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Francesca Del Moro

7 marzo 2022

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EX MADRE di Francesca Del Moro, edizioni Arcipelago itaca 2022

Recensione di Luigi Paraboschi

C’è una poesia nel libro con la quale vorrei iniziare questo scritto per condividere con chi legge quanto sia greve il peso che chi perde un figlio è costretto a portarsi appresso, e si trova alla pagina 17:

Ho stretto l’urna contro il ventre,

pesava pressappoco come allora.

Un figlio lo contieni sempre

 

Tentiamo di sentire anche noi cosa prova una donna in gravidanza, facciamoci raccontare cosa significhi quel lo contieni, quanto e come siano grevi e grandi le speranze riguardo al futuro di chi sta nascendo, quali siano le ansie che percorrono le madri in attesa, e domandiamoci quanto sia straziante per l’autrice di questi versi il dover dare inizio a un eterno cammino di sofferenza il cui termine – colei che ha stretto le sue ceneri dentro un’urna – non riesce a immaginare.

Dentro quell’urna è raccolta la somma della breve vita di un giovane, e cerchiamo di immaginare quanto sia stato lacerante scrivere i versi a pagina 32:

e con terrore penso

che lui ha cancellato

le sue braccia, il petto,

il viso, il sorriso

che tutto illuminava

e i suoi occhi di miele.

 

Lui ha cancellato tutto di sé, si è annientato, ha voluto scomparire portandosi   via il segreto che lo ha condotto alla decisione estrema, e troviamo questi versi doloranti a pagina 49:

È troppo grande

l’amore a volte,

l’amore è insopportabile.

 

Quante volte sia in gioventù sia più in là negli anni abbiamo scoperto, o meglio pensato, che la sofferenza per un amore perso sia insopportabile, ma questa descritta lacera le carni di chi ha portato avanti una gravidanza il cui frutto si è annientato in un istante, e di ciò leggiamo a pagina 31:

Mi sono picchiata,

ho percosso le tempie

coi palmi delle mani,

premuto i pugni

sugli zigomi, sbattuto

la fronte alla parete.

 

Dal cuore straziato nasce la rabbia, il grido disperato di colei che non sa né può capire le ragioni di un atto folle e urla la sua disperazione a pagina 39:

Se potesse sapere

che non lo perdono.

 

Ma il cammino della comune quotidianità ci impone le regole alle quali dobbiamo sottostare, anche se con il dolore dentro come leggiamo a pagina 35:

e io avrò imparato

a portare con disinvoltura

il mio sguardo opaco

e il terrore dentro.

 

Di fronte alla constatazione che l’evidenza non può essere cambiata (pag. 94),

E ritorna la voce:

mio figlio è morto

morto

la parola che nessuno

osò dire quel giorno

morto

signora, suo figlio

non ha avuto un malore

morto

lo so, come lo ha fatto?

morto

è come un rintocco

morto

morto

morto.

sorge l’interrogativo su quanto non si è fatto per evitare che ciò avvenisse, nascono le domande sul chi e sul perché, e la madre si autoaccusa (pag. 18),

E non ho visto la nera, lunga

notte in cui si incamminava.

arrivando, a pagina 38, anche al punto di desiderare di cancellare la propria esistenza, augurandosi in tal modo un incontro impossibile:

Se fossi certa

di ritrovarlo al di là

di questo ruvido grigio

dove esercito l’occhio

a cadere nel precipizio

tra i passi consueti

sceglierei un piano alto

e gli correrei incontro

con la stessa felicità

con cui lo riabbracciavo

alla fine di ogni giorno.

Attorno a chi si vede costretto a subire una tragedia di questa portata si crea spontaneamente una sorta di cordone protettivo e di aiuto che amici e familiari cercano di erigere, scagionando la madre da ogni ipotetica colpa o dimenticanza. Leggiamo a pagina 92 questi versi:

Non è colpa tua,

si affrettano a dire

la polizia, i medici,

gli amici, i familiari,

rispondono alla domanda

che non fai, la generosa

negazione cade,

solo l’accusa rimane,

solo l’accusa

feroce a risuonare

 

Ma la madre è costretta a constatare che, malgrado la generosità di cuore, la bontà e l’amore dei presenti che dicono e insistono a pagina 21:

non è colpa vostra, mi raccomando,

ricordate, non è colpa vostra

 

non è possibile ignorare che la devastazione interiore finisce con il coinvolgere ognuno dei più cari (pag. 45):

E ho pensato a mia madre

che piangeva in questura

col fascicolo in mano

e a quel giorno che ha detto:

non sono più nonna.

L’amarezza della scoperta dell’ineluttabilità continua della vita (pag. 20) che prosegue il suo corso, talvolta nostro malgrado,

Il fiotto di sangue che scende

improvvisamente

davanti al figlio morto

mi ricorda che tecnicamente

potrei ancora dare alla luce

un altro infelice.

 

si misura in certe occasioni con lo scherno che pare uscire dalle risposte dovute alle domande attorno al censimento (pag. 106):

Numero di figli: zero.

L’innocente ferocia

di un banale questionario.

L’amore mio immenso.

Zero.

 

Non soltanto la burocrazia quotidiana è indifferente ai nostri dolori ma anche la natura lo è, niente di noi le appartiene, la vita si svolge sotto l’occhio immutabile di un sole che accompagna i nostri gesti e i movimenti, come leggiamo a pagina 19:

Il sole di luglio irridente

splendeva sull’ultimo tratto di strada.

L’aria era innaturalmente ferma

come il corpo di mio figlio nella casa.

 

e ancora a pagina 22:

A picco come il sole

precipita il suo sorriso

su me che mi ripiego

seduta su un gradino.

 

La vita continua a svolgersi anche dentro la voragine che si è aperta in chi soffre. Si legge a pagina 37:

Il buco del 5 luglio

ha inghiottito tutto

in un giorno infinito

di luna piena

e sole a picco.

 

e a pagina 69:

Sopra di noi, la luna

ha quasi ricomposto

il suo occhio sgranato

di quel giorno.

 

Ma il pensiero distrugge ogni consolazione, e la donna riflette sconsolata a pagina 27:

… e ho pensato

che le sue mani non ci sono più

e non terranno più la forchetta,

non potranno più toccare, stringere,

non potranno accarezzare.

 

È una tragedia nella quale si fatica a intravvedere una pausa, c’è la realtà con la sua disumanità e la constatazione che l’uomo di fronte alla fine è soggetto alla corruzione fisica, quasi alla mercificazione commerciale come leggiamo a pagina 26:

È stato messo a scaffale

un barattolo col suo nome

e il logo delle pompe funebri.

Sulle prime sembrava

una merce qualunque.

 

Non c’è consolazione possibile, non c’è speranza oltre la morte (pag. 43):

Alto nel cielo nero

di fianco al portone,

ogni mattina

un occhio di stella

solitario mi sorveglia.

Ora sarebbe facile

cedere alla debolezza

di immaginare su di me

uno sguardo pentito,

una dolcezza d’angelo.

 

e il cielo è chiuso sopra il dolore (pag. 52):

Con il viso contorto

rivolto verso il cielo

a un dio che mi colpisce

più forte ogni secondo.

 

Ma il fluire del tempo è inevitabile, si deve tornare alle occupazioni quotidiane e in parte ci si allontana un po’ dal tormento del pensiero (pag. 56):

Con una lacrima sul naso

camminando soppeso

le ragioni per morire.

 

Poi entro, premo un tasto,

mi accendo

come qualsiasi congegno,

combacio con la sedia,

mi inserisco come un cavo,

faccio clic e sto meglio,

funziono fino a sera.

*

Occorre rimettere un poco di ordine dentro il proprio vivere andando alla ricerca del vissuto di colui che non c’è più, quasi allo scopo di volerlo riportare in vita (pag. 67):

Recuperare i ricordi buoni,

raccogliere tutte le foto

– alcune metterle in cornice –

portare i fiori al cimitero,

fare le cose che facevo prima,

aspettare di morire.

e si cerca un poco di consolazione nel tornare al cimitero, nel lucidare il marmo della tomba, nell’accarezzare una fotografia (pag. 68):

Non c’è un’ombra di polvere ma io

continuo a lucidare il marmo,

passo e ripasso con il dito il panno

in ogni numero, ogni lettera d’oro

del tuo nome, col pretesto

di pulirti il viso lo accarezzo

mi illudo che ti arrivi amore,

ancora.

 

La macchina che ci portiamo dietro, il nostro corpo, non può essere soffocata dal dolore. I meccanismi di difesa che possediamo si possono rimettere in moto anche contro la nostra volontà di sopravvivenza, e riemerge in parte la fisicità dei sensi a pagina 51:

Adesso, dicono, non si può fare altro:

solo tenere la macchina in funzione.

La macchina ha fatto una cosa strana,

dato il suo stato: ha provato una passione.

Anche il medico è rimasto sconcertato,

la vita come al solito ne ha riso

e ha riaffondato il colpo dove sa.

Il dolore non scompare, è soltanto assopito. In tal modo ci si può anche illudere che l’emozione del desiderio fisico possa venirci incontro per lenire la sofferenza, ma ben presto tutto torna sotto la luce della memoria. Si legge a pagina 111:

 

Il fondo rosso

di Porto nel bicchiere,

ripenso al sangue

tra le labbra di mio figlio

edema polmonare massivo

si leggeva sul referto

edema polmonare massivo

ripeto nella mente

mentre saliamo in camera

per fare l’amore

mi sforzo di non piangere.

 

È stato un viaggio assai doloroso non solo per lei che lo ha vissuto e lo vive tuttora, ma anche per chi ha letto tutti i testi di questo lavoro. Non è solo questo l’aspetto sul quale vorrei attirare un po’ di attenzione. C’è anche da mettere in evidenza la capacità di Francesca di analizzare il dolore, anche quello altrui, come ha sempre fatto in altri lavori precedenti. In questo caso lei si è messa a nudo di fronte al lettore, quasi invocando un abbraccio di condivisione.

Luigi Paraboschi

 

Anna Maria Curci

27 novembre 2020


Anna Maria Curci, Opera incerta.
dalla Postfazione di Francesca Del Moro, L’arcolaio 2020

 

Il viaggio dantesco di un cuore pensante

Se ogni opera letteraria è in qualche modo apparentabile a un viaggio, in quanto invita il lettore ad attraversare ed esplorare un percorso tracciato dalla scrittura, ciò vale in particolare per questo nuovo lavoro di Anna Maria Curci, in cui sono molteplici i riferimenti a un cammino, da svolgersi sotto il segno della pazienza e dell’ascolto. Il concetto di attraversamento viene evocato fin dal componimento di apertura da cui prende il nome la prima sezione, Barcaiola, che da un lato ci fa pensare all’inizio del viaggio dantesco (e Dante è un riferimento costante nel libro), dall’altro lascia affiorare il sorriso luminoso del barcaiolo Vasudeva che insegna a Siddharta a porgere orecchio al fiume. Così, fin dall’inizio Anna Maria si dispone e invita il lettore a prestare attenzione, a cogliere l’impercettibile, cadenzato bisbiglio del remo, basso continuo che scorre sotto la melodia dei versi.
“Su questo interroga il fiume, amico. Guarda come ne ride!” raccomanda Vasudeva a Siddharta e in queste pagine il sorriso è fedele compagno all’autrice e al lettore. Manifestazione esteriore di una serena consapevolezza, si muta solo a volte in riso aperto, sferza dell’ironia che, se qui risulta forse meno graffiante che in altri testi dell’autrice, nondimeno rimane prezioso strumento di indagine e smascheramento.
Torna in questi versi, come altrove (ad esempio in un ciclo di haiku inediti), il tema del guado come “condizione permanente”, un passaggio che prende corpo nell’incedere sghembo del granchio, spiazzante per chiunque prediliga le vie più dirette ma in sintonia con i cicli della natura e capace di superare gli ostacoli fino a raggiungere la meta. “Non ho fretta” si avverte nella chiusa di una delle poesie della prima sezione, invitando a rallentare il passo, a fare tesoro dell’attesa.
[…]
Non si può prescindere dalla storia per aguzzare il proprio sguardo sul presente e in questo senso Anna Maria sembra far proprie le parole, evocate in una delle poesie del libro, che l’amatissima Cristina Campo scrive a proposito di Gottfried Benn, autore di scritti andati al rogo nel quadro delle persecuzioni nazifasciste: “Imperdonabile Benn, che afferma non dover essere il poeta lo storico del proprio tempo, anzi il precursore al punto da ritrovarsi di millenni alle spalle di quel tempo, l’antecessore al punto da poter profetare dei più lontani cicli avvenire”.
Anche Anna Maria è un’autrice imperdonabile, che rifiuta di essere complice o passiva testimone del suo tempo, che rifugge l’evasione (“cocciutamente sai che non è fuga”) ma fa della sua poesia memento storico per spingere oltre il suo sguardo sul presente, non per registrarlo semplicemente ma per poter agire su di esso avendo ben chiara la lezione del passato […]. Dietro i fatti della Storia ufficiale, va alla ricerca di storie umane note e meno note, ne ricorda i nomi, facendo brillare la luce del coraggio, dell’amore che resiste all’orrore.
Ed è proprio in questa chiamata alla testimonianza, nella vocazione a parlare per conto di voci dimenticate o che rischiano di spegnersi che risiede il senso ultimo della scrittura, il valore e assieme la necessità di un percorso quale è quello su cui Anna Maria si interroga e ci interroga. Il percorso etico ed estetico compiuto da un “cuore pensante”, definizione che utilizza nella sua prima raccolta e che racchiude in sé la capacità della poesia di pungolare intelletto e sentimento per diventare, nelle sue parole, “pegno d’incanto, balzo, testimone”.

Francesca Del Moro

 

 

Dalla sezione Barcaiola
                 
               

Del passaggio

Del passaggio non so,
tu affine anima mia,
meandri e pieghe e anse.

Lo slancio riconosco,
la luce tende braccia,
non si fa definire.
                           
                       

Dalla sezione Opera incerta
                       
                
Atlantina

innaffia i tuoi sensi di colpa
piega la schiena
fustiga le reni

non basta ancora dici
e gonfi il petto
però con quello non trascini pesi

pensavi di aver fatto un buon affare
allo spaccio dei miti senza occhiali
scambiasti per la bella corridora un ricurvo complesso
                           
                         
                   

Dalla sezione Mnemosyne
                    

Angelos

Parla per me. Mi giunge questa voce
dal limbo dei ricordi seppelliti.

Parla per me. Strizzo l’occhio. Non vedo.
Da quanto tempo è in pausa la memoria?

Parla per me. Scorgo infine la cuffia
legata al mento e i fiori sgargianti.

Parla per me. È lei che ci ha salvati
in un giorno di giugno. Affogavamo.

Parla per me. Quel giorno tu gridavi
bambina per te e per tuo fratello.

Lei è tornata insieme al suo compagno.
Ci portarono a riva. Comparsi solo un giorno.

Parla e racconta che mai abbiamo smesso
di provare a salvare. Ancora non capisco.

Parla e racconta di imprese disperate.
Eravate due bimbi e due soltanto.

Cosa vuole da me l’apparizione
in costume da bagno anni settanta?

Tu fammi proseguire. Da quel giorno
non abbiamo lasciato il mare mostro.

Quale tributo è ancora da pagare?
Lei scruta il fondo azzurro e mi previene.

Due soltanto eravate, ricorda!
Due bimbi che giocavano, rammenti?

Rammento con memoria intermittente.
Che cosa c’entra mai con la Memoria?

Sono migliaia adesso e non per gioco.
Tuffarsi per salvare più non basta.

Lo schiaffo arriva. Perché ha detto ‘mostro’?
Non più il rassicurante “Mare Nostro”?

Li rovesciano a mucchi, il mondo applaude.
Su canti d’elegia ghigna l’orrore.

Parlo per lei per noi che sconteremo
mani a premere teste giù nell’acqua
il lezzo criminale dei proclami
e la complicità che allaga il male nostro.
                                
                  
                      

Dalla sezione Di tanto azzurro


Quiet breathing*

E sogni dolci,
fiato quieto a nutrire
la resistenza.

E sempiterna
sia la gioia del vero
né mai sospesa.

* da un passaggio in: John Keats, Endymion

 

 

Nata a Roma nel 1960, Anna Maria Curci insegna lingua e cultura tedesca in un liceo statale. È nella redazione della rivista “Periferie”, diretta da Vincenzo Luciani e Manuel Cohen; per il sito “Ticonzero” di PierLuigi Albini ha ideato e cura la rubrica “Il cielo indiviso”. Ha tradotto, tra l’altro, poesie di Lutz Seiler (La domenica pensavo a Dio/Sonntags dachte ich an Gott, Del Vecchio 2012), di Hilde Domin (Il coltello che ricorda, Del Vecchio 2016) e i romanzi Johanna (Del Vecchio 2014) e Pigafetta (Del Vecchio, di prossima pubblicazione) di Felicitas Hoppe.
Ha pubblicato i volumi di poesia Inciampi e marcapiano (LietoColle 2011), Nuove nomenclature e altre poesie (L’arcolaio 2015), Nei giorni per versi (Arcipelago itaca 2019).
Insieme a Fabio Michieli è direttore, caporedattore ed editore del lit-blog “Poetarum Silva”.

Francesca Del Moro

11 aprile 2019

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Martirio e poesia: testimonianza, astuzia, scandalo, interrogazione inesausta, ferita aperta, prodigio d’amore. No, non è una mescolanza casuale di concetti contrastanti, fumo negli occhi per stemperare, annullandolo, il paradosso, per distogliere dalla temerarietà del filo rosso prescelto, dal momento che il martirio è divenuto a sua volta categoria abusata e martoriata. Niente di tutto questo, bensì, in una sequenza in cui ogni elemento è intimamente collegato all’altro, un insieme di nodi e gangli, un universo di costellazioni di significato che brillano e illuminano, si illuminano vicendevolmente e schiudono alla vista possibili sentieri interpretativi.
Costellazioni, tutte, che si sono animate, nelle successive riscritture, di cui sono stata felice testimone, dell’opera di Francesca Del Moro, dalla stesura iniziale fino alla versione che si presenta qui a chi legge. Il percorso tra i termini enunciati in apertura sarà dunque una breve
ricostruzione del divenire di un’opera e, insieme, un tributo alla parola poetica che ne è scaturita. L’itinerario comincia dunque con ‘testimonianza’, termine che intendo accostare al greco martyrion, al suo equivalente in una lingua che, proprio alle origini della Chiesa cristiana, comincia a diffondere con un’intensità non conosciuta prima questa parola e a conferirle una connotazione particolare, vale a dire “testimonianza di fede con il sacrificio di sé, con il proprio sangue”

Nella raccolta La statura della palma sono tredici martiri dei primi secoli del cristianesimo a dare testimonianza, attraverso il loro canto, non solo di una fede vissuta con estrema consapevolezza, ma anche di una morte cruenta, frutto di uno scontro – l’amore e la “sete insondabile e perenne” di assoluto avvertiti come emancipazione totale dalla schiavitù da un lato, la repressione violenta del potere dai tratti esplicitamente patriarcali dall’altro – affrontato, da parte delle «tredici donne bellissime e dallo sguardo fiero» che narrano il loro martirio, con una capacità argomentativa non comune.
[…]

(dalla Prefazione di Anna Maria Curci)

 

FELICITA

Io sono l’assenza.
Sono la mancanza, il vuoto, il volto
per scherzo disegnato dalle ombre della notte.
Per scherzo, per celia verso il suo bisogno.
Il buco in cui precipita nel sogno.
La mano che non la coprirà
per proteggerla dal freddo. Sono
le braccia che si sciolgono, il diniego.

Rimango accanto a lei, così.

E la tengo qui con me, nel cielo
che rigonfia di spavento, nella terra
fecondata dalla mattanza.
Il suo pianto si dilata, ingrossa
sulle bocche che chiamano la morte
nelle fauci delle fiere, della vacca scalmanata.

Quanto è grande, Signore
il dono che mi hai dato e che ti rendo.

Appena in tempo per morire insieme ai tuoi
ho mosso un passo troppo breve
dal sangue di puerpera al battesimo di sangue
dall’ostetrica al reziario.

Ho un cerchio di braccia a contenere
le gambe disabituate al passo lieve.
Sono un frutto morbido, sgranato.
Un giorno lei saprà che non ho pianto.

Il sole a occidente annega nel suo sangue
presto anche il nostro scenderà.

Nell’ora in cui si mette il punto, nell’ora cupa della fine
offro i seni fiorenti ai morsi delle belve.
Ma a spezzarmi è un dolore più forte.
Perché io muoio a lei e lei mi muore.

Il corpo arretra in sé, da sé si esclude
data una figlia, nel dies natalis io mi do alla luce.

Ma quanto è grande, Signore, questa rinuncia all’amore.

Cado e Perpetua mi solleva, non trema il suo viso d’acciaio.
Si è ricomposta la veste, ha raccolto i capelli col fermaglio.
Dice in silenzio: “Non sarai femmina schiava del grembo
ricorda Abramo pronto al sacrificio

pensa a Medea forte nella vendetta.
Ama Dio più di lei, amalo fortissimamente”.

Dalla ferita aperta, ora mi genero alle tue mani
alle tue mani imbrattate delle nostre carni
le mani impregnate di tutti i nuovi nati.

Scende la quiete, il pianto tace.
La morte a me verrà più dolce di ogni dolcezza di madre.

                          

LUCIA

Se anche mi strappassi gli occhi
Signore
per mandarli come biscotti
su un vassoio d’argento al mio aguzzino
oppure offrirglieli come margherite
se come lunghe lacrime li spremessi fuori
se li svitassi come lampade a rischiarargli la notte
ti leggerei con le dita l’alfabeto delle ferite.

Rinuncerei allo sguardo
innamorante, dove brilla
lo Spirito che fatto stella
ornò il capo di madre
le sciolse il gelo nel grembo
e nel mio nome pronunciò
la luminosa promessa.

Di luce avvolsi Siracusa
venuta al mondo, e la Sicilia tutta.

Chi non riesce a contrastare
la mia eloquenza e lo sguardo
oggi mi manda al lupanare.

A nulla valgono però
mille servi a trainarmi
né funi ai piedi e alle mani
né cento carri di buoi.
Rimango salda come acciaio
e come acciaio esco temprata
dalla pece infuocata.

La folla invoca la spada.

Ora s’invera in te la vista.
Ti leggo tutti i nostri nomi
a uno a uno sulle labbra.

“Perché col mio sangue, Padre
chiami altro sangue innocente?
Perché togli memoria alla tua Chiesa
che farà martiri come queste?

Perché questo squartare incrinare sventrare
questo guastare spezzare ardere ammaccare
questo strozzare soffocare spezzettare eccetera?

Non ti fanno spavento questi morti a tua immagine?
Dimmi, padre, tutto questo a che vale?”

Parli con la stessa voce
che nell’orto del Getsemani
s’impigliava tra le foglie.

Come allora ovunque sale
il respiro formidabile del padre
del padre che tace.

Ma per me è già troppo tardi.

Non posso più rinunciare, non è tempo
per questo genere di ripensamenti.

Così cadranno insieme al capo
i miei occhi lucenti.

 

 

 

Trovo molto interessante la scelta dell’Autrice di far confluire in poesia fede, nonfede, filosofia, nel riscatto della sofferenza femminile che è un tacito urlo, una sfida al divino che non conosce vero amore.
O
pera originale e proteiforme.
Illuminante la notevole sintesi di pagina 31.

cb

Francesca Del Moro

19 aprile 2018

FotoDelMoro          copertina una piccolissima morte

 

Ho comprato le lenzuola
il copriletto gli asciugamani
gli accappatoi ho scelto tutto
con cura ho ponderato bene
quale musica suonare, Hindi Zahra,
perché forse non la conosci
e infonde energia positiva
mi sono alzata all’alba ho preparato
un riso e un’insalata particolari
perché vuoi stare leggero
ho tostato le mandorle infornato
la schiacciata condito le friselle
ho preparato la zona aperitivo
e quella pranzo in giardino
ho immaginato i tuoi passi
dall’una all’altra le parole
da dirti ho esposto i libri
i dvd e i dischi più belli
mi sono fermata ogni tanto
per sciogliere il respiro
fermo nella gola ricacciare
indietro il pianto – quanto
ti ho aspettato, quanto –
ho infilato in una borsa
qualche volume e un vinile
da donarti ho fatto il bagno,
ho avvolto il mio corpo
nella crema agli agrumi,
nel profumo abbinato,
ho messo l’intimo di pizzo bianco
appena comprato, lentamente
mi sono pettinata truccata le labbra,
solo quelle come sempre, ho indossato
un abito blu e una collana crema
come le scarpe col piccolo tacco
ho provato i miei movimenti
l’accoglienza il benvenuto
l’abbraccio i possibili argomenti
la casa ordinata è bagnata di luce
mi rallenta il battito accelerato
mi calma le gambe che tremano
dalle mie mani l’amore si irradia
indora ogni oggetto ogni superficie
nell’amore ogni cosa risplende

*

Ho spremuto tutto il sole
in un calice e in padella
ho mescolato i rossi i verdi
i bianchi i viola, li faccio risuonare
con i canti di cicale. Oggi è il giorno
in cui verrai, il giorno della gioia,
lo spillo nel tempo, la data
che sparirà dai calendari.

*

Io un lunghissimo bacio
e lentissimo ti darei
fino a sparire in te
e tu in me
finché si disfa il tempo
si dissolve ogni cosa
e si fa buono il silenzio
che ora mi addolora.

*

China su di te
contenendoti
ti sono scesa
negli occhi
come pioggia
nel mare
annerito
dalla notte.

Cerco stelle
per nuotare
a riva.

L’acqua pesa
il fondo
mi lusinga.

*

Il coltello è fermo
in mezzo al petto
sento il freddo
del metallo, il taglio
ostacola il battito
costringe il respiro
a un percorso alternativo
spacca il corpo
longitudinalmente
io gli tremo intorno
e lentamente mi separo.
*
La parte di me che muore
si dibatte in fondo al petto
pescetto spiaggiato
l’occhio vitreo.

È sporca di sabbia
e schiuma scura
la parte di me che uccidi.

*

Era tutto bellissimo secondo te
bellissima la casa bellissima la voce
di lei che cantava in fondo ai nostri sospiri
bellissimi i libri e il disco che ti ho dato
bellissima ero io e squisito il cibo
e magnifici i seni che ti ho posato sulle mani.

Poi è arrivato il taxi, si è chiusa la porta
e hai stretto il sacco dell’immondizia
intorno a quell’ingombro di bellezza.

Francesca Del Moro è scrittrice, traduttrice, editor, performer e organizzatrice di eventi legati alla poesia. È nata a Livorno nel 1971 e vive a Bologna. È laureata in lingue e dottore di ricerca in Scienza della Traduzione. Ha pubblicato le raccolte di poesia Fuori Tempo (Giraldi, 2005), Non a sua immagine (Giraldi, 2007), Quella che resta (Giraldi, 2008), Gabbiani Ipotetici (Cicorivolta, 2013), Le conseguenze della musica (Cicorivolta, 2014), Gli obbedienti (Cicorivolta, 2016) e Una piccolissima morte (edizionifolli, 2017). Nel 2014 LaRecherche.it in collaborazione con Poesia 2.0 le ha dedicato l’ebook antologico Interni, notte. Ha curato e tradotto numerosi volumi di saggistica e narrativa ed è autrice di una traduzione isometrica delle Fleurs du Mal di Baudelaire, pubblicata da Le Cáriti nel 2010. Ha contribuito come poeta, traduttrice e performer ai cataloghi, alle opere di videoarte e alle performance di presentazione delle mostre collettive di arte contemporanea Scorporo (2011), Into the Darkness (2012) e Look at Me! (2013), tutte curate da A. M. Soldini. Propone performance di musica e poesia insieme alle Memorie dal SottoSuono, con cui ha inciso due brani inclusi nelle compilation Leitmotiv 13 (2013) e Leitmotiv 14 (2014) prodotte da Fuzz Studio e ha partecipato alla realizzazione del primo album omonimo (2016). Nel 2013 ha pubblicato la biografia della rock band Placebo La rosa e la corda. Placebo 20 Years, edita da Sound and Vision. Dal 2007 organizza eventi in collaborazione con varie realtà bolognesi e fa parte del comitato organizzativo del festival multidisciplinare Bologna in Lettere. Cura la rubrica “Poemata. Versi Contemporanei” per la rivista ILLUSTRATI edita da Logos.

Francesca Del Moro

6 settembre 2016

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Francesca Del Moro, Gli obbedienti, Cicorivolta Edizioni, 2016

    

           

La nuova silloge poetica di Francesca Del Moro, Gli obbedienti, si struttura attorno a due intenti ossimorici: in primo luogo, nel coniugare metri e forme tradizionali ad una materia del tutto contemporanea; e, in secondo luogo, nel mettere in rapporto il sentimento della commozione interiore (scaturigine per lo più camuffata di questi testi) con l’oggettività ed il disincanto della rappresentazione.

E, però, proprio da questa rinuncia a mettere in campo le emozioni, per dare spazio soltanto a minimi gesti ed eventi, al ritmo annichilente di certe vite proiettate in realtà ripetitive, disumane e alienanti, alla solitudine senza scampo di tante persone sottratte anche ad un fuoco ideologico di speranza, ad una coscienza politica della propria biografia di ubbidienti al sistema (così come aveva preconizzato Pier Paolo Pasolini), sembra sprigionarsi un nuovo urlo münchiano, alto e solitario nel vortice dei colori sanguigni di una disperazione profonda.

Francesca Del Moro mette così la propria poesia al servizio dell’Uomo, aiutandolo a riprendersi il proprio “io” umiliato da una struttura sociale agglutinante e perversa nella sua falsa apparenza democratica; a capire la distanza sempre più ampia tra oggettualità e spiritualità, tra le esigenze del corpo e quelle interiori.

In altre parole, la poeta cerca di ricostruire attraverso l’ordine e l’invenzione del suo versificare (che spesso finisce con l’assumere un tono categorico e perentorio) quell’interezza che l’uomo contemporaneo sembra avere perduto. Di riscrivere una sorta di “Manifesto” contemporaneo che inciti i moderni schiavi del sistema ad una ribellione, in nome non soltanto di una più sana e corretta economia, ma di un ripristino dei valori più autentici dell’umanità.

Il pregio della silloge consiste certamente in questo suo fortissimo impegno civile, ma io non mancherei di sottolineare anche la novità di una struttura quasi documentaristica dei testi, la cui disposizione mi ha dato l’impressione di vedere un cortometraggio sulla giornata-tipo di un lavoratore/lavoratrice: dal suo istupidito risveglio mattutino fino all’insopportabile stanchezza serale, di fronte alla tv o accanto ai letti dei propri bambini, sperando per loro un destino diverso.

Accanto agli “ubbidienti” si muove il mondo dei borghesi arricchiti, dei potenti, dei rampanti “di buona famiglia”, che si beano dei nuovi riti mondani, come quello dell’aperitivo, e che per lo più sfoggiano il loro inglese del tutto affaristico per sottolineare la propria diversità elitaria.

Come scrive Anna Maria Curci nella sua bellissima ed articolata post-fazione, si delinea, dunque, “chiaro ed insopprimibile l’intento della parola, gesto meditato, rivolta, testimonianza, strappo, critica, memoria”.

Franca Alaimo

                                                                              

                                                                                                                                      

*

transumando
rumore di porte del treno
che fischiano e chiudono
clang clang
scalpiccio di rapidi passi
che pestano pozze
ciaf ciaf
ecco i cappotti gli ombrelli
le borse le ore
tic tac
le ore le ore le ore
che inseguono svelte
le ore che spostano corpi
come lancette
                                  
                                 
*
Non le serve un sonnifero,
se non punta la sveglia
lei non si desta.

Tiene per mano il sonno,
si lascia proteggere
da braccia immaginarie.

Le sole cose da fare
sono quelle necessarie
e il tempo fa paura.

È come una malattia,
una voglia dolce di morire,
un prendersi cura.


*
Dopo un film di Monicelli, tornando

Quella massa di cafoni
affamata, cenciosa e sporca
sembrava un’enorme famiglia
era capace di una lotta.

Erano quattordici le ore
che pesavano su di loro
mentre voi ne fate nove
anche se in busta sono otto.

Ti torna in mente quella volta
– oh molti anni or sono –
in cui l’impronunciabile parola
ti sfuggì di nascosto.

Quando hai parlato di sciopero
per qualche giorno stranamente
non hai avuto più nessuno
con cui prendere il caffè.
                              
                             

*
Ballyturk

trema la musica
nel corpo tremano
i muri e si dissolvono
nel buio affiorano antichi
visi custodi di risposte
riposano i tuoi morti
in fondo alla sua voce
si inchioda nel tuo occhio
il suo azzurro stupore

                                  

                              

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Francesca Del Moro

13 Maggio 2016

GLI_OBBEDIENTI_cover_fr(1)

GLI_OBBEDIENTI_cover

 

 

XXII

Eccole le camicie bianche
giovani rampanti twitteggianti
bicoz ol de uorld lav Itali iu nou
ui ev de rinascimento en de pizza
bat ostriche a cena coi potenti
e poi risate e parole strafottenti
verso la gigantesca e ondosa
massa indistinta degli schiavi
cornuti mazziati e contenti.

 

 

XXV

Ce l’hai fatta per fortuna
ad augurargli la buona notte,
gli hai rimboccato le coperte
e poi hai spento la luce.
“Per te sarà tutto diverso”
gli hai sussurrato prima di andare
come diceva sempre tuo padre.

               

                             

XXX

Al concerto
uno si è messo nudo,
così, per fare il figo.
La gente lo guardava storto,
poi è arrivata la polizia
ma quello stronzo
non si rivestiva.
Anzi rideva
e li prendeva per il culo,
con quell’uccello
penzoloni all’aria.
Ma ecco che i tutori della legge
lo sbattono per terra
e con un paio di scariche elettriche
lo fanno smettere di ridere.
La scena tu non la vedevi bene
su Repubblica Tv perché ti distraeva
il tondino sempre in movimento
che copriva le vergogne del signore.
Ma ancor più ti divertiva
e ti faceva troppo ridere
lo spot della crema rassodante
con cui il video di denuncia
iniziava e finiva.

                                 


LXXXI

LXXXI

È sera
spegnete tutto, tirate
un sospiro di sollievo,
prendete le vostre cose,
date un rapido pensiero
al cielo che si rompe
e arrossa dietro il vetro.
                   

                                       

XC

Il bianco ha già invaso
tutti gli occhi e tu vedi
solo cose ormai vecchie
come le stelle spente.
Non vi scontrate, ché i passi
sono gli stessi di sempre.

  

Francesca Del Moro è scrittrice, traduttrice, editor, performer e organizzatrice di eventi legati alla poesia. È nata a Livorno nel 1971 e vive a Bologna. È laureata in lingue e dottore di ricerca in Scienza dellaTraduzione. Ha pubblicato le raccolte di poesia Fuori Tempo (Giraldi, 2005), Non a sua immagine (Giraldi, 2007), Quella che resta (Giraldi, 2008), Gabbiani Ipotetici (Cicorivolta, 2013) e Le conseguenze della musica (Cicorivolta, 2014). Nel 2014 LaRecherche.it in collaborazione con la rubrica Poesia Condivisa nel portale Poesia 2.0 le ha dedicato l’e-book antologico Interni, notte. Ha curato e tradotto numerosi volumi di saggistica e narrativa ed è autrice di una traduzione isometrica delle Fleurs du Mal di Baudelaire, pubblicata da Le Cáriti nel 2010. Ha contribuito come poeta, traduttrice e performer ai cataloghi, alle opere di videoarte e alle performance di presentazione delle mostre collettive di arte contemporanea Scorporo (2011), Into the Darkness (2012) e Look at Me! (2013), tutte curate da A. M. Soldini. Propone performance di musica e poesia insieme alle Memorie dal SottoSuono, con cui ha inciso due brani inclusi nelle compilation Leitmotiv 13 (2013) e Leitmotiv 14 (2014), prodotte da Fuzz Studio, e ha partecipato alla realizzazione del primo album omonimo, uscito nel marzo del 2016. Nel 2013 ha pubblicato la biografia della rock band Placebo La rosa e la corda. Placebo 20 Years, edita da Sound and Vision. Dal 2007 organizza eventi in collaborazione con varie realtà bolognesi e fa parte del comitato organizzativo del festival multidisciplinare Bologna in Lettere. Cura la rubrica “Poemata.Versi Contemporanei” per la rivista ILLUSTRATI edita da Logos.

Francesca Del Moro

2 dicembre 2014

FotoDelMoro

 

LE_CONSEGUENZE_DELLA_MUSICA_cover_fronte

 

Da: Le conseguenze della musica, Cicorivolta 2014

 

Io quel suono
avrei voluto prenderlo in braccio
e accarezzarlo
tanto era morbido e dolce
come il suo inaspettato
slancio fraterno
che mi ha spostato
il cuore da una parte.

*
Come posso fare ora
le cose che devo fare
ora che sono
così riempita di luce
che i confini della pelle
si dissolvono.

Lo stridere che non capivo
era di porte che si aprivano.

Chi l’avrebbe detto
che sarei stata letto di fiume
allo scorrere del suono
nato dal poeta
che non ho mai sentito
fino in fondo.

*
Cosa non faremmo
noi
per un’imitazione d’amore,
un’impressione di tenerezza,
un abbraccio simulato,
qualche distratta carezza.
Cosa non faremmo.

*
Ferroso e freddo
è il cielo del mattino,
si chiude a coperchio
sull’attesa.

Ma io sento
il sapore del sole
tra le labbra
al pensiero
dei giorni a venire
e che tu ci sarai.

*
(Alle nove del mattino)

Pulisciti i piedi
sullo zerbino
sfilati l’amor proprio
silenzia la coscienza
preparati un sorriso
ed entra.

*
Le schiene impaurite
sono curve sulle scrivanie,
separate dalle mura
della loro solitudine.

Ai bimbi porteremo
la minestra in tavola
e non insegneremo nulla.

Gli occhi fissi sullo schermo
aspettano solo la fine del giorno.

E io sulla tastiera batto
la mia rabbia senza sbocco.

*
Gli autobus vanno avanti
sospinti dalle ore.
Ho gli occhi pesanti,
il corpo spossato,
i pensieri distanti.
Guardo le persone,
le loro facce stanche,
guardo il finestrino,
come se la strada che scivola,
i brutti caseggiati
e le spente campagne
nascondessero qualcosa,
non so,
un amore.

Un amore
per cui valga la pena
tutto questo,
un amore che aspetta.

*

È tutto qui?
È davvero tutto qui?
Cosa?
La vita.
Cosa dici, figlia,
finché c’è la salute,
alzati, avanti, stira
quella pila di panni,
riordina la casa, non vedi
che è sporca, fa schifo,
approfitta del fine settimana,
da lunedì non ce la farai,
che devi andare al lavoro,
ringrazia iddio che ce l’hai
ancora, un lavoro.

*

Una goccia d’olio
è caduta sulla tovaglia
mentre mi ripetevo
devo devo devo.
Ho un pensiero bizzoso
e un filo di pianto
che mi scivola dentro.
Con lo sguardo offuscato
ora fisso la macchia.
E sul pavimento sporco
anche il mio corpo
è una chiazza che si allarga.

*

Chissà se lui sente
la carezza dei miei occhi
sulla sua schiena
ogni volta che esce.

 

 

Dalla Postfazione di Martina Campi:

È l’amore che non si può non scrivere, che trascina con sé ben oltre ogni inimmaginabile conseguenza. Forse là dove si nasconde il mistero di tutto questo, la poesia, la mancanza, ogni forma del coraggio, e il loro senso. Come se il senso fosse qualcosa di speciale, che ti cambia la vita. La vita qui sta nella poesia. La poesia che scatena (al)la vita.

 

Per ogni tu: irraggiungibile, reale o immaginario, presente o ricordato, c’è un corrispondente io. Io ruolo, io definizione, io sagoma stilizzata, io vuoto, io lavoro, io casa, io poesia. Io corpo.

E se spesso l’io assume il ruolo della mancanza, della nostalgia, persino della bruttezza, altrettanto spesso, forse come il plasmare del suono sul cuore di creta, mostra la propria nudità nell’incondizionata disponibilità all’accogliere (Ti ricevo / come una pioggia di gioia. // I tuoi occhi, la tua bocca, / la tua voce / che non sa di raggiungermi), o lasciar andare, per poche ore o per sempre (Chissà se lui sente / la carezza dei miei occhi / sulla sua schiena / ogni volta che esce), a proteggere e aspettare. Nel risplendere (Come posso fare ora / le cose che devo fare / ora che sono / così riempita di luce, / che i confini della pelle / si dissolvono). Questo è il suono (o il sogno, dispensatore di realtà quasi tangibili, quasi), la musica che fa tremare, squarcia, e insieme illumina, abbraccia, consola. Ogni amarezza vi scorre scivolando, sciogliendosi in nodi di malinconia, bagliori di luce, istanti di contemplazione. Adunata di versi che si fa leggere in continuo addentrarsi, e confonde, riflette (in) ogni forma, non lascia tranquilli, chiama dentro senza avvisare, né chiedere il permesso, ma non per dispetto, piuttosto come occasione da cogliere, che in ogni momento si può rifiutare, o rimandare. Mentre ti ferisce e guarda sanguinare e allo stesso tempo ti colma di una dolcezza sconfinata, quasi incontenibile.

 

Francesca Del Moro è scrittrice, traduttrice, editor, performer e organizzatrice di eventi legati alla poesia. È nata a Livorno nel 1971 e vive a Bologna. È laureata in lingue e dottore di ricerca in Scienza della Traduzione. Ha pubblicato i libri di poesia Fuori Tempo (Giraldi, 2005), Non a sua immagine (Giraldi, 2007), Quella che resta (Giraldi, 2008), Gabbiani Ipotetici (Cicorivolta, 2013), Le conseguenze della musica (Cicorivolta, 2014). È autrice di una traduzione isometrica delle Fleurs du Mal di Baudelaire, pubblicata da Le Cáriti nel 2010. Fa parte del collettivo artistico Arts Factory, con cui ha realizzato opere di videoarte e videopoesia. Ha contribuito come poeta, traduttrice e performer ai cataloghi, alle opere di videoarte e alle performance di presentazione delle mostre collettive di arte contemporanea Scorporo (2011), Into the Darkness (2012) e Look at Me! (2013), tutte curate da A. M. Soldini. Alcune sue poesie sono incluse nelle antologie Il ricatto del pane (CFR, 2013) e 100.000 poeti per il cambiamento. Bologna – Primo movimento (Qudu libri, 2013). Nel 2013 ha pubblicato la biografia della rock band Placebo La rosa e la corda – Placebo 20 Years, edita da Sound and Vision. Cura la rubrica Poemata. Versi Contemporanei sulla rivista ILLUSTRATI edita da Logos e scrive di musica per il magazine Sound and Vision.

In copertina:
“Dream of Paper “, fotografia digitale, modella: Jara Marzulli, © Angela Regina 2012

Francesca Del Moro

12 luglio 2013

FotoDelMoro
foto di Valentina Gaglione

                        

                    

                        

La scrittura di “Gabbiani ipotetici” è piena, diretta, immediata, facilmente comprensibile, mette in scena un concetto, una situazione, uno specifico accadimento, un disagio. Insomma, così come ha scritto Giacomo Cerrai in una recensione: “è priva di trabocchetti metaforici, di roba da decifrare. Molto semplicemente: Dice quel che deve dire”.

Questa scrittura se da un lato potrebbe risultare ultima e definitiva vuoi solo per il carattere perentorio che pervade ed avvolge i testi, e forse anche escatologica, cioè rivolta alle cose ultime e a una loro eventuale prosecuzione (per quanto idealizzata), dall’altro lato è invece rivolta alle cose “prime”, o meglio primarie: l’amore, quello perduto, quello cercato, quello ottenuto, quello mancato,  e poi il sesso, la famiglia o le famiglie, sia quelle anagrafiche, sia quelle acquisite o quelle cosiddette ideologiche, e ancora il cibo, l’alcol, la droga, la religione non intesa in senso lato e con un approccio generalistico,  ma, per così dire, fraintesa e messa in discussione nel rapporto diretto e personale con dio, un rapporto che le consente di interrogare quel dio e di pretendere delle risposte, e non è finito: ci sono l’indignazione e le rivendicazioni sociali, la politica, la guerra (si vedano le poesie “Avvento – ninna nanna di Hiroshima” e “Kim Phuc”), i miti letterari e musicali, insomma: la vita e in ultima istanza la morte (una sola citazione a titolo d’esempio: “Forse la verità è che solo così / la vita trova il suo senso / e glielo dà la parola fine”). Tutto questo passando attraverso precisi riferimenti al suicidio e – soprattutto – passando attraverso la parola più ricorrente nell’intera opera: il sangue. Sì la parola sangue – mi sono soffermato a contare quante volte questa parola appare nei testi: 24 volte.  Si potrebbe parlare di una catena patemica o, se mi concedete l’acrobazia, di un patema d’animo, di un’ossessione, o meglio ancora, analizzando i contesti che questa parola va di volta in volta a caratterizzare e a significare, di una sorta di fluido necessario al compimento di un atto, alla sua risoluzione in termini di ultimità, proprio perché associata, di volta in volta, per esempio: al suicidio, ad un pestaggio, allo scoppio di una bomba, e via dicendo. Salta subito agli occhi che non si tratta di una casualità, ma che è una scelta lucida e premeditata. Anche laddove non viene scritta letteralmente, esiste sotto forma di metafora o resta comunque sottintesa nel testo, come ad esempio nelle frasi “mi taglio le vene” o “una bambina nuda, ustionata, ferita, eterno simbolo”. Senza considerare la poesia titolata “Guerra” dove la parola sangue, se non espressamente scritta, è sottintesa in almeno 5 dei periodi che la compongono.

Ma – naturalmente – non c’è solo il sangue. Abbiamo accennato ad una poesia diretta, immediata, quasi priva di metafore. Come per esempio “Aborto” che qui vi vado a riportare: “ Il dubbio l’attesa / l’angoscia la paura / la speranza il diniego / la scoperta lo stupore / la paura le parole / le parole le lacrime / le grida il dubbio / l’analisi i pro e i contro / la previsione il confronto / il rovello le parole / la decisione le lacrime / il rimpianto le visite / la prenotazione il rimorso / l’angoscia la paura / il dubbio l’attesa. // Tutto questo / in un attimo / è sparito / nei loro occhi / pieni di disprezzo / e il cestino del pattume / in mezzo alle gambe / ha fatto il resto”. Cosa accade qui? Ad una prima parte analitico-patologica segue una seconda parte socio-esistenziale e solo apparentemente risolutiva. Ma non è tutto, la prima parte, quella elencativa, comincia e finisce con le stesse quattro parole: dubbio, attesa, angoscia, paura. Come a dire che nonostante tutto l’iter delle somatizzazioni psico-esistenziali, alla fine ci si ritrova sempre al punto di partenza – le sensazioni, le emozioni, le preoccupazioni sono sempre le stesse. E questo vale per tutti i temi trattati, si potrebbe dire, bistrattati in quest’opera, questo vale per l’amore, per i fallimenti, per la rabbia e per l’indignazione, per i rimpianti, insomma per tutte le cose che appartengono alla vita, che caratterizzano e segnano la vita, quella vita da rincorrere e in cui rincorrersi, come espressamente dichiarato dall’autrice in diversi e svariati passaggi. A solo titolo d’occorrenza: “La mia famiglia / è questa gente / che incontro / con cui scambio / occhiate parole / conoscenza / e a volte sesso / e a volte amore / e aiuto se ce n’è bisogno / e comunque e sempre / vita”.  C’è poi un’altra poesia in tal senso emblematica, “Il referto”, di cui vado a riportare le ultime due strofe: “E adesso / te ne rendi conto / che sei una macchina, / nient’altro, / una combinazione di cellule / e organi e tessuti, / un congegno, / per quanto tu dia importanza / a ciò che chiami anima, pensiero, / già funzioni male, / a che ti servono l’anima, / il pensiero, il senso della vita, / ti romperai, ecco tutto. // Tra poco sposterai / i tuoi obiettivi: / niente più amore, carriera, / amici, sogni, passioni, / figli, filosofia, ma solo / la manutenzione infinita, / i mille piccoli e grandi interventi / che consentano alla macchina di funzionare ancora, / di continuare caparbiamente / a svolgere quell’attività indispensabile / che noi chiamiamo vita”. Da questi presupposti diventa inevitabile arrivare fino al completamento della vita, ovvero alla morte, una morte che attraversa tutta l’opera, quasi come se volesse accompagnarsi a braccetto e viaggiare di pari passo col sangue. Abbiamo diverse tipologie di morte, per così dire, al lavoro, quelle conseguenti ad atti cruenti e rivestite di un carattere sociale, quelle per così dire idealizzate (come ad esempio quando scrive: “io accarezzo il progetto / di diventare unica per te / morendo”, e ancora, in un altro testo: “appena ho un momento libero / finalmente una buona volta / quasi quasi io mi uccido”) e quelle direttamente riferite all’ospite che vive tra le righe, ovvero a quella presenza che attraversa numerose parti dell’opera e che porta un nome e un cognome. Qui la morte è reale, vissuta quasi sulla propria pelle. Sono le poesie dedicate all’amico Massimiliano che avrebbero potuto essere riunite anche in un’apposita sezione, ma Francesca Del Moro ha inteso disseminarle lungo tutto l’arco dell’opera, come per conclamare questa presenza continua, una presenza sì fantasmatica ma per lei, per l’autrice, reale e concreta. Detto questo, per concludere, vorrei riportare una dichiarazione che l’autrice ha rilasciato in un’intervista realizzata da Alessandro Brusa. Alla domanda: “Chi sono questi gabbiani ipotetici?”, Francesca Del Moro risponde testualmente: “Sono i gabbiani di cui parla Gaber in ‘Qualcuno era comunista’. La nostra natura più autentica, che ci portiamo dentro mentre ci trasciniamo dalla nostra casa al posto di lavoro e poi ancora a casa, mentre ci rendiamo ‘presentabili’ ed eseguiamo i riti che abbiamo assimilato più o meno consapevolmente. Il gabbiano è quella parte di noi che, anche se siamo bloccati a terra, continua ad aprire le ali con l’intenzione di volare. Quello che io cerco di mettere a fuoco in questa raccolta è il quotidiano conflitto, doloroso ma ancora fonte di speranza, tra queste nostre due nature”.

 (Enzo Campi)

          

                 

Bisogna scrivere un romanzo
Massimiliano, scusa,
ma per un po’ mi verrà da imitarti,
mi dispiace ti conosco poco
e forse ti sto pure sui coglioni.

Però ho imitato, o meglio ci ho provato,
Sarah Kane Elfriede Jelinek Thomas Bernhard
Ungaretti Anais Nïn John Donne Baudelaire
Drago Jančar Samuel Beckett Pavese Dante Ezra Pound
e altri che non mi ricordo.

Quindi non ti incazzare.

Il tuo libro ce l’ho sotto mano
e anch’io come te non riesco
a trasformare le mie esternazioni
in 150 pagine di romanzo.

Bisogna scriverlo per forza,
altrimenti con la poesia
non ci si filerà nessuno.

Lo so che tu racconti
di droghe di cui non so i nomi
e di dark room sudate
e sborrate gay a tutto spiano

e ogni tanto ci infili anche l’amore
e qualche domanda sublime
ma più che altro infili cazzi dappertutto.

Io tanti cazzi tutti insieme
li ho presi una volta sola
e in un paio di occasioni
ho anche leccato un po’ di fighe,
ma droga niente e canne poche,
tossendo un po’ perché non fumo,
alcol invece molto di più
ma quasi sempre senza vomito.

Però per qualche ragione
mi trovo bene nel tuo mondo
e a mio modo
anch’io non ce la faccio e smanio,
mi sento esclusa, e vorrei tanto
trasformare in qualcosa
la mia vita smodata disperata
piena di cose da dire come la tua, ma non
in 150 pagine di romanzo.

                 

Agnese

Guardiamo verso riva
anche se il mare
è mosso e sporco.

Non ci vediamo
da una vita
e in poche frasi
raccontiamo anni interi
e ridiamo e scherziamo
come se fossero stati
tutti anni leggeri.

Ma io non ho visto
dietro le fosse dei tuoi occhi,
nei gomiti puntuti,
nelle sporgenze delle ginocchia
il racconto sincero
degli anni del tuo dolore,
nella tua carne mangiata
non ho riconosciuto
la crudeltà del disamore.

E pensare che eri la più bella
di tutte noi
e che nessuna ti invidiava
per quella inconsapevolezza
dolce e gentile
con cui indossavi
la tua bellezza.

                        

Guerra

Quando colpisci il tuo simile
e godi del sangue che cola
non dimenticare che
Dio ti guarda.
Quando gli mozzi le membra
gli recidi la gola
Dio ti guarda.
Quando sganci la bomba
che falcia cento vite
come giovani spighe
Dio ti guarda.
Quando violi la donna
del tuo nemico
come fosse un bottino
Dio ti guarda.
Quando schiacci la testa
a un bambino e guardi
schizzare il cervello
Dio ti guarda.
Quando lo lanci per aria
e lo centri come fosse
un piattello
Dio ti guarda.
Quando fremi di piacere
nell’umiliare, stuprare,
torturare, mutilare,
spezzare, soffocare,
dissanguare, spappolare,
Dio ti guarda
e ride come un matto,
si gratta il culo divino,
infila la mano nei pop corn,
prende un sorso di birra e rutta.
Si compiace
della sua creatura
perché a nulla è servito
lo smacco dell’albero proibito
vince sempre la natura
predatoria, vince la legge
del più forte.

                      

Il volo

Chissà, se piango,
fin dove arriveranno
le mie lacrime,
in che momento
si disperderanno
nell’aria, di certo
non toccheranno terra
e così vorrei fare io
sparire
passare da questa
insignificante materia al nulla,
o l’infelicità o il nulla,
diceva Leopardi, hai ripetuto tu,
scegliendo alla fine il nulla
perché l’infelicità
l’avevi consumata tutta.
Sparire a metà strada
senza far paura
a nessuno, senza un tonfo,
senza il disastro del corpo,
che a terra si rivelerebbe
per quello che è:
materia,
un meccanismo che si è rotto,
chissà perché ci fa orrore
tutto questo, il sangue,
le ossa spaccate, la faccia
disfatta, l’interno che appare,
lo sappiamo cos’è no?
Una cosa, una cosa rotta,
una cosa da buttare.

                

Visitazione

Le mie confortanti
immagini di morte e tu
angelo strano
appoggiato al muro
con una birra in mano.

Nel buio umido
di foglie verde scuro
i tuoi occhi soli
rilucono.

“Se abbandoni il tuo sogno
non potrai stare con te stessa.
Se il tuo sogno fallisce
ti sentirai morire
ma avrai tentato almeno
perciò mettici il cuore
e brucia ogni ponte
che ti lascerai dietro.”

                             

Francesca Del Moro è scrittrice, traduttrice, editor, performer e organizzatrice di eventi legati alla poesia. È nata a Livorno nel 1971 e vive a Bologna. È laureata in lingue e dottore di ricerca in Scienza della Traduzione. Ha pubblicato quattro raccolte di poesia: Fuori Tempo (Giraldi, 2005), Non a sua immagine (Giraldi, 2007), Quella che resta (Giraldi, 2008), Gabbiani Ipotetici (Cicorivolta, 2013). È autrice di una traduzione isometrica delle Fleurs du Mal di Baudelaire, pubblicata da Le Cáriti nel 2010. Fa parte del collettivo artistico Arts Factory, con cui ha realizzato opere di videoarte e videopoesia. Ha contribuito come poeta, traduttrice e performer ai cataloghi, alle opere di videoarte e alle performance di presentazione delle mostre collettive di arte contemporanea Scorporo (2011), Into the Darkness (2012) e Look at Me! (2013), tutte curate da A. M. Soldini. Alcune sue poesie sono incluse nelle antologie Il ricatto del pane (CFR, 2013) e 100.000 poeti per il cambiamento. Bologna – Primo movimento (Qudu libri, 2013) e ha contribuito con una traccia alla compilation Leitmotiv 13 prodotta da Fabio Fanuzzi detto Fuzz. Dal 2007 cura eventi dedicati alla poesia e dal 2012 collabora al progetto “Letteratura necessaria. Esistenze e resistenze” ideato e condotto da Enzo Campi. Fa parte del gruppo 77 di poeti attivi a Bologna. Cura la rubrica Poemata. Versi Contemporanei sulla rivista ILLUSTRATI edita da Logos e scrive di musica per il magazine Sound and Vision. Le sue poesie e traduzioni di poesie sono state pubblicate all’interno di libri, riviste e blog di settore. Scrive in italiano, inglese e francese.