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Franco Casadei

14 ottobre 2016

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Franco Casadei, La firma segreta, Itaca edizioni

La poesia ci chiama alla vita, alla nostra e a quella altrui; è sempre comunitaria, fa gruppo, si dona ad uno sguardo attento, pervasivo, fugge il superficiale abbandono all’emozione, l’ottusità, il gioco fonico che alfabetizza l’intelligenza.
Sfugge l’io solingo pieno di sé che non lascia spazio agli altri, eppure insieme ai cromosomi siamo identità costruite dagli eventi, dagli incontri lungo l’asse sincronico del tempo. Siamo così come siamo perché nati in questo frammento di secolo, fra cocci, macerie e muraglie, sordi spesso agli umani richiami, attenti ai richiami di fate Morgane.
La poesia è un dono esigente che nelle due facce porge nell’una vitalità, nell’altra nequizia.
Ho fra le mani il quarto libretto di poesie di Franco Casadei e la sua voce mi suona famigliare, mi sento in consonanza. Afferma che le poesie contenute in questo libro nascono da una corrispondenza non cercata con alcuni articoli a firma di Marina Corradi apparsi su “Avvenire” e su “Tempi”.
Non ho alcun motivo per non credere all’affermazione e ne ho invece per esserne partecipe come lettrice.
Già nelle opere più recenti abbiamo riconosciuto un Casadei meno aggrovigliato nella sua testimonianza di Fede, più vicino ai fratelli, quelli meno fortunati, e alla natura che esplode sempre nella sua bellezza e si fa mito e metafora, causa ed effetto della nostra esistenza, soprattutto dono.
Un giornalista di cronaca censisce alcuni eventi e li trasporta sulla carta stampata per renderli maggiormente visibili, per condividerli, forse, per approfondirne le stratificazioni di sensi e di significati.
Mentre il giornalista ha per limite il numero delle battute, il poeta opera per sottrazione, cerca di arrivare alla nudità del vero. Insieme possono star bene se ciascuno conserva la specificità della sua forma di comunicazione.
Mi pare che Franco vi sia riuscito; l’articolo è il pretesto attraverso il quale cesella il suo canto, forse sarebbe più corretto dire il suo pianto.
La cronaca irrompe in queste poesie con voce non flebile ma neppure urlata, condivide uno spazio mentale che non è solo del poeta ma anche del lettore.
In questi tempi di anime arrese / cosa sta all’inizio, cosa giace sul fondo / si tace in omertosa intesa / resta un buco nero, / la sorda malinconia che ci accompagna.
La confessione della nostra impotenza trasformata in malinconia, perché quale altro fare resta? Un intellettuale può presentarci dei senzatetto che abbiamo evitato e finto di non avere visto, un addio fra vecchi sposi (pag. 16), bellissimi versi, la solitudine della città, la metropoli che si fa gabbia di fiera coi tirassegno e gli autoscontro.
Casadei fa nomi, non si cela nel generico, chiama ciascuno alla propria dolente individualità, in quel luogo, in quell’ora. Milano come il Lacor Hospital di Gulu dove si è dato fondo anche al dolore. Eppure il sentimento dell’umana vicinanza (misericordia?) resiste in un angolo in ciascuno di noi e andiamo in cerca di una porta aperta, della firma segreta che sta dentro le cose. Il fato è cieco: ha da esservi un progetto.
L’andirivieni poetico di Casadei, dentro e fuori gli ospedali, le case del dolore, la pietas verso il transeunte, il lungo elenco delle mestizie e degli abomini, giustifica da credente il male di vivere e la croce (pagg.32 /33); la poesia intensa ma pacificata termina:” Non è l’indifferenza delle nuvole / che ti permette di stare davanti al male, / ma quella croce forse / e l’accettarne ogni mattina / un piccolo frammento sulle spalle.”
Non tutto è detto e non tutto è concluso perché : “nell’ora dell’andare / si resta come rondini/ sospese fra partire e stare.”
Un altro scarno mannello di poesie spazia fra argomenti vari ma tutti godono di un dettato pacato, di metafore ardite ben calibrate, di cesellature di senso.
Indubbiamente, forse solo per affinità, trovo questo libro il più profondo e il più coraggioso di Casadei; forse qualche poesia aveva bisogno di un maggiore labor limae, il risultato finale tuttavia prende per l’emozione e per l’intelligenza.
Posso aggiungere che la lingua di Franco è padroneggiata e riconoscibile, che raramente scivola in basso o svola troppo in alto. E’ un libro che ambisce farsi leggere e l’obiettivo è raggiunto.

Narda Fattori

Normalmente, le parole dei giornali si scorrono e si buttano via. Questa volta, invece, per il singolare incontro a distanza con l’amico Franco, le mie parole sono state raccolte,
trasfigurate, ricreate, e sono diventate altro – qualcosa che appartiene a lui.
L’esperimento, singolare, lo giudicheranno i lettori. lo posso dire solo che l’anima delle mie cronache non è stata tradita, e ne ritrovo la traccia in tanti versi.

Dalla postfazione di Marina Corradi

                             

                                    

MILANO, QUANDO IL CIELO SCHIARA

L’ora in cui questa città è più vera
la mattina, quando il cielo schiara.
L’ora in cui Milano si alza, si affretta e palpita,
le finestre illuminate in un rapido susseguirsi
le colonne di auto che incalzano alle sue porte
e ai caselli i fari, occhi impazienti, accesi.
La colonna sonora di Milano:
borbottii di caffettiere
rombo di motori messi in moto,
l’impercettibile rimbombo del metrò
che corre spedito nel cuore della terra,
il frastuono degli ultimi camion della spazzatura
mentre ingurgitano cassettoni gonfi di rifiuti,
poi lenti si avviano verso le periferie
come animali notturni che quando nasce il giorno
si nascondono nelle loro tane.
Si agita una febbre in questo collettivo
veloce alzarsi e correre al lavoro e a scuola.
Quale tristezza trovarsi dentro questo vortice
e non avere un luogo dove andare.
Quanti, senza nessuno che li aspetti,
restano a dormire o speranzosi
leggono le offerte di impiego sui giornali.

Mentre nelle chiese si celebra la prima Messa
si invoca il pane quotidiano,
la maggioranza della gente che corre
stamattina, là fuori, forse non sta pregando.
Eppure, nell’affrettarsi sui banchi e negli uffici,
una grande domanda resta ferma nell’aria .
in questa mattina d’autunno, nel Cielo di Milano.

                           
                                        

ADDIO FRA VECCHI SPOSI
Milano, I985

Sera di luglio, un’afa soffocante sul Naviglio.
E domenica, le strade silenziose e vuote.
Si ferma un’ambulanza a sirene spente,
i lettighieri scendono con una lentezza strana.
Sulla barella una donna anziana
mortalmente pallida, con gli occhi chiusi.
Le è accanto il marito: «siamo a casa, cara».
Incrocio lo sguardo di un barelliere: è morta,
forse lo era già negli ultimi istanti in ospedale
quando, per fare contento il marito,
l’hanno rimandata a casa.
Ma lui – ignaro? – continua a parlarle,
le dice che ha fatto la spesa,
in frigo c’è qualcosa da mangiare.
I giovani lettighieri e io ammutoliti
per questo addio fra vecchi sposi.
Il marito inizia a parlarmi lieto, per un istante,
di violare la sua murata solitudine.
Il sole rosso fuoco intanto
va calando, giù in fondo al Naviglio.
                                          
                                                                         

I CLOCHARDS MONTANO DI GUARDIA

Milano, corso Vittorio Emanuele
Passate le nove di sera, gli ultimi negozi
hanno calato a metà le saracinesche:
ne escono, chinando la schiena,
giovani commesse stanche.
La folla degli acquisti se ne è andata
lasciando sui marciapiedi carte
biglietti di tram, scontrini accartocciati.
Il corso sembra la sala di una festa
quando l’ultimo invitato si è congedato.
Ma è anche l’ora in cui, nel cuore di Milano,
si insedia un altro tipo di uomo.
Sotto ai portici i clochards
sistemano il giaciglio per la notte.
Due, ancora giovani, piazzati
l’uno accanto all’altro i sacchi a pelo,
si mettono a contare una manciata
di spiccioli, la cassa di giornata.
Un vecchio invece si è sdraiato, quasi dorme,
stretto a un cane come un bambino
che la sera stringe il suo pupazzo,
così che anche un uomo da tutti abbandonato
                                                                    
                                      

LA FIRMA SEGRETA

Chi cuce
la trama del destino,
segretamente imbastendone
il disegno?
Il caso?
o una mano misteriosa
che tesse,
costantemente tesse
il tuo cammino?
L’enigma irrisolto,
la mancanza sento, una mancanza,
la firma segreta
che sta dentro le cose.

                     

OLTRE IL SEGNO

La luce è un filo alla finestra
che adombra un’invisibile presenza

per andare altrove
non occorre andarsene lontano,
ciò che sta oltre il segno
richiede un istante di libertà, di sosta

la verità
sta in un’ansa recondita dell’anima

                                      
                                                 

E’ UN VELIERO IL MERCATO STAMATTINA

Nel cuore dell’estate, il silenzio dell’alba
infranto dall’insediarsi del mercato,
arrivano camion e furgoni carichi di merce
parcheggiano con manovre lente ed esperte
si aprono i portelloni, si scaricano casse
si alzano tende e teloni con pochi ordini
gridati in abili e consumati gesti
in ogni sfumatura di colore
si dispongono sui banchi frutti e verdure
il pesce che profuma ancora di mare
i formaggi con fierezza allineati in grandi forme
i venditori di stoffe, i tessuti sgargianti
l’odore del cuoio di chi vende scarpe e stivali
verso le sette le prime donne con sacche e sporte
Resta negli occhi l’immagine di quelle corde
tese come cime e i teli stesi come vele
e i pesi di cemento calati a terra
come ancore nel porto.
È un veliero il mercato stamattina
una folata di vento fra le nostre case.

                                         

ATTRAVERSANDO LA CASTIGLIA

Vegliano sui nostri passi
di vedetta, immobili
le cicogne appollaiate
sui campanili e sui camini.
Nidi solidi di ramoscelli intrecciati
reggono il vento
avvinghiati a tetti e a croci.
Le rondini impazzite
paiono nugoli di bambini gioiosi
all’uscita dalla scuola.
E i falchi, nobili e austeri
– le ali dalle larghe tese –
calano improvvisi
e, come aerei da guerra,
da subito riprendono quota,
volteggiano sui prati
in traiettorie radenti a cercare prede.
Nelle campagne assolate
il grano maturo danza
nelle sue onde ampie e mansuete.

Franco Casadei

1 aprile 2014

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Ci sono poesie che fanno i luoghi, che li rendono indistinguibili da esse. Casarsa non è più la stessa dopo che Pier Paolo Pasolini l’ha fecondata con le sue poesie, Pienza ha smesso di essere soltanto uno straordinario paese contadino della Val d’Orcia dopo che Mario Luzi ha reso inscindibile l’impasto della sua lingua con quelle terre e colline. Casarsa, Pienza, Cervia con Tolmino Baldassari, Pennabilli con Tonino Guerra, sono diventati molto più di se stessi dopo che un poeta ha animato quei luoghi con versi che si sono amalgati come argilla con quegli spazi.

E’ rarissimo che ciò accada. La vallata tra Collinello e Polenta, a Bertinoro (Forlì-Cesena), non è più la stessa dopo che Franco Casadei ha composto una delle poesie più straordinarie che abbia letto negli anni, “Bruno e Rosalba”, in memoria dei suoi giovani fratelli lì scomparsi. Dall’atto della scrittura di quella poesia, quel luogo è mutato: quel luogo respira di quella poesia, e quella poesia respira di quegli spazi. Non a caso “Bruno e Rosalba” è anche fisicamente murata ed esposta con una piccola targa dipinta tra quelle colline. Passandovi tutti la possono leggere, a prescindere dal libro che la contiene, ancora una volta dimostrando l’intreccio così profondo e civile che lega la poesia alla vita quotidiana e alla memoria collettiva delle persone.

Ma quella poesia adesso è anche in un libro complessivo di Casadei “Il bianco delle vele” (Raffaelli editore, 2012). In pochi poeti italiani (tra gli attuali Rondoni, nei predecessori Testori, Luzi, Turoldo) si legge uno stesso movimento, seppur maturato con stili e perizie diverse: la poesia c’è in quanto soprattutto forza agente, che vuole cristianamente incidere e agire. “Nell’ora culminante / la morte non riempie l’orizzonte”, Chi regge la terra è il cielo”: questi versi, come in molti altri nel percorso del libro dallo sgomento alla speranza, dimostrano che il volto di Cristo, nelle poesie di Casadei, non si vuol nascondere. Non esiste una lingua cristiana. Ma una determinazione cristiana sì. E questo volume ne è un forte esempio.

Luca Nannipieri

 
Bruno e Rosalba*

Quella sera, dopo la fiumana, la riva
sfaldata al gioco delle vostre corse
ingenue, non siete tornati

e io, di tre anni, tre giorni
sulle ginocchia di mia madre,
abbracciato al suo dolore.

Adagiati su legni di porta, dalla bocca
un rivolo sottile di bava, di melma,
gente dai casali, dai vigneti e donne e vecchie
– un mormorio sommesso per l’aia –
chi si segnava, chi portava acqua, chi lenzuoli
e fiori, due uomini in nero dagli sguardi lunghi

e io, di tre anni, tre giorni
su quel grembo duro di singhiozzi
in attesa di un risveglio
come quando Rosalba e Bruno
si fingevano, per gioco, morti

stagioni di silenzio, di respiri grandi
come il vuoto, troppo lungo il gioco…
non aspetto più i loro scherzi, i salti
con la corda, mia sorella che mi spettinava

quel ventuno settembre piangevo
per venire al fiume, avreste custodito
i miei tre anni, vi avrei salvato, forse,
forse avete salvato me.
———-
*In memoria di Rosalba e Bruno di 11 e 12 anni,
fratelli maggiori dell’autore, annegati insieme
nel 1949 nel torrente Ausa che attraversa
il terreno di proprietà della famiglia
sulle colline romagnole.

 

 

Partire soltanto per vedere il mare

Una volta nella vita, all’insaputa
partire solo per vedere il mare
spiando con ansia quel punto di strada
in cui, lo sai, apparirà all’orizzonte
la linea che non si può varcare

come un clandestino addentrarti poi
in uno di quei borghi accalcati
sopra i sassi, concederti al vento,
portarti via quella luce come fossi un ladro

tornare a casa e solo tu a saperlo.

 

 

I girasoli

Solenni e fieri
nel pieno dell’estate
e sull’attenti

a inizio autunno,
a capo chino
come seni stanchi,
una schiera di soldati
annichiliti e vinti.

 

 

La donna della carrozzina bianca
A una donna senza nome

Da anni lo stesso perimetro di spazio,
ai lati della chiesa al far del giorno
la notte sotto i portici al riparo,
la carrozzina bianca di bambina.

Nei giorni del vento e della vela
ti sei lasciata andare, era d’autunno
con il suo scialo di nuvole e di foglie,
le vene del collo raccontano il dolore,
ne avverto lo sguardo che sfiora le mie mani.

Arrivato l’inverno l’aria affila
il gelo, mangi piatti grami,
una notte di nebbia ti ha dissolta
sono rimasti i muri e un’eco della tosse.

Romagna, torno alla mia terra

Torno alla mia terra, alle mie colline
fra i colori di un’estate prolungata

mi è stato dato questo sguardo largo
Bertinoro, la sua rocca
la pieve di Polenta
le vigne che mani contadine hanno dipinto
tra case e macchie di boscaglie

lontano, là
l’ultimo lembo di piana
e all’orizzonte infinito il mare
che nei giorni di chiaro
regala il bianco delle vele

sono nato qui
e qui respiro.

Franco Casadei – nato nel 1946 a Bertinoro in provincia di Forlì-Cesena.

Medico otorinolaringoiatra, vive e lavora a Cesena.

Ha pubblicato le raccolte  di liriche “I giorni ruvidi vetri” (Il Ponte Vecchio, Cesena, 2003); “Se non si muore” (Ibiskos, Empoli, 2008); “Il bianco delle vele” (Raffaelli Editore, Rimini, 2012).

-Primo classificato nei premi di poesia: Ungaretti, 2005; C. Levi, 2005; Giovane Holden, 2008; Città di Venezia, 2013; “C. Pavese”, per medici scrittori, 2013; G. Gozzano  di Agliè, 2013.

-Fra i primi classificati nei premi: Neruda, 2006; D. M. Turoldo, 2011; J. Prevert, 2011; Kafka, 2012; “Ossi di Seppia”, 2012; Premio nazionale di Filosofiasez. paradossi, 2012.

– Sue poesie tradotte in spagnolo e in lingua romena. Fra gli ideatori de “La poesia nelle case”, proposta di modalità di divulgazione della poesia in vari luoghi delle città.