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Giovanni Catalano

2 Maggio 2016

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Notizia

Oggi si muore di tutto.

Non toccarti gli occhi.
Siamo per metà di qua,
metà di là.

Non ci sono numeri,
senti negli occhi la febbre.
Fai conto che io lo scriva
e poi chiuda la busta.

A quanto si legge
ti addormenti in un giorno,
ti svegli in un altro.

Ogni giorno si muore
di qualcosa.

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Giovanni Catalano

24 aprile 2013

 Giovanni Catalano

 

La poesia quasi sempre si mostra come una vertigine dell’animo, una fiumara che risale dal ventre e che la mente argina e mette in “forma”,  si palesa talvolta in un bel gioco di parole in contrasto o in assonanza. Tuttavia la poesia è anche ascolto e visione, intelligenza ed emozione, ed è anche tante altre cose che nessuno mai ha saputo darne una definizione soddisfacente.

Spesso i poeti non sanno perché scrivono, non sanno niente dell’ispirazione, di urgenze romantiche, di impulsi coattivi…  Direi per fortuna.

Catalano appartiene a questa schiera di “poeti per caso”, definizione non riduttiva, anzi, la considero una definizione consapevole della precarietà della poesia, della sua fragilità e della sua forza. Già da tempo la poesia ha cessato di agire sulla realtà e sebbene resista una solida tradizione di poesia civile anche perché il poeta è cittadino all’interno di una comunità, e natura e cultura ne cementano l’identità; tuttavia la poesia anche nelle sue forme più estreme non vuole interrompere il flusso della comunicazione.

Le poesie di Catalano si connotano proprio per la loro capacità fluida di porsi in relazione simpatetica e comunicativa, relazione possibile perché egli si cerca e si dice nei moti più comuni del suo essere, spogliati di ogni aura, quasi con notazioni stupefatte, a volte ironiche. L’amaro dell’assenza di ogni giustificazione all’esistenza è stemperato nel destino comune che ne diluisce l’asprezza “Ogni giorno si muore/di qualcosa.”

L’amore che di solito grida o sussurra, qui è presentato come un accidente della vita, un accidente che non la sostanzia, né la perde; la colora, la connota, la penetra e poi la sfugge. La poesia che ci viene presentata parla sempre al presente, ma lo sguardo è ora volto al futuro, ora al passato. Tuttavia anche la memoria ammutolisce e davanti al luogo di una strage acuisce solo lo sguardo, diventa compulsiva nei gesti. Tace. E nel silenzio affonda un dolore profondo.

L’ultima poesia, specialmente, è intinta con inchiostro struggente; parla d’amore, forse, ma è un amore che non è qualificato verso una precisa amata (potrebbero essere anche la madre o la figlia); la malinconia che la pervade, malgrado l’immagine bellissima della conta dei capelli, è della fine, perché anche i capelli potranno essere contati tutti. C’è come un’insufficienza dell’amore o una nostra incapacità a preservarlo. Le poesie di Catalano portano su gracili spalle (lessico quotidiano, versi non ricercati, nessuna forma di retorica, musica appena andante) le gracilità delle nostre esistenze, precarie, a volte vuote o dotate di un labile senso. E’ una poesia che fa della comunicazione e dell’antiretorica gli strumenti per raggiungerci e affratellarci. Ora e qui, dove si vive.

Narda Fattori

                          

Gli scrittori della domenica

Domenica è l’unico giorno
in cui dormo dieci ore
non undici o nove
dieci ore di fila.

Non è una scelta
o un bisogno,
non ha a che fare con la sete
o con il resto del sonno.
Non ha a che fare con l’amore

né tanto meno
con la luce del bagno.

                          

                       

Notizia

Oggi si muore di tutto.

Non toccarti gli occhi.
Siamo per metà di qua,
metà di là.

Non ci sono numeri,
senti negli occhi la febbre.
Fai conto che io lo scriva
e poi chiuda la busta.

A quanto si legge
ti addormenti in un giorno,
ti svegli in un altro.

Ogni giorno si muore
di qualcosa.

                  

                      

L’inferno

Sono pesci di mare,
non puoi sbagliare.

Anche stare con te
è un posto buono
per pescare, vicino al faro.
Tutto è già accaduto
almeno una volta
se non su questa barca
da qualsiasi altra parte.

Se dipendesse da noi.
A me quel posto
ricorda in ordine:
i giochi, i baci, le voci.
Tu che mi dici:
dormi, che non ho
detto nulla.

Avevo cominciato
a svegliarmi di notte.
Forse perché ogni volta
che mi hai lasciato
la moltiplico
per ogni donna che ho amato
o che amerò dopo di te.

Così rifaccio colazione
(così o in un altro modo)
e stendo un velo di burro
sul pane duro di un albergo.

O uscito fuori,
sorrido a cameriere
bianche e blu
come la Grecia.

Il sole ti risplende
sulla fronte, alla ringhiera.

Sai da qui
si può vedere tutto
quello che abbiamo
                   fatto in questi anni.

E accontentarci.

                    

                        

La rivolta dei lenzuoli

Quando dei volti amati
si perderanno i tratti e resteranno
le stanze senza musica

o nella polvere delle mansarde
le borse di pelle
piene di carte di giornale
accartocciate,
i due cappelli di lana,
un vecchio abete artificiale.
Le lenzuola di flanella.

Non sarà facile.

Già adesso pensa
a quando torniamo in auto
dall’aeroporto di Punta Raisi
e all’altezza di Capaci
smettiamo all’improvviso
di chiamare le cose
coi loro nomi

osserviamo i lunghi monumenti,
le gallerie, i guardrail.

Con il tramonto negli occhi,
gli occhiali scuri.

Che la memoria è una nuvola
che passa e ci nasconde.

L’odore che non dura
della macchina nuova,
questo paesaggio
che fa di me un bugiardo.
Allora penso ai morti.

Che la mia morte
sarà comunque diversa
o che siamo felici
e anche per questo
non possiamo essere felici.

Perché lo so, vediamo
che è un giorno buono.

Siamo qui
ma sono io, sei tu
e oggi, domani dico
non avremo giorni migliori.

Nemmeno noi
che di questa vita
abbiamo amato gli angoli
e nella notte gli altri
poco prima di svegliarsi.

Persino noi,
la stessa distanza.

Piegati in due
a far combaciare i lembi
tra l’indice e il pollice
e un passo contro l’altro,
in due, in quattro, in otto.

                            

Maschere

Staccavo i biglietti
nel buio della sala
e tu sceglievi
l’ultima fila.

Poltrona centrale
o vicina al corridoio
per tenere fuori
almeno una gamba
e dondolarla
come un cane
infine sciolto.

Sul tuo posto vuoto
lasciavi la borsa
come per dire
che esisti.

Io non ho mai saputo
se ti alzavi verso il bagno
o sparivi per sempre.

Così restavo un altro po’
sul feltro blu delle poltrone
dopo i titoli di coda
ancora un po’

nonostante la luce
accesa e divisa
a tutti in parti uguali.

                      

                              

Genetica

C’è un pensiero che viene
dietro come un cane.

Ma qui oggi c’è abbastanza
di cui essere felici:
basta X per diventare Y.

Quello che non abbiamo,
quello a cui rinunceremo
per ottenerlo.

Le scarpe nuove,
offrire un posto da sedere.

Oppure questo, l’undicesimo verso,
il dodicesimo adesso.

               

*

Ho voglia di svegliarmi
e stare sveglio.

Ma non ho scritto niente,
mi sono riposato.

Ognuno avrà le sue ragioni
per dormire.

Sa che siamo sempre qui.
Non è per quello, non solo.

Un fermo-immagine,
uno zoom.

Le croci verdi
delle farmacie di guardia,
le t dei tabaccai,
le luci buone
di via della Moscova
dopo la neve.

Tutto ieri,
tutta la notte
ha nevicato.

Non nevica molto.

Le insegne sporgono
dai piccoli negozi
che oggi restano chiusi
come i libri.

Ma la neve ci soffoca.

Allunga la notte,
nessuno sa niente.
Anche il medico smonta
dal turno.

Tu no, ti prego
non dormire, parlami
perché ancora non so
quanti sono i tuoi capelli.
E se cominci dai capelli
o, come tutti, dalle dita.

E se in qualche modo
che nemmeno conosci
anche tu, come il sonno, finisci
quando finiamo di contare.

                           

                          

Giovanni Catalano è nato a Palermo nel 1982. Attualmente vive a Pavia e lavora a Milano come consulente nel campo delle telecomunicazioni. Di poesia ha pubblicato Immaginate la ragazza (Lampi di Stampa, 2009) e L’amico di Wigner (Lampi di Stampa, 2011)  per la collana Festival diretta da Valentino Ronchi. Altri testi sono presenti su riviste e antologie.