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Flavia Isetta

12 dicembre 2013
 
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Oggettivamente la poesia riesce ad universalizzare il particolare moltiplicandolo per i grandi sentimenti umani: amore, dolore, comunque passioni.
Secondo risultato oggettivo di una poesia autentica: non diventa mai un’epigrafe mortuaria e basta nemmeno gridando il più acuto tormento.
Si trasforma sempre in vitalità anche quando l’autore non vorrebbe perché è più forte della stessa razionalità umana e il poeta, nei suoi momenti migliori, è preda non di se stesso, ma della storia terrena che si dice attraverso di lui.
Le poesie di Flavia Isetta sono ispirate fortemente dalle persone più care che non ci sono più. L’autrice non cerca appigli e consolazioni di nessun genere, soltanto ricorda, ama, si strugge, pensa e scrive fluendo dal cervello al cuore e viceversa.

Cosa resta del giorno

Può essere un piatto, in una cena tra amici,
un vecchio film, così oggi ti riappropri di me,
uguale presenza che ad allora riconduce.
L’oltre non esiste,
vi sono tentativi goffi ed implumi
posticci come il vischio appeso alle pareti.
Durano un anno, un bacio, un saluto.
Tu resti, rimani incompiuto e triste trionfi
ma non puoi più decidere e io non so.
Ti trattengo, forse ti richiamo
t’invito a ricomporti, ad esserci,
scheggia sfuggita a un sole
che non si avvide dei suoi bagliori.
Splendere, ritornare al nucleo senza affanno,
riprendere le mani, anche quelle più piccole
che non sanno, esitano ed ancora esigono.
Cosa resta del giorno,
alla luce distante del ghiacciaio che rispecchia
le nostre speranze e si sgela improvviso nel mio cuore
stasera,  in un inutile rivo di freddo.

Insieme quel giorno esplorammo il nuovo

Insieme quel giorno esplorammo il nuovo,
la vecchiaia e l’infanzia
correvano nei nostri sguardi lungo le vetrine.
Luci di fuori e dentro, un arco si tendeva
noi tenevamo semplicemente la corda.
Donammo poi quel regalo al nostro grande amore:
fu allegria di bimba, tenerezza di uomo
e sorriso di madre.
Il fazzoletto bianco nel taschino, le tue cravatte,
stoffe di sole sospese tra le mani,
grandi, maschili,  in cui la forza
si apriva e distendeva nella dolcezza.
Riprenderti il braccio, farmi guidare ancora
incontro a un sogno in cui io ti rivedo e parlo,
finalmente parlo, comprendo la strada,
le stesse parole di allora.

Non ti merito o non mi sai

Non ti merito o non mi sai,
tu che indugi negli occhi e nello sguardo.
Rifletti se fu vero quel gesto che ci scosse e fu improvviso.
Riscrivevo le parole, toccando ad una ad una le lettere,
poco importava se ti apparissero povere e d’improvviso spoglie.
Era necessità: farti capire a un tempo e onestamente il mio bisogno.
Lisciavo le tue pieghe, le tue asprezze
colmavo i tuoi ricordi con fantasie fragili e incapaci di essere.
Oltre gli spazi di silenzio, gli specchi di dolore
cercavo luce e raggi bianchi e non di freddo.
Così ti rimandavo e tu mi respingevi
nell’angolo già netto e fuori dai disegni
degli argini che costruivo intorno,
ai lati inespressi di ciò che non ti dissi.

Delfi

Ricordi la nostra notte a Delfi.
Negli occhi meraviglie vaticinavano sogni
e fuori il cielo distava fremendo.
Giungemmo i corpi come un voto
aprimmo insieme varchi in cui grifoni e stelle
c’inseguivano ridendo.
Certo fu breve il viaggio:
non riuscimmo a scorgere
e le maschere ci passarono accanto inquiete
a chiedere giustizia ma non pace.
Oltre, nel viaggio che ci apparteneva,
sviai lo sguardo e vissi ancora
e così vivo ferma, esitante, inquieta.
Lascia che cerchi il vento, che la follia sia ancora
tra i miei capelli e nelle mani
che travalichi il tempio e le sue leggi.
Contemplavo d’intorno il mistero
poi furono soltanto fiducia e amore.

Ricordo quelle nostre serate

Ricordo quelle nostre serate
di armonia totale ed inutile
senza continuità, senza pietà di giorni condivisi.
Riaffiori tra le ombre che sempre amai e temetti.
Vorrei tu fossi luce e riuscissi
con voce di madre a dirmi
che è tranquillo il cammino.
Ma c’è questo freddo e la tua immagine
ghiaccia nella mente i pensieri.
Lasciavo la casa, chiudevo il cancello,
vibrava la guglia di ferro col rumore di sempre.
Tornassi nel tempo alle cose
ai luoghi, che solo in noi
hanno forma e contorni,
aprirei quella porta,  ti prenderei in braccio
e lievissima voleresti più giù nel giardino.
Nel sole di una rosa accesa
nel caldo del sentiero rosso di mattoni
poi sarò io a tenderti la mano
e tu a guidarmi come  allora.

Ritrovare il canto del fanciullo

Ritrovare  il canto del fanciullo
l’orma nascosta sotto le foglie
il giallo dei fiori.
Lasciati soli i sogni si  dissolvono
e riverberano d’ombre.
Ma è un giorno fra i giorni e una sera
forse più lieve, ricompare.
Morbida ti scivola accanto,
maschera la solitudine,
ti fende di speranza.
E allora giochi ancora, le mani tra i capelli,
avvolti nelle dita, ancora i tuoi e vivi.

“Cosa resta del giorno” alla poetessa dopo che i più amati l’hanno preceduta in un oltre che “non esiste”? A riportarne la presenza basta una pietanza, in una cena fra amici così simile ad altre cene, quando erano vivi insieme nella propria carne e potevano toccarsi, sorridere, anche arrabbiarsi e parlare di cose grandi o piccole e sciocche, ma parlare. Adesso l’impressione dell’amato è la “scheggia sfuggita a un sole”, un sentire troppo rapido, che subito scompare, i tentativi di un contatto sono “goffi e implumi”.
E cosa c’è di più apparentemente banale di guardare le vetrine per strada, marito e moglie? Ma l’amore rende la passeggiata un’esplorazione di “nuovo”, non solo l’infanzia già passata, ma anche la vecchiaia che deve venire, c’è tutto nell’amore: allegria di bimba, tenerezza di uomo e sorriso di madre.
Ed anche il “Non ti merito o non mi sai” di Flavia finisce col diventare secondario davanti alla forza trascinante dell’amore, che non ha paura delle diversità e sorpassa le divergenze di gusti e opinioni andando “oltre gli spazi di silenzio”. In Delfi la poetessa canta ancora l’amore coniugale, che tutto gode e tutto perdona e diventa soave desiderio di travalicare “il tempio e le sue leggi”, ossia la morte terrena, che ha separato gli innamorati.
In “Ricordo quelle nostre serate” la persona alla quale Flavia si riferisce è la sorella morta in giovane età e immensamente amata, quella delle “serate di armonia totale e inutile”.
Ma il bambino interiore rialza sempre la testa e la speranza rinasce come i fiori gialli sotto le foglie morte e c’è un canto poetico e un gioco con le dita avvolte nei capelli “vivi”.

Domenica Luise

                         

Flavia Isetta è nata a Savona e vive a Genova, dove insegna Materie Letterarie in un istituto superiore cittadino.
Scrive poesie da molti anni e alcune di queste figurano in riviste e antologie.
Nell’ottobre 2006 ha pubblicato, con la CasaEditrice Il Filo (Roma), la raccolta Poesie dell’abbandono.
Nel febbraio 2010 ha pubblicato presso l’Editore De Ferrari (Genova) il volume di liriche Il percorso e la distanza, con la prefazione di Adriano Sansa.

Dice di sé:
ho sempre considerato la poesia come una possibilità dell’individuo, latente, manifesta o in cammino. A volte si fa sentire con urgenza ed è quando la vita trabocca, purtroppo non sempre di gioia. Quando tace, e per molto tempo in me è taciuta, non perché non fosse più, ma perché io le impedivo di parlare, significa che l’esistere  ha preso il sopravvento sul vivere, ci si è fermati, non si vuole sentire e soffrire più. In questo senso la poesia per me è stata ed è terapeutica, mi aiuta a far riemergere ciò che io ho rimosso e che lei saggiamente ha custodito.
Tutte le mie poesie sono accomunate da una certa malinconia. Malinconia è il non avere più e ricordare ed è anche ripercorrere ciò che è stato e che poteva essere diverso.
La malinconia forse allora coincide con l’accettazione del passato, al quale si guarda con occhio più accogliente, con la consapevolezza però di quanto sia impossibile definirne con certezza la misura e la distanza.