipersensibilità, coi suoi registri, con le sue intuizioni, il suo magnetismo della filologia, uno che cerca una propria lingua (per quanto riguarda il linguaggio nessun dizionario è definitivo), una sua grammatica, che è il nervo del pensiero, il suo “brivido umano”, il suo metallo rovente, con un suo deposito di memorie, una propria storia, tutta racchiusa nelle minuzie, nelle arcane irregolarità, luci e ombre e spazi grigi della sua vita; è uno che cerca la sua impossibile rivincita anche sul letto di morte del padre, ricordando, metaforicamente, le partite a briscola: La prima mano l’avevamo persa?/Rimaneva ancora la rivincita/ e poi la bella aguzzando l’ingegno.(vds. “Rivincita”)
Tutta la sua poesia, fatta di tensioni dialettiche, di delicati equilibri fra convenzione e anarchia, fra cliché e creatività, è alla ricerca di un pensiero limpido e coerente che esprima l’emozione profonda di una perdita, di una caduta, di un abbraccio . Vorrebbe esprimere tutto in una sola parola, unica, essenziale che contenga tutte le altre, una parola concreta che diventi azione-via-luce, illuminazione, Dio!, ma non esiste. (Forse l’ha cercato il suo dio e non l’ha trovato). Ed ecco allora che le parole invitano altre parole, come anelli di una catena senza fine. Non c’è niente di più sconvolgente, aveva detto Steiner, del fatto che noi umani possiamo pensare e/ o dire qualsiasi cosa. Ma la sua vocazione lirica è minimalista, alla ricerca dell’essenziale attraverso l’astensione, le sue parole sono semplici, scabre, diritte, affilate come immobili gridi, e tuttavia c’è tutta un’eco, una risonanza elegiaca, un ordine di chiarezza interiore, un desiderio di rinascita: Il grido del basilico schiacciato/aggiunge aromi alla nostalgia/ di quell’estate che cambiava nome/ nella campagna incolta nella luna/ curva sulla città resuscitata.

3. La morte e l’abbraccio
In tutta la poesia di Fabio c’è sempre, da qualche parte, un annuncio di morte, ma anche un anelito di vita , una ricerca di bellezza , un recupero di ciò che si è perduto, forse irrimediabilmente, in questo nostro vivere sciatto, frammentario, senza più nessuna forma, rispetto, dignità; e poi un abbraccio, il risveglio dei muscoli assopiti del tuo corpo dimenticato, i muscoli che cantano la loro melodia, il linguaggio fisico del teatro, la poesia della scena, il corpo che si fa anima; tutto ciò che è concentrato, ad esempio, nell’abbracciare il proprio figlio, la carne della propria carne, nella percezione e nella tenerezza di quel gesto, nel portare con sé, nel fondo del proprio cuore e della propria anima un giardino, un transito, una passione, una vertiginosa immobilità quando si è stretti ad un corpo che è anche il tuo corpo: Succede che mentre l’abbraccio – stretti,/confusi, quasi divenuti odori –
io non tocchi soltanto il bambino/ ma anche una parte di me. (vds. “L’abbraccio”)
E poi c’è il sentimento del mancamento della coscienza, del rimorso, della pietà per se stessi, per gli altri e per tutte le creature e le cose che soffrono a rimanere sole, ma soffrono anche le une con l’altre, perché tutte le cose che tocchi sono un “voler oltre”, un “voler più” di quanto esse siano, un eterno desiderio inappagato: Abbraccia il soccorrevole ritardo/ del desiderio, non sembra convinto/che possa muoversi compensazione/ né altro che pietà non accontenti. (vds. “Quartine”)
La figura centrale di tutta la poesia di Ciriachi è quella del padre che rimane ancora oggi , trentacinque anni dopo la sua scomparsa, l’amico indispensabile, ideale, il partner esigente del dialogo e del gioco. Quella del genitore è una morte solenne, alta, dignitosa, luminosa, straziante, da tragedia greca, difficile da descrivere, come sempre avviene quando ci troviamo di fronte alla morte. Tutto appare irreale, grottesco, inaccettabile. Vorresti cadere insieme a quel silenzioso immoto urlo, quel corpo amato abbandonato è un orizzonte intoccabile, una casa di vento, lo spazio di un dio squartato . Ma forse è solo addormentato, basta sfiorare la densità delle ciglia per farlo risorgere :
…Mi alzavo la mattina pronto a dare
notizia che non eri affatto morto
(o almeno che da un po’ eri risorto)

Eppure ti mostravi così quieto
sotto quei lineamenti regolari
col tuo vestito buono grigio scuro
anche sdraiato a letto eri un signore.
Ma tu perché non hai collaborato?
Avessi almeno alzato un sopracciglio!… (vds. “Rivincita)

4. Dopoguerra a Roma
Scene familiari, quelle descritte dal Ciriachi, che fanno parte di un’infanzia e di un’adolescenza che sotto alcuni aspetti ci è comune: gli anni cinquanta e sessanta, a Roma, con i film americani, John Wayne , Gary Cooper, Errol Flynn, gli indiani e i giapponesi, le Alfa che costavano sei lire, e c’era John Martin, il mitico trombettiere di Custer, del 47° cavalleggeri, l’unico superstite della battaglia di Big the Horn, che era in realtà un romano nato in via delle Zoccolette , Giovanni Martini, espulso dai garibaldini perché – pare – avesse tentato di vendere il cavallo bianco di Garibaldi, un po’ come Totò e la fontana di Trevi. E poi la Roma degradata e fantasmica di Scipione, delle case che crollano, quella torbida di Moravia degli “Indifferenti”, la Roma cruda di Pasolini: C’era il sole, forse l’aria odorava/dei grandi che tornavano alla vita, papà elegante col gilet leggero/ – camicia a maniche rimboccate -/fumava, l’altra mano la teneva in tasca, con gli occhi in terra cercava/ chissà cosa masticandosi i denti/ al modo degli attori americani, // mamma nel centro delle gonna lunga/ piroettava come una derviscia/ per il prosciutto bentornato a cena. (vds. “Dopoguerra”)
E poi ancora la Roma barocca -dolce-vita di Fellini, fino alla Roma di oggi delle puttane di Tor Sanguigna, o “de Scemo de guerra” di Ascanio Celestini… la Roma ventre di vacca, Roma-utero nel quale rientrare, la mamma-Roma, la Roma disperante del traffico che tutto paralizza, la Roma delle sfilate di moda e dei carri armati, la Roma delle battone di tutti i colori e di tutte le razze alla pineta di Ostia, la Roma che non si può mai veramente conoscere, la Inconoscibile, la Romaccia, in cui non esiste più la “Pastorizia”:
«Sperimento – scrive Fabio Ciriachi – il punto di vista senile, la necessità di guardare verso il basso, proprio della pastorizia: mentre le bocche sono intente a brucare, gli occhi censiscono il territorio, lo imparano a memoria. Non penso ancora che possano baciare la terra (pure sfiorata dalle labbra), la sola religione, per il momento, è il cibo e il sostenersi. Incombe anche il senso del pericolo”.
Con il suo sguardo autolimitante e mite da pecora, che guarda verso il basso, Ciriachi in realtà dimostra di possedere quel diapason che protegge dalle illusioni; ma anche il radar che sa scorgere i pericoli, gli incroci pericolosi, i luoghi abbandonati pieni di cicatrici, i corpi sul punto di crollare, i sordi tamburi del sangue, e l’inevitabile distruzione di un mondo che rimane inciso nei tronchi di alberi che vengono abbattuti giorno dopo giorno. Egli porta con sé solo la memoria del cuore, quel suo “controcanto della memoria” dolente, che si fa naufragio dell’allegria:
I vivi battezzavano le voci /dal chiuso delle case risparmiate/ erano canti ricchi di gorgheggi / dialoghi che scoppiavano in risate.( vds. Primo dopoguerra
la riva che lambisce d’acqua spenta/le navi fragili ridotte a soli/ legnetti dopo il niente dei naufragi (vds. L’abbraccio).

5. Cerchiamo l’altrove
E poi le prime gite fuori porta , i dervisci turchi che fanno il “sema”, il movimento universale che è danza e preghiera, e diventano senza peso tra fiamme verdi, sordi tamburi del sangue e dello spirito; tutti battono un tempo identico, un battito identico, un identico franare sotto il peso della stanchezza infinita del vivere, e tuttavia bisogna resistere, andare avanti, cercare l’altrove:
Mi lavo dopo il lavoro. Sindone/ sull’asciugamano bagnato di me (vds. Stanchezza).
Fratello Fabio dei tempi andati, ancora odo i tuoi battiti, nell’ombra: enigma in forma di orologio, i primi blue jeans, l’eros presente e perpetuo nei tuoi occhi e nell’orma del tuo corpo liscio e magro, il sogno appoggiato ad un balcone, i nuvoloni che annunciano la fine dell’estate, la terra il vento le carezze le labbra fanciulle, calendario di ogni piacere, lo sguardo di velluto grigio: Se chiudo gli occhi lo so: /c’incontreremo in autunno/ in mezzo a odori d’impermeabili e mare//… i baci in tutto il corpo, i sonni/ pieni, e insieme per mano verso il rischio /di scoprire che cosa vive dietro (vds Verso il rischio). .
Per Fabio Ciriachi l’uomo è un mucchietto di ossa acqua e polvere che attraversa le grandi pianure dell’essere e della storia, in attesa della “caduta: … avesse concordato con chiarezza/ un modo per concludere l’impresa: /poche parole e tutte di peso/ pochi silenzi senza impressionare/ ma che importanza poteva mai avere/ (il corpo estraniato dal dolore /gli parve un movimento di nemici/ e non si rese conto che si arrese- vds. Come si cade.)
Quel che conta, in quest’unica vita che ci è data, è la dignità del vivere, la stretta di mano, lo sguardo, l’abbraccio, lo stare stretti, avvinghiati alla “pastora dei morti”, che non è Deborah Bell, o la pastora di Racalmuto, ma una figura poetica della pietas e della memoria, unico deposito, forziere del nostro passaggio su questa terra, della nostra piccola “immortalità”. E poi ci sono tenerezze chiuse dentro di noi, serrate, intime, indecifrabili, che nessuna morte può sminuire, e che nessuna voce sa dire. Quel che conta sono le piccole cose che scandirono il nostro tempo: un juke-box fine anni cinquanta, tra vibrazioni urla, rock e beatitudini dei sensi, l’ora il minuto il secondo l’istante, il tic-tac, lo zac, il ciack in cui i corpi s’incontrano e crescono a dismisura le ansie, le passioni, il futuro, il lavoro, le cambiali, i giorni neri. Il presente è perpetuo, ma la notte entra dentro di te, anche se non vuoi, con tutte le sue foreste e i suoi misteri, i sussulti, le paure, l’odore dell’autunno e delle foglie morte. Ma oramai sei uomo con la barba bianca, senza più tempo, ti puoi dilatare senza limite, sei nell’infinito, scolpito da te stesso, dalla tua stessa fiamma di passione, che ora si fa preghiera, invocazione, disperazione, giorno dopo giorno costruiamo la morte, cerchiamo l’altrove. Essere in vita è un passo, un battito, un’immagine che si dissolve. Scriba, poeta, mago di parole, puoi ancora saltare come un cavallo dinanzi al vento, dinanzi alla notte, dinanzi alla morte. In fondo ti basta accendere una lampada che ti faccia da guida all’ingresso del sogno.

Roma, 23 settembre 2012 Augusto Benemeglio

da PASTORIZIA, (Empiria, 2011)

Come si cade

Il giorno in cui s’era sentito male
aveva attraversato il pomeriggio
succo d’arancia la tovaglia a righe
un senso come intero di bellezza
passata (dunque finisce così la
bellezza, con la rassegnazione)
le voci incidevano il silenzio
non gl’importava niente non le amava
più, pensò che se fosse giunta notte
non l’avrebbe ostacolata piuttosto
coccolata anche se con freddezza
poi vide il seno affacciato al décolleté
un tremolio sull’onda dei passi
e ne invidiò le ghiandole obbedienti
– avesse avuto una morbidezza
simile nascosta dentro, magari
nei gesti negli sguardi attorno agli occhi
o nei pensieri nelle decisioni –
avesse concordato con chiarezza
un modo per concludere l’impresa:
poche parole e tutte di peso
pochi silenzi senza impressionare
ma che importanza poteva mai avere
(il corpo estraniato dal dolore
gli parve un movimento di nemici
e non si rese conto che si arrese).

Dopoguerra

C’era il sole, forse l’aria odorava
dei grandi che tornavano alla vita,
papà elegante col gilet leggero
– camicia a maniche rimboccate –
fumava, l’altra mano la teneva
in tasca, con gli occhi in terra cercava
chissà cosa masticandosi i denti
al modo degli attori americani,
mamma nel centro delle gonna lunga
piroettava come una derviscia
per il prosciutto bentornato a cena.

Rivincita
alla memoria di mio padre

Dopo la morte sei rimasto a casa
due giorni e due notti steso a letto
vestito come pronto per uscire.
Spiando quel tuo stare orizzontale
cercavo segni di morte apparente
ma differente era solo il colore
della pelle che piano s’incupiva.
Mi alzavo la mattina pronto a dare
notizia che non eri affatto morto
(o almeno che da un po’ eri risorto)
ma non cambiava niente, tutto fermo,
solo se mi chinavo a guardarti
vedevo gli occhi parzialmente chiusi
due fessure con dietro il vetro nero.
Eppure ti mostravi così quieto
sotto quei lineamenti regolari
col tuo vestito buono grigio scuro
anche sdraiato a letto eri un signore.
Ma tu perché non hai collaborato?
Avessi almeno alzato un sopracciglio!
Mi bastava, come a briscola, un segno,
tu lo facevi e io trovavo il modo
di rimediare a tutto quell’assurdo.
La prima mano l’avevamo persa?
Rimaneva ancora la rivincita
e poi la bella aguzzando l’ingegno.
Dopo trentacinqu’anni ancora tento
ma ormai le carte sono rovinate
non hanno più segreto, ogni volta
so che dietro non c’è il punto giusto
eppure tento, in qualche modo tento
come se non sapessi fare altro.

L’abbraccio
a mio figlio Alessandro

Succede che mentre l’abbraccio – stretti,
confusi, quasi divenuti odori –
io non tocchi soltanto il bambino
ma anche una parte di me. Sterile
approssimazione la somiglianza
che ci racchiude entrambi nel contatto,
eppure è un gesto in cui credo, vedo
quanto lo salva dai colpi di vento,
perché prendendo un poco del mio peso
(è anche a questo che serve l’abbraccio)
lui scongiurerà la leggerezza
la riva che lambisce d’acqua spenta
le navi fragili ridotte a soli
legnetti dopo il niente dei naufragi.

Empirismo

Un ferro tondo tutto quanto torto
non dà forse un’idea di debolezza
smentita solo quando nel toccarlo
se ne constata tutta la durezza?

Era così contorto quel tondino
che dava l’impressione, convincente,
che fosse molto facile piegarlo
e la fatica non costasse niente.

Ma prova a torcerlo se ti riesce
soltanto con le mani come sembra
possibile vedendo quanto è torto.
Col ferro l’apparenza conta niente.

Con cosa invece l’apparenza regge?
Con tutto quanto non si può toccare,
col pensiero è più facile ingannare
il tatto invece ha un senso e ci protegge

Stanchezza

Mi lavo dopo il lavoro. Sindone
sull’asciugamano bagnato di me.

POESIE RITROVATE (inedite)

Ascoltare la morte a orecchio nudo

La luce sul cortile amministra
l’usignolo: con questo preziosismo
s’annuncia il giorno alla città dormiente.
Ventotto maggio del duemilasette
vedi affacciarsi il lunedì nel fresco
insonnolito delle cinque e dieci
radi motori dicono che presto
tutto sarà di nuovo caos fretta
cieco accanirsi pena insensatezza.
Se una comune astinenza segnasse
ora l’inizio di un’epoca nuova
se in tanti provassimo a cambiare
preparandoci in tempo alla morte
vera, senza aldilà, soltanto fine…
come sarebbe altra questa vita
senza il conforto di una religione
che vieta di ascoltare a orecchio nudo
la custode delle regole giuste
mentre soppesa parole e silenzi
nella frase che manca alla risposta.

Primo dopoguerra

Il grido del basilico schiacciato
aggiunge aromi alla nostalgia
di quell’estate che cambiava nome
nella campagna incolta nella luna
curva sulla città resuscitata.
I vivi battezzavano le voci
dal chiuso delle case risparmiate
erano canti ricchi di gorgheggi
dialoghi che scoppiavano in risate.
Da qualche parte sulla via del mare
cappottando con una Topolino
si moriva perfino in allegria.

Verso il rischio

C’è, ma non so come incontrarla, dove
abita, quali percorsi fa per lavorare, per
le vacanze, per il tempo libero, quali film
vede e quali mostre, e se i libri
che legge li amerei, e che musiche ascolta
a casa e ai concerti, non so niente
di lei ma so che c’è, ne sento la
presenza per strada in treno in metro-
politana alle poste al super-
mercato, per questo anche ci vado volentieri,
lei c’è, mi sfiora tutti i giorni, a volte
per anni ci evitiamo, ecco perché
poi riposa male e io ho come un peso
dietro agli occhi, ma la sua assenza, tutta
la sua assenza esplode le notti in cui mi sveglio
inchiodato dalla mia passione
lei quell’intenso saprebbe contenerlo
io troverei pace nel suo corpo
lei ha odori per tutte le stagioni
sguardi che mi vedono a distanza
lei si fida delle mie emozioni
mi perdona il tempo e la tristezza
io apprezzo la sua mite abbondanza
e la magrezza che persegue invano.
Se chiudo gli occhi lo so:
c’incontreremo in autunno
in mezzo a odori d’impermeabili e mare
lei per timidezza sarà indaffarata
io, troppo preso, dirò stupidaggini
ma intanto avremo il nostro appuntamento
un “dopo” tutto nostro da nutrire
cucire i giorni con il filo doppio
passarci le parole necessarie
i baci in tutto il corpo, i sonni
pieni, e insieme per mano verso il rischio
di scoprire che cosa vive dietro.

Quartine

Cammina solo sfiorando, rimani
– nel trasferirti – il meno che puoi
sconosciuto al dio del permanere
ombra di te che a volte ti precedi.

Ti serve anche questo inabitare
le posizioni, i comodi luoghi
che ambiscono al passaggio, non sembrava
nemmeno la riduzione che è stata.

Ombreggi i piedi nati in pieno sole
presumi le caviglie l’accortezza
ma incontro a te si muovono profili
insani al loro stesso non voltarsi.

Certe file, gli insiemi, le persone
o l’eleganza altera dietro il vetro
sono di luoghi tiepidi del mondo
amanti dello scuro che protegge.

Fisicità, indebita mattina,
include al buio il suo passaggio altero
fresca nel tiepido la malattia
scuote la fragile costituzione.

Ha mani inverosimili, dispensa
fragilità di gesti, dedizione,
il magro che la tiene non perdona
sposi di sguardi da pietà disgiunti.

Abbraccia il soccorrevole ritardo
del desiderio, non sembra convinto
che possa muoversi compensazione
né altro che pietà non accontenti.

Fabio Ciriachi, romano, ha pubblicato poesie e racconti su varie riviste e antologie.
Con la silloge Dissidenze, in 7 poeti del premio Montale (All’insegna del pesce d’oro, 1991), è tra i vincitori del “Premio Montale 1990” sezione inediti.
Ha pubblicato le raccolte poetiche: L’arte di chiamare con un filo di voce (Empiria, 1999), Il giardino urbano (Empiria, 2003), Pastorizia (Empiria 2011).
È autore di racconti: Solo per somiglianza, in La mia città senza grazia, antologia del premio di narrativa “Anna Maria Ortese 2004” (Empiria, 2005); Un poeta all’inferno, in Renault 4 – Scrittori a Roma prima della morte di Moro (Avagliano, 2007); la raccolta Azzurro-cielo e verde-pistacchio (Edimond, 2008).
È autore di romanzi: Soprassotto (Palomar, 2008); L’eroe del giorno (Gaffi, 2010), Premio “Passioni” 2010.
Ha tradotto dal francese l’opera di David Mus Qu’alors on ne se souviendra plus de la Mer Rouge (Ragage-Empiria, 2005).
Ha recensito libri per la Repubblica, il Manifesto, l’Unità, Absolute Ville, Critica Impura.
Nel mese di febbraio 2013 uscirà, presso Gaffi, il suo romanzo, Le condizioni della luce.