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Trittici – Annamaria Ferramosca

18 febbraio 2019

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Quando Annamaria mi comunicò che aveva tratto da alcune mie immagini ispirazione per i suoi versi, ne fui felicemente sorpresa; lo fui ancora di più nel leggere in anteprima la poesia scaturita da “Il Volo”: la sua capacità di trarre dal segno il compendio di una vita, il suo sguardo che tramutava forme in parole, in un coinvolgimento artistico e sororale, mi commosse profondamente.

Il suo progetto mi piacque moltissimo, felice che le mie opere fossero accostate a quelle di Frida Kahlo, Modigliani, Laglia,  felice che dai colori prendessero vita le sue parole, e che da un’arte visiva ne scaturisse un’altra di così densa espressività.
[…]
continua

 

 

Fernanda Ferraresso

30 luglio 2017

 

DALL’OCCHIO ALL’ORECCHIO UN GRADINO E UN LABIRINTO

 

 

 

se riguardo dentro
quel foro sul muro
negli anni  ti vedo
ancora chiara
aperta  luminosa
sento i richiami
le eco  le voci
annuso i profumi
le cere le essenze
sento l’acqua
che scorre e
il verde penetrarmi
fino alle radici
scordate

 

*

 

i miei due lati
sono la faccia di queste pareti
dove la voce rimbalza
e solo per una eco si riconosce

non ha alcuna memoria
non ha traccia o impronta

è una città svuotata
una corsia devastata
cadono a pezzi i corpi delle cose
ci sono drappeggi a ricoprire statue

nascono dagli sguardi inquieti
dalle nude cosce di una lussuria senza più eros

spogliata da ogni emozione
langue la mente e tutte le sue sfere
fanno più sordo un rumore di ottone
un basso che sfocia

da un intestino crasso
un intimo odore di corpo

aperto un topazio salmastro
e più lontano sotto i fili di altri fantasmi
una lunga scia è la vena del cielo che sogna
e stende la sua linfa sopra uno specchio chiaro

l’alba o l’albatros sfibrato dal suo volo
inceppato il suo occhio è una radice di pianto


una città senza più nome una pianura
senza chiasso nella mia bocca
persa dentro
il tuo cupo orecchio

 

*

 

per un grano di terra
un esercizio di stelle
tutto il giorno allargato
per un nubifragio di onde

luce un precipizio di semi
segni di un celeste pellegrino
infinito chiuso occhio del cosmo
caduto dentro il chiostro
nel terremoto di un tralcio

in un crocchio di spine
difendono il raccolto
un sol giorno
atomo e nucleo
rivoluzione della spiga
contro il germe della fame

e ogni bocca ogni corpo
ogni donna ogni uomo
ogni singolare pianeta
seminato da quel giallo
è una linfa senza resa
una spiga di pane esplosa

*

dentro le carte
i m m a t e r i a l i
che imbrattiamo
le poesie navigano
da milioni di anni
l’intero universo
il tempo è
solo una tra le tante
intricate tessiture
riversate
tra riva e rima
senza seguire una riga
in una scena d’inchiostri
fluidi e linfe che si mescolano
china resta la vita
la più segreta e immortale
tra tutte
la parole mai scritta per esteso

 

*

 

bassa
ho camminato nella foschia
ero
un numero infinito di onde
sporche di sabbia case ingombre
stavano distese
come corpi spogli di donne
a perdita d’occhio l’aria
non più chiara
come una bugia si era lentamente
trasformata in roccia e nera
una gabbia chiudeva il litorale dentro una vasca
l’estate era un pesce rosso dentro una boccia d’acqua gelata
orrore ovunque
la terra era un fuoco di ceppaie
persino il mare brulicava di fiamme
tutto e dovunque solo morte fumo polvere
di ruggine un rumore di ruote metalliche
un sordo correre di carri che rompono l’asfalto
e dal catrame qualcosa simile al germoglio schiude il suo occhio
nasce tenero un verde che l’aria ripulisce
e una furia d’insetti è la mia testa
una furia di suoni dentro il mio letto
io sono il fantasma nella parte posteriore della stanza
sono la furia dentro la tua testa
nel tuo petto esplodo milioni di sillabe
tutte in una volta
sono il coro dentro la memoria
sono
la sventura che senza fine ti cancella e poi
ti rinasce ancora
e ancora
ancora una volta

 

*

 

IL GRANDE GIOCO DELL’OMBRA E DELLO SCARTO

 

imparare  a sillabare la creazione del mondo
rivoltare il limite da superare con un folle volo
e un gesto d’amore
non più ignorare l’altro
vivere disobbedendo a ogni crimine
rifiutare i pedaggi d’inciviltà
accanto al nero di ogni sofferenza accendere
il bianco di una resistenza attiva affetta di bene
mettere un colore accanto al cuore
con arte  disegnare una porta
e attraverso quella avventurarsi
dentro una vita che è sogno e bisogno
magia e mistero
attonito  momento e urgenza di presenza
all’insegna di un coraggio fatto di gesti concreti
essere vicini gratuitamente portare un risveglio
come il sole che mai annichilisce nel suo ardere
costante  scavando ognuno fianco a fianco
ognuno nel fianco di se stesso per arrivare
fino all’altro.

 

*

La metafora è un procedimento intellettuale
mediante il quale riusciamo a cogliere ciò che si trova
oltre la nostra capacità concettuale.

J.Ortega y Gasset

 

 

una
sola
oscura   provincia
un’ombra sul muro
la vita


mi attraversa
in un brivido
notturno un corso
di spoglie


miei nati
antenati
di ogni futuro
in un giorno


senza giudizio
solo
un sogno

 

*

 

nelle profondità di questa quiete
verde  un racconto di foglie  cede
in terra tutte le mie ombre
e gli aghi degli abeti
non ancora imbiancati accendono
i soli di tutti i miraggi in mille gocce
la linea ricurva del mondo  accoglie
perso il mio tramonto là
in fondo anche la mia solitudine  aspetta
in una nuova piccola sorgente un quadrante d’acqua  ci scioglie
dalla bocca l’ultima inutile parola l’ultimo segno della mano incauta
che ha rubato ciò che l’amore illuminava
nel suo centro vuote corrono
le nuvole e il freddo del mio gelo le rincorre
per bloccarle nel grigio delle rocce
tra ferrate e vie maestre tra vicoli e strade dismesse
in me dove non sento
il profumo degli orti la frutta  cantare nei broli
e i fiori  dirigere
i cori delle aiuole le fiammate di rosso nelle bacche accese
di dicembre le lucerne  le bianche perle del vischio
sotto cui deporre i baci

tutto dorme o sembra moribondo o morto
c’è quaggiù solo un concerto sordo di metalli
che sempre più atterrito rende l’ uomo di oggi
e per attrito sfregia il volto del mondo
il chiaro di luna esposto nell’alta bacheca della notte
non rima sul ramo degli innamorati
intenti a tiranneggiarsi con le solite vuote battute
mentre altri poco lontano da loro
già cadono sotto il lancio delle bombe
e i più dormono ritenendosi lontani
di tutto quel frastuono ignari non comprendono
le lacrime con cui si svegliano ogni giorno
perché c’è un filo che lega stretto e sicuro
ogni nostro abecedario
la merce più innocente con lo stolto  l’avido  e lo schiavo
sapiente la morte la sua scienza non disperde
ma agli uccelli che del fluido suo scorrere si nutrono
sostiene  ali e corpo e terso rende lo sguardo

ascolto  attento ascolto
il più lontano dei luoghi canta
la sua brezza è il suo nome
chiama i nostri passi nella sua oscurità
salmi e notturni disegna in codici e canti
il mio corpo ascolta tutto il fluire di amore
miniato in me ha luce e fiore  acqua e nuvola
viola e primavera neve
e scura montagna  bordo di questa piccola tazza
dove il vento depone i suoi semi
dove succoso è il grappolo della vita
e i fiori del cortile sono nubifragi di tempo
dall’alto muro di questo inconsueto cosmo
che al mattino mi sveglia e apre in me la porta del mio labirinto
mentre tutto resta segreto e nascosto ed io verso me stesso
ancora da un sorriso illuminato corro e corro
lontano dal tempo giù a più non posso
dentro un filo d’erba nel prato fino a sentirmi saziato
di luce di alberi di tenebre a fiumi
dell’intimo chiarore di una stella issata ad un bagliore
nell’ultimo singhiozzo dell’acqua con cui ho bevuto la mia vita
e adesso è caduta nel chiuso rigore di un verso  da

ancora non so dove

NEL VANO DELLE P A R O L E

 

per strade lunghe e un lungo silenzio
faccio ritorno a casa
dove non sto dove non vivo e non ho più
cose con lo spazio dentro
né abiti  nell’armadio     del ricordo il viaggio
la passione     tutto arriva  e lignifica
una corteccia folgorata la mia scorza
come una buccia la vita  staccatasi dalla mia pianta

e persino le parole che mi scheggiano da dentro l’osso
altro non sono che il mio vuoto corpo
espostosi al vento

F.F.


*

 

L’uomo si lascia alle spalle la sua infanzia, la fanciullezza, la maturità, la vita e le sue opere, ma questo non è morire, è vivere.

 

Maria Lai

 

 

due tempi e un solo occhio
si è barricato in un mistero
lo spazio     scordato     si è fatto
percezione
prossima una continua  istantanea
un’immagine  imma(r)ginata

 

fatti pochi passi     verso una finestra
ancora cola il tempo
liquida     una carta da parati
tappezza questa alta stanza magazzino di esperienza
e tutto azzurro il prima mescola il suo pigmento in questo vano     adesso

esco
mi precipito
in tutto quanto vado visionando
ed è stato
un tempo preciso
è già stato
dentro il mio occhio
nelle mani nei piedi nel respiro nel cuore ha battuto
quel giorno quell’incontro quel niente é ora
e ancora ribatte il mio metallo
lungo     sonoro     un monologo
s e r b a t o i o  di tutte
tutte le voci mai inquinate
che sono polvere
di questi arredi che ora vengo a cercare
in coriandoli di luce
spezzata dal mio specchio
in un cassetto dentro un comò socchiuso
cianfrusaglie emergono alla rinfusa in un cielo cianotico

 

lontana la casa     lontano il tempo della quiete     affiora
fioriscono erbe profumate e ho fame come di bestia randagia
che per anni nei secoli da se stessa si è allontanata
e nella parola ha fatto uno slargo minuscolo
un pertugio di sole dentro la sua tana

ho sete sempre più sete
cerco depositi d’amore come acqua
come un animale anch’io tra le radici bevo
e chiara vedo la fine tra quelle muffe
la sottile scrittura della morte

un filo di terra appena
mi scrive tra le labbra scende diretto
all’alveo del respiro e ghiaccia il battito
spegne il cuore
la testa piega
cedendo un poco per volta un istante perfetto
anni secoli memorie oltre le mie storie minute
solo un alito
l’ultimo
quel filo di solitudine fattosi più sottile e stretto

intorno al polso e al collo fa saltare un nervo e
posso finalmente morire
sparire dalla cella da quell’abito
celato a me stessa
non dire

non dire più nulla per sfuggire
ancora una volta andare
distante     distante     distante     tante e tante
tante volte più lontano
nella lacrima che non mostro

il vuoto di tutto quanto (è) aspetto
in terra il segno di uno scavo aperto
il corpo dentro più dentro fin dove non lo vedi
e
altro si fa
una gradazione di bruno macinato dagli insetti
un rettangolo dentro cui svanisce tutto

 

 

 

per questo hai scritto?

ho cominciato a scrivere
per non perdere i luoghi
dentro di me così fragili
e distanti
le scarpate delle strade i fossi e gli argini
come montagne invalicabili quando il tempo frana
quando i giorni si ammucchiano
infoltendo i loro rami di alt(r)i segni
una mobile scrittura un’intricata foresta
i mesi gli anni
che mi scendevano il corpo
in continui naufragi e perdite
dei miei primi attimi
l’amicizia con la terra
che in gola mi metteva nidi
e ora senza più uova e
voli alti sopra le corti di sole
è solo crepe sulle facciate di case straniere
quasi una forca la memoria divaricando la forcella
innesca la sua fionda penetra la sua piccola granata
affonda dentro l’angusto territorio della mia vecchiaia
dalle spalle dei miei anni trae i pesi dei luoghi le cimature degli alberi
le siepi gli orti incolti un sentiero interrotto
sui cui più volte mi è crollato addosso il tempo
e la vita si è allargata in un cupo lago
recintato da pietraie aguzze
ruderi i ricordi in un continuo restauro di strutture inutili
perché non serve un tetto una lamiera basta
per passare la notte se la vita è un temporale e nemmeno la luna
ti accoglie e niente niente riaffiora da quell’antro che è l’androne di casa
perché dove abiti ora tutto è stipato
un ripostiglio senza aria senza luce
un luogo senza sentieri da percorrere
dove non sei affatto contento di esserci
e i ricordi di ieri ti mangiano e i ricordi di oggi si frantumano in un niente
così che a te non resta altro
che un vuoto deposito di polvere

(…)

 

 

Nata a Padova nel 1954, laureata in architettura presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, si occupa di progettazione architettonica, arredamento, grafica e design, ama tutti i generi di espressione d’arte. Già docente presso il Liceo Artistico e Istituto d’Arte Pietro Selvatico di Padova, ora insegna al Liceo Artistico A. Modigliani nella stessa città, dopo un lungo periodo di insegnamento presso il Liceo Artistico di Rovigo in cui ha stretto amicizia con Marco Munaro iniziando una collaborazione con lui in più progetti ( La Bella Scola, Herbert, La memoria e i suoi giorni). Ha svolto ruolo di coredattrice all’interno del gruppo di VDBD, il blog, ed è presente con suoi articoli nella rivista on line dello stesso gruppo. Ha partecipato ad alcuni concorsi vincendone (Rabelais 2006 e 2007) e/o posizionandosi nella rosa dei primi dieci (Premio Teramo per un racconto 1998), Concorso Internazione di Poesia-Prata Sannita- L’iguana 2014 dedicato ad Anna Maria Ortese, ha ricevuto il primo premio per la raccolta Nel lusso e nell’incuria Edizioni Terra d’Ulivi 2014, nel 2015 ha ricevuto il primo premio al Concorso Internazionale Alda Merini-Brunate per la raccolta Voci oltre e altre cose storte– Edizioni Terra d’ulivi 2015. Per i tipi de Il Ponte del Sale ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie dal titolo Migratorie non sono le vie degli uccelli. (2009) e ha partecipato alla Lettura dei primi nove canti del Purgatorio, proponendo un attraversamento del canto VIII, nella raccolta Ombre come cosa salda (2009). Con LietoColle Editore ha pubblicato MAREMARMO (2014- Menzione d’onore Premio Città di Sassari) e appare nelle raccolte Luce e notte (2008), L’ustione della poesia (2010);con Terra d’Ulivi -Elio Scarciglia Editore, Voci oltre e altre cose storte (2015)- Primo classificato- poesia edita- Premio Internazionale Alda Merini-Brunate 2015, Nel lusso e nell’incuria (2014- Primo classificato – poesia edita. Concorso Internazionale L’iguana-Omaggio ad Anna Maria Ortese) e Dimmi se (2013- secondo posto Premio Bellizzi- Salerno). Suoi testi appaiono in CFR Ed. nelle raccolte Cuore di Preda (2012) , Il ricatto del pane (2013), Cronache da Rapa Nui (2013), Keffiyeh-Intelligenze per la pace (2014) ;  con Lucaniart: “Scrittori & Scrittura” Viaggio dentro i paesaggi interiori di 26 scrittori italiani (2012); con Edizioni L’Arca Felice Le trincee del grembo (collana Scritture clandestine a cura di Maria Pina Ciancio e  Teresa Anna Biccai per Associazione Lucaniart) (2014) ; con Rayuela Edizioni “Sotto il cielo di Lampedusa” (2014).
Si sono occupati della sua poesia: Sebastiano Aglieco, Luigia Sorrentino, Marco Scalabrino, Maria Pina Ciancio, Anna Maria Curci, Anna Maria Farabbi, Abele Longo, Francesco Marotta, Fabio Simonelli  (recensione  nella rivista Poesia-Crocetti Editore-Settembre 2009-N.241), Davide Castiglione, Milena Nicolini, Ugo Entità, Enzo Campi,Giulio Gasperini, Adriana Ferrarini.
Numerosi suoi testi sono presenti in rete in molti siti che si occupano di letteratura e d’arte.
E’ capo redattore ed editor del litblog Cartesensibili (https://cartesensibili.wordpress.com).
Il suo blog personale è  http://fernirosso.wordpress.com/
Dirige la collana Parole di cristallo per Terra d’ulivi.

 

 

Fernanda Ferraresso

18 aprile 2015

fernanda ferraresso

QUADERNO A QUADRI

I quadro

spacco l’antracite del tuo corvo
nero oscuro: ogni uno
dei tuoi lontanissimi incorruttibili pensieri.
Taglio l’arancia del tuo raggiungermi
spacco il covo che hai costruito dentro
la mia memoria senza la possibilità di perderti
ti rincorro grano per grano
dentro il roseto dei sogni.

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Fernanda Ferraresso

14 aprile 2014

 

fernanda ferraresso

 

il primo piano di una grande casa
nella mia stanza ogni volta la finestra si apre
su uno sguardo più largo
e l’orizzonte divide tra le quattro mura del tempo
un mondo che altra luce in un sole inconsueto attizza
e questo buio spesso
che circonda il nostro consueto occhio diventa
un mediterraneo
mare appena oltre la mia soglia
un’altra porta su una terrazza dove cresce
il profumo di luoghi diversi
a volte è un muretto che emana un odore di acero
o la cera che cola tra i rami di pino da resine molli dorate
ambre del cuore che nessuno vuole
esporre allo sguardo di un altro
profondità di sé nascoste tra le foglie edere
che salgono l’aria come fossero nostri passi e perle
di limpida lucentezza le parole scivolano tra le dita della mano
mentre ancora della notte cucio il blu del velluto strappato

                               

Spesso non ricordo cosa sogno.
Eppure mi era rimasto in corpo qualcosa.
Anche i sogni si strappano.
Lasciano tracce sensibili
quando dolci e calmi
prendono quota nel corpo
volano dentro il tuo sangue e non precipita
alcun senso il loro è un dondolio leggero
come quello tra le braccia di tua madre
quando bambino ti disegnava una veste lieve addosso
un sonno più profondo e tenero quell’abito
si faceva alla fine risveglio
in altri luoghi da cui fare ritorno
come nascendo ancora e
festoso affamato di un nuovo giorno.
Al mio risveglio intorno
c’era un odore forte
di fumo nell’aria
mi sembrava che la casa stesse bruciando
tra le fiamme lampade incandescenti
tuonavano immagini che non riconoscevo
e gli uomini come lupi in un buio deserto correvano pazzi
per quella brillantezza mai vista sembrava che il mondo
tutto il mondo in quell’unico luogo ardesse e
le mura i bastioni di cinta la magia d’oro di un fasto trascorso
nel presente crollassero in un attimo
ondeggiava sotto di me la pietra della soglia
così feci un salto e mi ritrovai ancora
più nuova l’aria leggermente fresca e umida
e i piedi immersi nell’erba
mi tolsi le scarpe per camminare più svelta e dalla terra
una piacevole freschezza tradusse in me parole che mai avevo sentito prima
anche da bambina non indossavo mai le scarpe
a casa e la terra dell’orto o dei campi d’estate era un trono dei sensi
rimasi così in attesa a lungo quasi cadendo per la stanchezza di fissare in me
un colore che si faceva sempre più intenso e prossimo
un rumore di vento un’onda trasportata da un altrove senza riconoscimento
era come se camminassi restando immobile
dentro un respiro e un flusso
lì davanti ad un mare calmo
il mio sonno era una spiaggia e le tue mani
una sabbia senza più il peso del tempo.

                                            

Da altre solitudini qui
si nasce e ancorati qui
si muore
il posto è lo stesso
questa composta
di terra e di cielo
una raccolta di memorie e bugie
ossari di candide giornate manguste
barattate con i sogni e i sortilegi del caso
la sfortuna d’essere nati qui o la fortuna d’essere usciti là nei regni
oltre il paradiso o dentro l’inferno video-game-ti
a dritta dell’africa a occidente dell’india
a nord dell’angola a sud della bosnia
e ancora in tutti i crociati
arsenali della guerra che sbandiera menzogne dorate
come pane da mangiare e ricchezza da rubare
dalla pancia sverginata del pianeta
nel ventre dello stupro di cento mille celle
migliaia di femmine che rimpiazzano altre
ingovernabili orribili creature
torturate dalla stortura di pensieri velenosi
terremotate ideologie fasulle
iniettate a colpi di democratica tirannide.
L’indulgenza plenaria ai propri debiti
l’indecenza di credersi potenti
qui
su questo affollato innocente pianeta dove si può
solo essere pleuri
un respiro che dura l’attimo
per vedere lo specchio di se stessi in quello di un altro.

                                         

Le jeu

sul legno
il luogo dell’uomo è
un segno
più dentro in un contorno non più solo
fisico un mondo di memoria configura
chi nascosto più di un’ombra
invisibile e scaltro sta ai margini
di un libro senza tempo o verbo
e spazio si affaccia verso
un paesaggio vasto che dissimila
una ancor più vasta landa dove il silenzio
è vigile maestro e più del cielo
notturno si tende su tutte le mappe
dell’essere schermando il vuoto del suo cosmo
quel sé
che lo accende

 

 

Fernanda Ferraresso

I “quadri” fisicamente mobili di Fernanda Ferraresso

29 marzo 2012

Per leggere la poesia di Fernanda Ferraresso nel senso pieno del termine, dobbiamo prima spogliarci delle attese discorsive a cui tanta poesia narrativa recente e contemporanea ci ha abituato. Già da alcuni decenni, infatti, molta poesia ha cercato di allontanarsi dalla significazione romantica e simbolista per assumere, o fingere, un richiamo alla comunicazione quotidiana. Questa tendenza, liberatoria allora, adesso conduce spesso a un appiattimento, a una stanchezza espressiva di cui si farebbe volentieri a meno. Dall’altra parte c’è invece una poesia che ha riscoperto l’irrazionale, il corpo vissuto come ricevente-comunicante, il canto non come evasione ma come espressione di una maggiore aderenza alle proprie radici collettive, agli archetipi. È in questa linea anti-patriarcale, estranea per scelta o temperamento al logos maschile, che la poesia di Fernanda Ferraresso può essere situata, insieme a quella di altre poetesse quali Maria Grazia Calandrone e Marina Pizzi.

I rischi corsi dall’iscriversi in una tale posizione (sovrattono, esclusione del momento esperienziale cosciente, eccessi metaforici) sono alti; ma più alti, com’è il caso di Ferraresso, sono i risultati. La sua lingua poetica (parlare di “discorso” poetico è fuorviante, per quanto detto sopra) si articola in monologhi mobilissimi, per nulla autoreferenziali dato che il loro ‘io’ si è liberato di ogni sovrastruttura (pensiero, personalità, sentimenti privati) per diventare ora un’evanescente entità in continua metamorfosi (“isola / sto sull’acqua ferma / come una parola che galleggia”, II quadro), ora una voce esterna e nostalgica in un’evocazione erotica (“lei gli era antenata / per questo lo faceva passare”, III quadro). Quando invece si fa assertivo, l’io si traveste nelle forme devianti del sogno, dell’assurdo logico (“spacco l’antracite del tuo corvo / nero oscuro”, I quadro).

Ogni quadro articola in modo diverso le proprie forme e i propri tempi: dal presente scandito con assertività del primo quadro, al presente smussato, dolce, del secondo; dalla terze persone singolari nell’imperfetto nostalgico del terzo quadro alla prospettiva più epica, corale, del quinto. Infine, il procedere a scatti e lacerazioni del sesto quadro e l’architettura del quarto. Su quest’ultimo preferisco fermarmi un attimo – non solo perché Ferraresso architetto lo è davvero anche fuori dal verso, ma perché la sua architettura verbale (soprattutto qui) mi fa venire in mente Frank Lloyd Wright: forme che imitano la natura, che hanno come quella capacità metamorfiche e di adattamento precluse ai blocchi del funzionalismo. L’avvallamento grafico dei vv. 4-7 spinge a leggerli sia da sinistra a destra per l’intera lunghezza dei versi, sia come se ci trovassimo di fronte a due poesie accostate: la mobilità fisica della lettura è notevole. E a proposito di tangibilità fisica, una sintassi paratattica (anti-patriarcale, avversa alle gerarchie) e cumulativa conferisce ai testi una drammaticità performativa (di nuovo, si dà rilievo all’aspetto fisico più che a quello concettuale del verso), con la versificazione a seguire scrupolosamente i guizzi del respiro, il respiro quelli dell’emotività.

Interessante sottolineare che, se la poesia di Ferraresso appare libera e indisciplinata, è in realtà sorretta da una sua logica verbale rigorosa: come nel caso di Dylan Thomas (poeta con cui scopro diverse affinità) l’esuberanza immaginativa è in realtà giustificata dai rapporti semantici e fonetici delle parole. Alcuni esempi: “l’antracite del tuo corvo” (I quadro) si giustifica per il richiamo al nero di entrambi i termini, mentre la presenza del “covo” pochi versi dopo contiene l’immagine del buio, del nero, ed è paronomasia di “corvo”; oppure, (II quadro) c’è un gioco di parole per cui “il vento appuntito” come una matita “tempera” le giornate (ma il clima può benissimo essere “temperato”); o, ancora (IV quadro) i libri “mastri” diventano “maestri”: a parte la quasi identità fonetica, “mastri” è davvero la forma antica di maestri (ma la parola “mastro” significa anche “registro”). Queste ripetizioni con variazione sono poi funzionali al testo, che si ripete (“l’ho detto e mi ripeto”, si dice con orgoglio e forse un filo d’ironia). E così via.

Ho parlato prima di fisicità: e in effetti le immagini del corpo, spesso associato a una casa (altro tratto in comune con Dylan Thomas) ricorrono nei testi. Il corpo appare spesso inciso, coperto di tagli: “affilati i giorni tagliano la carne del mio tempo” (II quadro), “taglio su altro taglio il primo stato    lo strato che freme   la pelle  ogni libello della carne” (IV quadro). L’idea del tagliare è anche nel primo quadro (“taglio l’arancia del tuo raggiungermi”) e ancora nel secondo (“il gelo è un freddo coltello”).

Altro si potrebbe esplorare e trovare: in questo pezzo ho cercato solo di fornire alcune chiavi. Quello che però mi sentirei di consigliare è di leggere prima i testi (o di dimenticare, almeno temporaneamente, quello che ho scritto qui), perché prima della comprensione conta, in loro, l’attraversamento tattile, che non vuole capire per forza (né io ho interpretato alcunché: nessuno deve togliere alle nostre letture personali il piacere dell’interpretazione), ma lasciarsi trasportare, sussultare, e stupirsi tanto davanti alla potenza immaginifica di “apro il mare antistante la mia solitudine come un cancello” quanto davanti all’umiltà e tenerezza di “a volte mi basta tenere tra le mani un sasso”. A volte basta tenere tra le mani una poesia.

 

Davide Castiglione

QUADERNO A QUADRI

I quadro

spacco l’antracite del tuo corvo
nero oscuro: ogni uno
dei tuoi lontanissimi incorruttibili pensieri.
Taglio l’arancia del tuo raggiungermi
spacco il covo che hai costruito dentro
la mia memoria senza la possibilità di perderti
ti rincorro grano per grano
dentro il roseto dei sogni.

.
II quadro

isola
sto sull’acqua ferma
come una parola che galleggia
e quando si appuntisce il vento
temperando le mie giornate
l’aria in me si fa per mesi più trasparente.
Niente altro che luce
rimescola le mie ombre
e volteggia la pagina dell’acqua un attimo
quel brevissimo istante prima che s’ immerga
e sommerga
lieve e bianca un’acqua più leggera
nel bagnasciuga di ghiaia
così levigata da sembrare una seconda pelle con cui il giorno
misura l’alba
quando dall’orizzonte corre scalza fino a queste finestre.
Affilati i giorni tagliano la carne del mio tempo
qui
sull’isola anteriore a me stessa misura i miei passi
specchio fedele dell’altra in cui vivo ancora
mentre il cuore apre le sue valve come una conchiglia.
Il gelo è un freddo coltello e stride sulla lastra del ghiaccio
ora per ora con lo sguardo
attraverso la finestra
apro il mare antistante la mia solitudine come un cancello
tra onde di fantasmi che indifferenti si levano e poi ricadono
su questo foglio nella forma di un segno.
A volte mi basta tenere tra le mani un sasso.
Percorro la sua levigata superficie e
sento cosa gli ha tolto il mare
inghiottendo onda dopo onda la sua sostanza
decompongo nel suo moto di correnti l’oscuro della profondità di entrambi
e altri si cibano di quanto stava senza peso sospeso in quella polpa
calcificata antica sua e mia.
Forse è così che al fondo di me stessa sento quel peso
uno strato dietro l’altro e la caduta e la perdita e
noi, gli umani, apparsi qui dopo miriadi incalcolabili
di deposizioni e rinascite.
Colonne di nebbia che si muovono assieme alle onde
e le pareti delle case respirano, aria intessuta da dentro
di un fumo più denso, corporeo.
E’ una doppia veste questo labirinto che ci tiene
tutti
uniti noi alle cose
e la vita al suo lato invisibile
ed è forse questo l‘oro
questa cavità in cui il tempo sgattaiola
tra la porta d’ingresso e i sassi senza impronta
in faccia a questo silenzio immenso
in cui ogni parola si colora di un tenue azzurro
senza scrittura d’alberi o voli di uccelli dove persino il vento
mi disseta senza muoversi tra le onde.

.
IIIquadro

lei gli era antenata
per questo lo lasciava passare
lei era dentro la sua testa era la sua tempesta
e non gli lasciava tregua
stava distesa
le cosce tese come funi o rampe
di fango il ventre sopra l’inguine esposto
alla luce del suo tatto
lo aspettava come un fuoco in petto
aspetta le sue vampe
e stringeva le gambe per non lasciarlo fuggire
lei era il valico alla fine del mondo
era il fiume che aveva sempre rincorso
e non le serviva avere un nome preciso lei era
il nodo dentro l’amore che sconfina il terrore
l’ansia nel respiro lei era
tutte le ossessioni fattesi parola
una fortezza di scritture
che strappano i pensieri
e non poteva voltarsi
lui non poteva slegarsi da quella stretta
ogni giorno
ogni ora più cruda
ogni istante più perfetta.

IV quadro

” In un angolo, il vento
sposta l’ombra delle foglie”

l’ho detto e mi ripeto.

oggi è l’ultima volta ………………….affilati rasoi tutte le assenze sfilano la pelle
dico e so che mi ripeto ……………..la casa ogni livello della carne
taglio il cartone dei miei salti…..mentre nello specchio guado
lame come angeli di silenzio….ciò che non vedo ancora
.
taglio su altro taglio il primo stato lo strato che freme la pelle ogni libello della carne
la casa mentre lo specchio immobile guarda me che lo guado
guardo ciò che non vedo dentro quel falso
riflesso di un profondo gua(r)ire
.
largo oltre la memoria allargo la notte tutti i suoi libri mastri tornano legni in terra
questa vecchia vecchissima barca senza attracco è linfa che scorre sul filo
l’istantaneo porto di un corpo pasta d’albero non illusione
la carta di un qualsiasi corpo
.
di notte tutti i suoi libri tornano maestri
si fanno sangue che scorre

di ognuno l’albero che cresce e s’incarna in terra
non vento non velo non veliero dentro la scalza forma

scia di una riga dove non resta esposta alcuna radice
non fa mare il respiro di chi guarda un cielo latitante

dentro un sogno tutto è solo
disegno in una stanza di vuoti.

.
V quadro
gli orizzonti e i fantasmi
gli eterni saluti tra i vivi e i morti
in quale città si sono persi e quale è la rotta della memoria
il viaggio dei sogni
covati e interrati lungo il cammino e nel cosmo passati
di mano tra un uomo remoto e un bambino futuro
in quale segno si sono deposti tra nuvole e ceneri di incendi
nei camini delle case dove di nuovo bruciano i giorni.
In quale città ne fanno ancora scorta
e in quale strada o via in quale paese oltrepassate le frontiere
di quei segni a vaticinio resta sola
un’ombra la pallida circostanza d’essersi sbagliati
su questa realtà eccedente l’ingombro di una vita anonima sempre
e mediana a qualcosa che sta oltre la misura di un corpo
oltre le frontiere illusorie di una lingua scritta in fretta
dimenticando quella della madre
nostalgia mortale
che spinge gli uomini a viaggiare e le bestie di ogni specie alla ricerca
della propria patria perduta.
In quale città della memoria sta rinchiusa l’unica
stagione che preleva
le sue vittime e le sue storie dai corpi
tutti i corpi dei viventi e sulle palizzate delle parole
depone teste monche soffiate da bocche appena germogliate
una trangugiata nozione del tempo
e mette in un fagotto di dolore e rammarico
ritagliato all’interno dell’involucro di un corpo
spazio senza spazio un respiro da un fiato mozzato.
.
VI quadro
c’è distanza
c’è
una irrimediabile distanza
non lontananza tra noi e le cose, tutte
le cose che la luce porge
in fasci
e spettri di colori
suoni vesti di popolazioni di echi
volano ciascuno riverberando l’unico monologo del cosmo
in questo immane silenzio
si fa casa in cui abitare
noi
prossimi sempre solo a noi stessi e
futuri irraggiungibili in tutti gli altri che mai sapremo
d’essere
.
Nota: Il Quaderno a quadri fa parte di un insieme di altri 2 quaderni, Pagina a righe e Carta millimetrata, che ancora si stanno con-figurando da poco meno di una decina d’anni.

Nata a Padova nel 1954, laureata in architettura presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, si occupa di progettazione architettonica, arredamento, grafica e design,ama tutti i generi di espressione d’arte. Docente presso il Liceo Artistico e Istituto d’Arte Pietro Selvatico di Padova, dopo un lungo periodo di insegnamento presso il Liceo Artistico di Rovigo in cui ha stretto amicizia con Marco Munaro iniziando una collaborazione con lui in più progetti ( La Bella Scola, Herbert, La memoria e i suoi giorni). Ha svolto ruolo di coredattrice all’interno del gruppo di VDBD, il blog, ed è presente con suoi articoli nella rivista on line dello stesso gruppo.Ha pubblicato suoi testi in alcune raccolte di Aletti editori e, da poco, con i tipi della Lietocolle editore nell’antologia curata da Anna Maria Farabbi Luce e notte. Ha partecipato ad alcuni concorsi vincendone (Rabelais 2006 e 2007) e/o posizionandosi nella rosa dei primi dieci (Premio Teramo per un racconto 1998). Per i tipi de Il Ponte del Sale ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie dal titolo Migratorie non sono le vie degli uccelli. (2009) e ha partecipato alla lettura dei primi nove canti del Purgatorio, proponendo un attraversamento del canto VIII, nella raccolta Ombre come cosa salda.
Numerosi gli scritti in rete che appaiono in molti blog:
http://cartesensibili.wordpress.com
http://fernirosso.wordpress.com
http://poesia.blog.rainews24.it/2012/01/16/opere-inedite-fernanda-ferraresso/
http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/
http://pillolediversi.blogspot.com
http://rebstein.wordpress.com/
http://neobar.wordpress.com/
http://www.lietocolle.info
http://viadellebelledonne.wordpress.com/
http://www.poesia2punto0.com/
http://muttercourage.blog.espresso.repubblica.it
http://www.poiein.it/
http://www.ippocrene.com
http://associazionepoetica.com
http://lucaniartmondo.blogspot.com/
http://issuu.com/vdbd/docs/viadellebelledonneluglio2008numerouno
http://homepage.mac.com/vaccagiorgio/mary/press.html
http://www.elioscarciglia.it/
http://www.paroledisicilia.it/
http://visionidiblimunda.ilcannocchiale.it/
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