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Giuseppe Martella

11 novembre 2022

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Ho sempre pensato che l’ispirazione a scrivere poesia contenga una sorta di rivelazione, una misteriosa comunicazione che dal poeta giunge al suo lettore.
Quando questo accade, ci si sente partecipi, avvolti da quella stessa aura d’ineffabilità che aveva suggerito al poeta il suo dire.
La poesia di Giuseppe Martella mi fa un incantevole effetto. È come se un respiro pronunciasse all’orecchio i suoi versi, quasi a trasmetterne uno speciale segreto.
In questi testi l’agilità sostiene la bellezza (categoria non sempre del tutto spiegabile, né confrontabile) e trasmette l’armonia in guizzi di colore imprevedibili, in un affascinante percorso poetico-filosofico che oltre alla vividezza d’immagini immediatamente fruibile dà altro significato al senso compiuto del vivere.
Sono poesie che inducono alla riflessione, come se si fosse messi di fronte a un paesaggio di cui prima non avevamo notato i particolari più importanti, così importanti che nello scorgerli appieno, ci comunicano ulteriore bellezza, pace, speranza.

cristina bove

                         

                       

                                   

Per ipotesi

Ma sì, ma quando, ma poi,
se tutti noi
fossimo presi per incantamento
e trasportati indietro e poi in avanti
fuori del tempo e dentro,
presi e sorpresi dai futuri istanti
indifesi
e prendessimo le cose con i guanti
al fine,
e oltre il confine dell’io ce le spartissimo
spezzando il pane insieme,
finalmente, dimenticando Iddio.
                 
                  
                       

                         GRAN CANARIA

Gran Canaria

Azzurro, azzurro
azzurro il cielo, trasparente è l’aria
dopo la pioggia rara del mattino
fine fine battente
la pioggia mattutina a Gran Canaria.
Azzurro azzurro che scema nel celeste
celeste il cielo
azzurro il mare, bianchi i cavallucci
riccioli bianchi, spuma sulla roccia
che scende sui tuoi fianchi
isola d’aria
la pioggia mattutina ti ha vestita a nuovo
nutrito ha il poco verde, che nella roccia
si perde e al mare mira diventando muschio
mischia l’aria col sale – e fischia una leggera brezza
sul celeste che rischia di annegare –
isola d’aria persa in mezzo al mare.

***
E la figura nell’ovunque luce
svanisce e si dà pace finalmente
si piega come il gambo sulla terra
– è passato un giorno, soltanto un giorno
è passato –
la terra tace, assorbe, riconduce
tutta l’acqua di luce alla sorgente
la terra riproduce fiori e frutti
e tutti quanti ritorniamo alla terra,
tutti ritorniamo alla terra dalla luce.

***
Celeste celeste blu blu celeste
bisogna mischiare i colori
prima di trovare la tinta giusta
celeste blu blu blu celeste
e sfumare sfumare dimenticare
annegare le forme nei colori
un sollievo per l’occhio e per la mente
la forma che si pente nella vita
e si smarrisce e sfuma –
buona fortuna a te, buona fortuna.

***

E così via, raccogliendo per strada
i lacci e le conchiglie e i ricci
gli stracci – le caccole dei cani
gli impicci fra ieri e domani
raccogliendo, scartando
facendo insomma le pulci alla vita
con le dita nude –
doloranti magari, gli occhi stanchi
davanti sempre a un mucchio di rifiuti
e quanti quanti sempre più davanti
sfaticati, stenti sulla strada
quasi sfiniti tutti, tutti quanti –
quasi arrivati, e neppure mai partiti.

***

Scogliere, sassi, sterpi sui dirupi
serpi, forse annidate
nei calanchi
l’isola mostra i fianchi scavati
le gengive dei denti
avvelenati dal cemento
e sento gemere piano le radici
dei radi alberi, zolle di verde
perse nel mare d’azzurro
chiaro scuro di mare e cielo
con qualche vena di ruggine
negli occhi, qualche stilla di sangue
nell’oro di conchiglia
nell’eco martoriata dei riflussi
delle maree, dei tremiti profondi
delle faglie
nelle aeree schermaglie degli alisei,
nell’antico rifugio degli dei.

***

Ogni macchia, lasciata sulla strada
intrisa di semenze
ogni cosa derisa, attende
di essere ripresa, condivisa
come un’ostia dissacrata,
attende di essere ancora una volta
spezzata, spezzata come pane
diluita, stinta, poi bevuta
tutta d’un sorso –
la macchia sul dorso della tua mano
il fuscello nell’occhio
e dire piano, e dire piano piano
sempre più piano dire
sempre più vano il tuo fletterti
in ginocchio (pregare)
la macchia densa
che sta fra il dire e il fare.

***

E prendi la misura, giusta finché ne hai tempo
e prendi il tempo a tua misura
magari a usura, prendilo a prestito
qui se è il caso – tanto
tutto è in affitto qui un tanto al mese
il sole l’aria il mare
il passeggiare così senza pretese,
silenzioso diletto, scendere giù dal colle
senza musica né donne né locali costosi
senza neanche voci quasi
se non quelle delle onde sulle rocce
dell’ultima caletta, della casa dei ricci
dove la tua ombra ti aspetta
in un canto, il solo riparato dal sole
e lì prendi il respiro delle onde
a tua misura – inali forte, trattieni il fiato
e fiuti l’aria a occhi chiusi
salsedine aria pura
misura del respiro, finché dura.

***

                      L’ORA BRUNA DEL PRESENTIMENTO

Le ore sono parole da non dire
e passano altrove e si
disfanno sempre l’una e l’altra
– l’ora bruna del presentimento –
come nube leggera dagli orli illuminati
arancio, rosso perché viene
perché viene sera prima o poi
nell’ora stessa come quando bussa
alla tua porta
il pellegrino sempre più inatteso
sempre più vicino che lo confondi
col tuo stesso profilo che passa
per la cruna dell’ago,
e sì foggia un angolo protetto
come una tortora che si fa un nido
di straforo
nel sottotetto della tua dimora.

***

Non ho parenti, sono solo al mondo
sono un bimbo strambo
perennemente in cerca di adozione
se piango canto la stessa canzone
di sempre –
e mi sovviene il tuo volto parente
madre dai tanti volti ormai dispersi
semicancellati, sovraimpressi occhi sbarrati
madre che urli dalla finestra e sbracci
e mi chiami –
di giudicare io non ho il diritto
il bene e il male che mi hai fatto.
Io sono qui per te natura che non mente
sono tuo figlio, qui, sulla soglia del niente.

***

Mi disse: tu mi piaci. Sposami.
Cavolo, dissi, ci debbo pensare!
Mi guardava fisso con gli occhi spalancati
e dentro gli occhi precipitava il mare.
Sì, d’accordo, sarai dunque mia sposa
– era spuma di vento –
capelli mossi fulvi dai riflessi cangianti
Le dissi sorridendo: io però sai devo partire
sempre
sposarsi sì vabbè si fa per dire,
ci incontreremo talvolta a mezza strada
tra nord e sud tra cielo e mare
e tanto basta no? Uno sguardo al volo
un cenno della mano – sognava
ad occhi aperti – Ci sposammo
in un giorno di sole intenso sul sagrato
di una piccola chiesa – arrivai in ritardo
lei mi attendeva ansiosa ma sorridente –
in ritardo poi lo sono stato sempre
E lei sempre mi ha atteso, paziente
la mia sposa.

***

Ci siamo già lasciati: ora mi dici
non ti conoscevo a fondo
anzi per niente,
ora ritorno,
sai, saremo felici. Ma
ti guardo e mi confondo
e che sarà mai codesta ombra
che mi molesta nel caldo mezzogiorno?
E poi chi se lo aspetta mai un ritorno
dopo tanto tempo!
Ho il forno acceso e mi si brucia il timballo
di riso con cura preparato da mia moglie
– ecco qui sta l’impiccio: le doglie della vita
i rami spogli, sparuti
stenti
che seguono al cadere delle foglie.

***

Andare e non andare: non capire
venire al dunque, poi perseverare
fuggire all’ultima ora
– ora è lo stesso –
e mi capita spesso quest’ora incerta
dove non so chi sono,
e non so a chi chiedo, se mai chiedo
per forza o per amore. Se
tu ci fossi, e se non fossi io,
chiederei perdono a te – perdono a Dio.
                          
                                                   

                                   

                                Postfazione di Rosa Pierno

Attraverso la lettura della prima raccolta poetica di Giuseppe Martella, Porto franco, si scopre di essere entrati in uno studiolo degli esperimenti in cui le ipotesi, che sono già normalmente coltivate in un ambito di incertezza, sono, per sopraggiunta istanza sperimentale, anche immerse nella contraddizione. Ciò fa diventare la miscela esplosiva, ancor prima che sulfurea. Si tratta di ipotesi di lavoro tenacemente attaccate alle loro confutazioni come le peonie di mare allo scoglio: non pongono soluzioni che preve-dano la distinzione, l’operabilità della differenza. Designano un luogo non alchemico, che tuttavia produce l’affondo sui limiti del pensabile. Ne consegue che risultano nettamente delineati anche i profili delle aggettanti ombre in campo ludico. Codesta attitudine della poesia è irrinunciabile, essendo essa artificio. La poesia porta con orgoglio tale medaglia; ciò equivale a porre la sua ironica lungimiranza in bella mostra!
Ma per meglio intendere i termini della questione e la modalità con cui il poeta affronta tale tenzone, è necessario definire le due minacciose leve della tenaglia, ma anche gli stati d’animo in gioco. Le prime poesie, briose, allegre, di una sorprendente levità e ariosità, aventi sonorità rapenti, un certo ravvivato fischiare montaliano, indicano che la vita e la morte sono espresse all’interno dei cicli della rinascita. Le forme compiute si sfaldano in una giostra di nuovi inizi. Ad uno sguardo più ravvicinato, lontano dalle alte sfere, le cose appaiono come resti, rifiuti, inutili ingombri. Un tarlo buca l’areostato, le sensazioni (quelle sensazioni che Mach eleggeva come unico elemento da prendere in considerazione) divengono numericamente ingestibili: la spola istituita tra la sfera dei processi e quella degli oggetti produce dolore, il male di vivere. L’indivisibilità a cui accennavamo all’inizio fa parte di un pacchetto ingovernabile: non si può ordinare, non si può separare il bene dal male, non si può trovare un senso unitario che inglobi l’esistente. Se è vero che non sembra esserci alcun punto di contatto fra la meraviglia che il creato suscita e il «cartoccio di paranza fresca» del desinare e se persino la vita ritorna «secca e muta nei suoi argini», tuttavia non ha senso nemmeno separare l’afflato che comunque si prova per il cosmo e per la propria esistenza. In fondo, l’aria sembra essere, e vale per l’intera raccolta, un filo rosso: l’aria che ritempra e gli aperti spazi del cosmo che ridimensionano formano una sorta di oscillazione che ruota su un medesimo perno. Misura e dispersione procedono insieme.
Dal materialismo iniziale Martella giunge ben presto al recupero di ciò che è spirituale. Regge poco il materialismo delle prime fasi, della gioventù, la lucreziana danza degli atomi. Presto giunge il momento in cui pregare fa parte dell’oscillazione: «sempre più vano il tuo fletterti / in ginocchio (pregare)». La luce abbagliante si mostra in grado di chetare l’animo. D’altra parte, la morte non è esorcizzabile, anche se inserita in un ciclo «e spreme e preme alla bocca dell’anima / come un vuoto pulsante: la paura». Il corpo stesso viene vivisezionato e ricomposto «nei meandri di un labirinto / senza centro». Veri e propri miraggi di concerto con le sembianze polimorfiche di un io che risente del passaggio nelle varie età esistenziali fino ad assumere le forme della natura, la voce del mare. In questo senso, la raccolta si configura come un poemetto delle varie fasi della vita sullo sfondo della ciclicità co-smica. E diversa è dunque la voce iniziale, primaverile, aerea del-le prime poesie e quella dorata, e in svolgimento amorfo dell’età più matura.
In siffatto moto, il sistema linguistico è messo alle strette, non tramite una riduzione delle sue componenti poetiche, ma attraverso equivalenze e sostituzioni concettuali. Senza cioè sopprimere le potenzialità ritmico-intonazionali del verso, il lavoro poetico di Martella si svolge tramite la messa a tema di concetti culturalmente inseparabili: Dio-luce, colore-forma. Per ipotesi, è infatti una poesia che esplicita proprio tale teorema: quei sistemi di idee che tentano di narrare di Dio, («fuori del tempo e dentro», «oltre il confine dell’io») eliminando l’idea del divino che è associato ad essi, non suonano forse come svuotamento dei concetti che dovrebbero suffragare? Non determinano, cioè, l’annullarsi del secondo termine dell’uguaglianza? Ecco dunque che l’inseparabilità, solo apparentemente paradossale, è in realtà pienamente artificiale e giunge alla sua maggior altezza nel linguaggio poetico, lì vivendo interamente la sua complessità.
La possibilità di giungere a qualcosa, se mai sia possibile giungervi, è per Giuseppe Martella intimamente legata alla valorizzazione dei detriti esistenziali, concretissimi, come è estratta da beckettiana memoria. Da tale repertorio proviene quel gusto per le cose infime che fa scopa con il gusto per i segni: «ogni cosa derisa, attende / di essere ripresa, condivisa / come un’ostia dissacrata». La valorizzazione semantica è il luogo ove avviene lo scambio con la realtà, ove la macchia diviene senso, staccandosi definitivamente dal reale per andare a sistemarsi nella rete dell’artefatto culturale. Tuttavia, quello che si è costruito, anche faticosamente, finisce col reclamare a gran voce d’essere disperso: le forme sono da dissipare, quasi per un agognato ritorno a quel caos primigenio, ove regna l’indistinto o, meglio, in quel dondolio perenne tra terra e luce, laddove si osserva che la spola tra ciò che è materiale e ciò che è astratto è tessuta fittamente. Anche la sonorità soffusa, lieve, (mente-pente, sfuma-fortuna) che si rincorre tra ripetizioni lessicali, sostanzia l’impianto semantico. L’ef-usione intimista, una vera e propria ode al presente, ai suoi momenti concreti e fugaci, di cui la marca più certa e afferrabile sono i colori, quei bianchi, sfolgorati come un assoluto, quei verdi smaglianti dell’infanzia, quell’azzurro che dismette la propria forma, quell’effusione, dicevo, di marca affettuosa, vale certamente una riconciliazione con l’esistente.
E, pur tuttavia, è la sonorità che s’impone sull’immagine, nella lettura: «stanno / come faci, tremule, falci / tralci di vite, recise o quasi / i vasi dei fiori appassiti / nelle dimore vuote, o quasi». È nella volontà del poeta di sottolineare la specificità di una pratica che, in quanto costruita con parole, egli si propone di smerigliare al meglio, facendo tintinnare il lessico fino all’intersezione sonora. Con il suono, che fa intrinsecamente parte del senso, Martella costruisce al contempo il resoconto della sua vita, non nel mezzo del cammin, ma su un liminare confine dove si piega e ripiega, come una canna al vento, la possibilità umana di render conto dell’assoluta inconciliabilità dell’ordine cosmico e dell’ordine umano. E, tuttavia, come dicevamo, essi procedono fianco a fianco,
inestricabilmente.
Non rimpianti, ma un accordo da stringere con se stesso, un dichiararsi soddisfatto al saldo, perché è giocoforza farlo, e così tenere a bada le insoddisfazioni che mordono il fianco: «da invisibili venti – e poi ce n’è sempre / uno che mi rode dentro / (un topo forse – forse un presentimento) / e non si acquieta / fra lacrime e sorrisi» tale da essere una dieta quotidiana, «quel codice prescritto / che mescola gli inferni ai paradisi». Non si tratta degli inevitabili rimpianti, dunque, ma della ricucitura, del completamento delle frasi non dette, mal intese, presupposte, tali che la loro consistente numerosità viene a formare un’esistenza dissimile, altra, da quella effettivamente vissuta. La memoria ricostruisce a suo piacere il dato esistenziale, rifondendogli nuova vita e piegandolo a nuove conformazioni. La splendida poesia sulle ore, che apre la seconda sezione, ha la grazia di rendere presente, per mezzo del ricordo, una rivisitata esistenza, ora finalmente intravista in quella vissuta, ma anche di renderla corpo visibile per i lettori, forgiando contemporaneamente un materiale modellabile al fine di saggiare le ipotesi, di visitare le strade non intraprese, di ripristinare ciò che è stato malamente interrotto. Ipotesi che riguardano il senso dell’esistere, proiettato nel cielo e da lì nuovamente rifratto sulla terra, come se il cielo fosse uno specchio ustorio. Le forze emanate da uno stato indeterminato, dubbioso, sembrano ritornare concentrate, capaci, oramai, di rendere il senso disperso un senso conclusivo.
Insomma, l’analisi svela un delirio prismatico che coinvolge l’io. L’ipotesi unitaria su scala macroscopica diviene un ologramma in cui si disfa il mondo. Intatto resta ciò che sfugge al poeta, ciò che lo sovrasta. Ma l’ipotesi iniziale tiene. La vita è stata vissuta e mille cicli sono presenti in una sola vita.
Nella bellissima Canone inverso si coglie appieno il senso dialogico dell’impostazione poetica di Giuseppe Martella, che nel suo traghettare inesausto di novello Caronte, che ancor non si dà pace per il trasporto da effettuare da una sponda a un’altra, vive i ricordi indistintamente dal presente, la morte come non differente dalla vita. Egli, ritorcendo i fili di quelle sue occorrenze quotidiane, che passerebbero altrimenti come un puro insignificante accadimento, le rifonde nelle trame, visive e sonore, delle sue dorate filigrane ove tutto si tiene.

                                 

                       

                              

Giuseppe Martella è nato a Messina e risiede a Pianoro (BO).

Ha insegnato letteratura e cultura dei paesi anglofoni nelle Università di Messina, Bologna e Urbino. I suoi studi riguardano in particolare il dramma shakespeariano, il modernismo inglese, la teoria dei generi letterari, il nesso fra storia e fiction, l’ermeneutica letteraria e filosofica, i rapporti tra scienza e letteratura, e tra letteratura e nuovi media.

Dopo essersi ritirato dall’insegnamento, da alcuni anni si interessa anche di poesia italiana contemporanea, collaborando con saggi e recensioni a diverse riviste cartacee e online (Anterem, La Clessidra, Poesia Blog Rainews, Poetarum Silva, Nazione Indiana, Versante Ripido, Carteggi Letterari, ecc.). Una sua poesia inedita, Kenosis, è risultata finalista al premio Montano 2020. Altri inediti sono già apparsi ne Il giardino dei poeti e nella sezione Instagram di Blog Rainewes.

Fra le sue pubblicazioni a stampa:

Ulisse: parallelo biblico e modernità, Bologna, CLUEB, 1997.

Margini dell’interpretazione, Bologna, CLUEB, 2006.

G. Martella, E. Ilardi, Hi-story. The rewriting of History in Contemporary Fiction, Napoli, Liguori, 2009 (in duplice versione, inglese e italiana).

Ciberermeneutica: fra parole e numeri, Napoli, Liguori, 2013.

Tecnoscienza e cibercultura, Roma, Aracne, 2014.

Giuseppe Martella

3 novembre 2021
 
1.11.21
 
 
Ed io e te
fatti più belli
nella stessa luce.
 
*
 
Raggiungimi dall’altra parte
del fiume. Ti aspetterò
abbagliato nel sole.
 
*
 
Ripetimi tutto ciò che hai detto
per una vita
lo manderò a memoria
di anno in anno.
 
*
 
Perimetri
ma la terra ci sfugge
assecondiamola
nei suoi miraggi.
 
*
 
Così perduta pervasa
la cosa
ritorna furtiva
in forma di chiosa.
 
*
 
E come fosse niente o
fosse ciò che al niente
più assomiglia
apparve in un battito di ciglia
la meraviglia.

***

Giuseppe Martella è nato a Messina e risiede a Pianoro (BO).

Ha insegnato letteratura e cultura dei paesi anglofoni nelle Università di Messina, Bologna e Urbino. I suoi studi riguardano in particolare il dramma shakespeariano, il modernismo inglese, la teoria dei generi letterari, il nesso fra storia e fiction, l’ermeneutica letteraria e filosofica, i rapporti tra scienza e letteratura, e tra letteratura e nuovi media.

Dopo essersi ritirato dall’insegnamento, da alcuni anni si interessa anche di poesia italiana contemporanea, collaborando con saggi e recensioni a diverse riviste cartacee e online (Anterem, La Clessidra, Poesia Blog Rainews, Poetarum Silva, Nazione Indiana, Versante Ripido, Carteggi Letterari, ecc.). Una sua poesia inedita, Kenosis, è risultata finalista al premio Montano 2020. Altri inediti sono già apparsi ne Il giardino dei poeti e nella sezione Instagram di Blog Rainewes, ma non ha mai pubblicato versi propri.

Fra le sue pubblicazioni a stampa:

Ulisse: parallelo biblico e modernità, Bologna, CLUEB, 1997.

Margini dell’interpretazione, Bologna, CLUEB, 2006.

G. Martella, E. Ilardi, Hi-story. The rewriting of History in Contemporary Fiction, Napoli, Liguori, 2009 (in duplice versione, inglese e italiana).

Ciberermeneutica: fra parole e numeri, Napoli, Liguori, 2013.

Tecnoscienza e cibercultura, Roma, Aracne, 2014.

Giuseppe Martella, viale della Resistenza 39, Pianoro (BO) email: ciapas111@gmail.com 

Bill Dodd

2 ottobre 2020

Gli scenari di campagna e di città sono stati spesso in passato associati a due generi antitetici di poesia: quella di evasione e quella di impegno civile. Ma la natura sfregiata di oggi non ha più nulla di bucolico mentre i suoi sempre più frequenti cataclismi hanno smesso da tempo di suscitare il sentimento del sublime, per rientrare nella sfera del quotidiano e della banalità del male.

Bill Dodd è poeta della natura che appartiene alla feconda tradizione romantica inglese inaugurata da Wordsworth agli inizi dell’Ottocento, ma ora radicalmente mutata nei temi e nel linguaggio, sommessamente tradotta nella Stimmung ecologica odierna.

Presentiamo qui quattro sue poesie. Le prime due (“Relatività” e “Grecale”), semplici e brevi, ci mostrano l’antitesi classica fra quiete e tempesta: la leggiadra danza delle foglie in caduta e la violenza del vento che toglie il respiro.

La seconda coppia di poesie (più complesse e allegoriche) forma anch’essa una sorta di chiasma, attingendo a una dimensione metapoetica. Poiché al sapiente impasto del pane della prima lirica (“Pagnotta”), corrisponde lo sbriciolamento del testo poetico nella seconda (“Sogno dello scrittore”). Ed entrambe possono essere lette come metafore del poiein in senso lato.

“Pagnotta” è un componimento esemplare della poesia di Dodd: una sinestesia dettagliata ed estesa. Costituisce davvero un mondo a parte, un’allegoria del poema, ricca di echi letterari (Shakespeare, Donne, e altri): un impasto fragrante di suono e di senso, di frumento e di parola. L’offerta di un’ostia benefica: indubitabile nutrimento del corpo e dello spirito. Sul limite tra percezione e azione, coniuga natura e cultura in un unico dono, un raro sinolo di materia e forma, un impasto di perizia e di amore.

Nel “Sogno dello scrittore” invece, alla danza delle foglie subentra quella delle parole e la messa a fuoco passa decisamente dalla natura all’arte, dall’impasto dei grani alla levigatura e alla rastremazione del discorso. All’esercizio della spersonalizzazione e della cancellatura, a rischio di trovarsi di fronte al vuoto della pagina bianca e al fantasma dell’emozione. Come in una sorta di escursione sull’altra faccia del cielo, dove appare per un attimo la filigrana, la pura forma di luce, l’idea pura della poesia. Di cui la memoria può però solo preservare tracce, “brandelli e bucce di suono”, “chiazze di colori, borbottii”, da consegnare alla pazienza dell’ascolto, finché la pagina, come una foglia, torni a respirare, in attesa di uno scroscio di pioggia.

Ecco allora che natura e arte, ispirazione e tecnica, si ricompongono nell’improbabile miracolo del poema. Mentre la metafora del foglio/foglia che respira ci restituisce la chiave della poesia semplice e vibrante di Bill Dodd.

                                                                                                                                               Giuseppe Martella

***

Testi del poeta inglese Bill Dodd, traduzioni a fronte dell’autore

Relativity

Who says leaves fall?
They haven’t seen
the way this dawn
in a rash breeze
leaf after leaf
of the chestnut
turns cartwheels in the sky.

Hold tight! Feel the earth waltzing
onto each spinning leaf
crash-landing there
time and again
safely, softly.

Relatività

Chi dice che le foglie cadono?
Non hai visto come all’alba
nella spericolata brezza
foglia dopo foglia del castagno
piroetta, volteggia nel cielo!

Tienti stretto! Senti la terra
balzare su ogni foglia rotante
precipitando sopra volta a volta
toccando terra
soffice e sicura.

*

North-easterly

It slams planks, scuttles buckets
it threads every cranny of our home
with icy needles.

No truce.
It has come too far for such niceties.

It shrieks at us in strange tongues
we scamper before it like torn leaves.
We cannot even hold our breath
the wind has kidnapped it.

Grecale

sballotta assi, sparpaglia secchi
infila ogni fessura della nostra casa
con gelidi aghi

nessuna tregua

viene da troppo lontano
per tali sottigliezze

ci strilla in strane lingue
sgambettiamo davanti a lui
come foglie strappate

non riusciamo nemmeno
a trattenere il respiro
il vento l’ha rapito

*

Loaf

I watch the hunk of bread she baked,
craggy, erupting with seeds.
On one end there it stands,
a megalith of grains
an Easter Island torsoless head.

My hand clutches at the sight of it.
It wants to be balanced, shouldered,
hurled. No mineral has such
solid gravitas. Inside it went
palms’ moisture, knuckles’ torque
and stress. And her quiet persistent
desire to make taste beautiful.

And so it is. Taste visits your mouth
like a small goddess, a corn nymph
on a romp, in love with tongue.

Sit easy, let your teeth slowly
mill the grain again. Catch the whiff
of straw there in the aftertaste,
those ghosts of cumin, ginger, sesame.

Lick your fingertips to pick
crumbs from the tablecloth.
These are pearls that once
were ears of spelt. Each one
shaken away is a world lost.
There’s something about a loaf
won’t be denied. Call it
a brief completeness, a readiness
to be itself and then a crumb.
Or something that lends its name
to sharing. Use me! it says,
for god’s sake use your loaf!

Pagnotta

Guardo fresca dal forno
la tozza pagnotta,
rocciosa, che erutta semi.
Megalito di grani
sta su, in verticale
testa senza corpo
da maoi dell’Isola di Pasqua.

Solo a vederla la mano si stringe.
Vuol essere impugnata,
issata, scagliata. Mai minerale
vanta tanta solida gravitas.
Dentro di lei sono entrate
umidità di palmi, tensione e
torsione di nocche. E la tenace
pacata voglia della cuoca
di far del sapore bellezza.

E così è. Il gusto ti visita la bocca
come una piccola dea, ninfa del grano
vogliosa di lingua, in vena d’allegria.

Siediti calmo, lascia che i denti
macinino di nuovo lentamente il grano.
Senti l’olezzo di paglia
nel retrogusto, i fantasmi di
sesamo, zenzero, cumino.

Lecca la punta delle dita
e raccogli le briciole dalla tovaglia.
Quelle ora sono perle
che furono spighe di farro.
Con ognuno che butti via
perdi un mondo intero.

C’è qualcosa in una pagnotta
che respinge la negazione:
chiamalo una breve completezza,
il saper essere se stessa
poi lasciarsi sbriciolare.
O qualcosa che per destino
si lascia condividere.
Usami! dice, per l’amor di Dio,
adopera la tua pagnotta!

*

Dream of the Writer

                                        for Antony Osler

The first phrase danced
down six or seven lines
but the sense needed honing.

He took a razor to it
slashed adjectives
gutted predicates.

Blood of poetry poured out.
Too liquid.

Clotting was needed
syllables must tighten
into knuckles.

Butchery went on
till he faced the glare
of a bleached page,
ghosts of feeling
rushing for cover.

Nothing remained
but to cut deeper
into the fleeing spirit,
till he found himself
on the far side of poetry.

Not blank as he’d supposed
but like a watermark
come free of paper.

It leapt and spiralled
soared in arches
towards the pure form of light

only it was chill
within its movement
nothing his fingers could latch onto.

It was all memory could do
to get him back
through the white sheet
into his room.

There, scattered on the floor
scraps and peelings of sound
begged to be words again
to speak pieces of his heart—

carelessly even, through daubs
of colour, half-rhymes, mumbles.

The bare page was ready, breathing.

He heard its rustle and assented.

Sogno dello scrittore

Il primo fraseggio danzava
lungo sei o sette versi
ma il senso bisognava scolpirlo.

Egli prese il rasoio:
aggettivi furono falciati
predicati escissi.

Il sangue della poesia sgorgava,
ma troppo liquido.

Necessitava di aggrumarsi
sillabe dovevano stringersi
in nocche.

Il macello continuò fin quando
il poeta si trovò di fronte
al bagliore d’una pagina sbiancata
dove fantasmi d’emozione
scappavano alla ricerca di riparo.

Non gli rimaneva
che incidere sempre più
a fondo lo spirito in fuga,
fino a trovarsi
nell’al di là della poesia.

Se l’era immaginato vuoto.
Invece era come una filigrana
svincolatasi dalla carta.

Balzava, mulinava,
si lanciava attraverso archi
verso la forma pura della luce.

Solo che era gelido
dentro il suo movimento,
niente a cui le dita
gli si potessero allacciare.

A fatica la memoria riuscì
a riportarlo
attraverso il foglio bianco
nel suo studio.

Là, sparpagliati per terra
brandelli e bucce di suono
gli imploravano di poter tornare parole
di poter narrare brani del suo cuore—

pure sbadatamente
tramite chiazze di colore
mezze rime, borbottii.

La pagina nuda lo aspettava, ansimante.

Ne sentì il fruscio e acconsentì.

***

Bill Dodd è nato a Lancaster, G.B. Ha insegnato letteratura inglese per lunghi anni nelle università di Bologna e Siena (Arezzo). Ha pubblicato due volumi di poesie: Sightings (2015) e Voicings (2018).

Recensione di Giuseppe Martella a “La simmetria del vuoto”

1 giugno 2020

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Il tratteggio: C. Bove, La simmetria del vuoto, Arcipelago Itaca, 2018.

Nella sua perspicua e illuminante prefazione, Anna Maria Curci propone la parola tedesca schweben, “fluttuare, stare in bilico, esser sospesi”, come chiave di lettura di questo testo e della intera poesia di Cristina Bove. Seguo questo suggerimento e aggiungo altri due termini, sempre di ambito tedesco: Ausdruck: “espressione, frase, detto” ma anche “sguardo e voce”. Da cui Ausdruckweise: “fraseggio”. E poi Abgrund: “abisso, pendio, precipizio, salto nel blu.” Etimologicamente “assenza di fondamento”. Filosoficamente, quest’ultimo termine indica infatti il fondamento nullo del nostro essere al mondo, tra realtà biologica e rappresentazione psicosociale: la terribile simmetria del vuoto. Tra fluttuazione e spro-fondamento dell’esserci si svolge infatti il fraseggio poetico di Cristina Bove.

Una triangolazione fra le costellazioni semantiche di Ausdruck, Schweben e Abgrund (espressione, bilico e abisso) può svelarci il luogo proprio e offrici l’orientamento di fondo della versificazione di Cristina Bove, cioè anche una cartografia del suo dire (Dichtung). C’è infatti nel termine Ausdruck (espressione, manifestazione, frase) un nesso fra sguardo e voce, assente nei suoi corrispettivi italiani, che implica quel cooperare nell’espressione poetica dell’occhio e della mano, che Walter Benjamin già indicava come la virtù precipua dell’antico cantastorie, il suo saper trarre da una tradizione condivisa le formule verbali e le alchimie del verso e della performance, il suo saper catturare e tenere avvinti gli ascoltatori nel giro della frase, nella reciprocità degli sguardi, nella cerchia dell’ascolto, che è la base di ogni circolo ermeneutico. Da qui parte la mia ipotesi: il dettato (Dichtung) di Cristina Bove sta sempre in bilico sull’abisso del proprio esserci. Una ipotesi che coniuga quell’esitazione fra suono e senso che Valery indica come carattere saliente della poesia, con la sua funzione primaria di testimonianza e terapia della finitudine e precarietà dell’essere al mondo insieme ad altri.

Una poesia della soglia, dunque, e del filo: liminale e sorvegliata. Filata sulla sottile ragnatela del carro della regina Maab (in Sogno di una notte di mezza estate) ma anche tessuta con la dedizione e la sapienza con cui Penelope tesse e disfa quella tela che è il sostrato comune del canto di tutti gli aedi dell’Odissea, Ulisse compreso. Una struttura flessibile, leggera e ferrea, come quella di un ponte d’acciaio teso sopra l’abisso. Quando indicherò nella maestria del fraseggio (Ausdruckweise) una sua virtù caratteristica, intenderò anzitutto questo convenire dello sguardo e della voce, questo accennare, nell’intervallo minimo fra pause e battute del verso, a un altrove, a quel fondo da cui emergono tutte le sue nitide figure, nel saper cogliere il tempo giusto (kairòs) perché la grazia (charis) della parola incarnata risulti efficace. Il dettato di Cristina Bove è danza graziosa sull’abisso che si intravede nella luminosa trama (nell’ultrasenso e nell’oltreluce) delle sue figure, nel chiaroscuro impeccabile, dei suoi versi.

Questa espressione dell’esserci come esser tra, frammezzo, sospeso e intrappolato nello stesso atto del dire, di tracciare percorsi e indicare luoghi, e costruire una dimora per abitarla, è forse il senso eminente di questa simmetria del vuoto. I suoi versi intrecciano una danza fra dettaglio e disegno, fra macro e microcosmo, dove risuona, nella squisita e tenace volontà di forma dell’io poetico, l’eco sfinita della risata tragica dell’es stretto “nel labirinto delle sue mutazioni”. (13) In una serie di attributi felicemente variati di un soggetto-fondamento mancante, volatile, spro-fondante appunto in un interminabile salto nel blu – quel colore che pare essere il preferito della nostra autrice, a giudicare dalle composizioni di videoarte che spesso ne accompagnano i versi sul suo blog e su Facebook. E’ un verde-blu iridescente che, attraversando la gamma dei colori, pare sfumare nel diafano da cui ci invia riflessi di figure, sovrimpressioni, fantasmagorie. Ecco: la trasparenza è un’altra caratteristica dei versi di Cristina Bove, nel senso intuitivo del termine (poiché si tratta di figure luminose, leggere, sfumate) ma anche in quello del confine sottile che passa tra riflessione e rifrazione di un raggio di luce. Del punto cruciale in cui un medium qualsiasi, in parte assorbe e in parte riflette il messaggio luminoso. Così come la memoria riflette l’evento rifrangendolo nelle molteplici tangenti delle sue figurazioni inconsce. Quella di Cristina Bove è anche una poesia della trasparenza e della soglia, una esplorazione dei limiti del diafano nel linguaggio: una videoarte del dire.

La sapiente variazione dei suoi versi equivale all’intero gradiente di rifrazione dei corpi al messaggio della luce. In questo senso, anche le figure del suo discorso assumono la valenza di una fantasmagoria in cui trascendenza e immanenza si incontrano come il riflesso e la frattura di una immagine in un punto sulla superficie della rappresentazione. Pertanto le figure in sospensione nei versi di Cristina Bove si possono considerare anche come degli ologrammi, delle produzioni sul foglio di carta di immagini tridimensionali, attraverso il reticolo di diffrazione dei suoi versi. Ologrammi metafisici che coniugano riflessione e rifrazione, trascendenza e immanenza, manifestazione ed essenza del nostro essere al mondo. In una sapiente orchestrazione della “toccata e fuga di se stessi” (44), tra valenze aforistiche e chiusure epigrammatiche, tra sottolineature e motteggi, nonsense e paradossi.

Il lievitare misurato della parola rigenerata (logos egeneto), il fraseggio accurato, l’equilibrio di una versificazione interstiziale in cui la espressione sapiente riunisce la mascherata della vita e quella dell’arte, facendone un bilancio lucido e mirabile, spassionato e implacabile, realistico e visionario, dove nell’umana confessione si può leggere talora in palinsesto una dichiarazione di poetica. (54) Il fraseggio di Cristina Bove si svolge in una fluttuazione caratteristica tra l’espressione linguistica come manifestazione dell’esserci e il suo fondamento nullo, cioè anche tra figura e fondo, linguaggio e silenzio. In questo senso, la sua è una poetica del tratteggio e della sottrazione, dell’adombramento e della sospensione sistematica di ogni (pre)giudizio di esistenza. Una fenomenologia e una ermeneutica della finitezza e dell’impermanenza, a tutti gli effetti, che spesso si esprime per calembours e paradossi, intesi come controlli severi ed esperimenti cruciali sui limiti del nostro linguaggio e della visione del mondo che su di esso si basa. L’insieme di questi giochi linguistici converge graficamente poi verso il punto, da una parte e il trattino basso, dall’altra. La punteggiatura, nella poesia di Cristina Bove in generale, risulta pressoché assente ma tale assenza indica il suo esser tra le righe, il suo essere stata completamente assorbita (sospesa, messa in mora, epochizzata) nel fraseggio e nella versificazione. O se si preferisce nel fondo del suo dettato poetico. Tranne che nell’unico caso, nella presente raccolta, in cui compaiono dei puntini di sospensione (61) a marcare l’irrazionale poetico. O in quello, assolutamente singolare, della poesia dal titolo esplicito, “.mettere un punto” (86), dove il punto appare in posizione anomala, a inizio frase, e messo in correlazione coi trattini bassi  che compaiono nell’ultimo verso del componimento. L’uso del trattino basso è invece estremamente frequente, nell’intera poesia di Cristina Bove, fungendo quasi da supplemento alla punteggiatura rarefatta e indicandone infine lo sprofondamento nell’abisso della dizione. I trattini bassi, vera e propria ossessione grafica della nostra autrice, croce e delizia dei suoi editori, non sono certo un vezzo ma costituiscono il tratto distintivo della sua versificazione, il suo svolgersi al limite dello spro-fondamento del discorso, del riassorbimento delle figure della espressione (Ausdruck) sul fondo (Abgrund) della nuda vita. L’uso del trattino basso, il tratteggio ritmico-semantico che funge da basso continuo della sua versificazione, costituisce inoltre la condensazione grafica di quel fraseggio (Ausdruckweise) e di quella lievitazione del dire (Schweben) che ho indicato all’inizio e che caratterizzano in modo inconfondibile la sua poesia. Mentre il punto anomalo è qui manifestazione grafica della coincidenza delle varie prospettive, o fasci di luce coerente riflessi-rifratti dal s/oggetto della rappresentazione, a costituire quella configurazione ologrammatica del discorso che ne rappresenta un’altra caratteristica saliente. Il punto, infine, qui segna il limite di quella funzione di dis/orientamento al mondo che è propria della poesia in generale, ma che qui assume tutti i connotati di una ascesi della parola e di una sobria composizione del luogo del discorso attraverso un costante esercizio di eliminazione del superfluo, in una pratica della sottrazione che è da attendersi in una poeta che è anche scultrice e il cui alter ego, in una recente raccolta, appare come “Una donna di marmo nell’aiuola”.

*

Per corroborare la linea ermeneutica adottata, sarà ora opportuno fornire alcuni esempi di ordine tematico-strutturale. A partire proprio dalla messa a punto della propria poetica che  Cristina Bove compie nella poesia prima menzionata (“.metter un punto”) e che val la pena citare per intero, per dare una idea dello spessore e della consapevolezza del suo dire: “Per solidificare la parola estinta/_il suo vissuto termina sul foglio_/magari farle un monumento/solo di interpunzioni/dedicarlo ai poeti che non scrivono/           Mi ci metto/perché non ho mai scritto un bel silenzio/perché non ho saputo eliminare/una vita di sillabe/           mi arrendo nel mimare un’esistenza/_tra due trattini stesi_”. (86) Questa lirica è nel contempo un compendio della sua poetica e una convalida di quanto abbiamo osservato: tutta giocata com’è sulla linea d’ombra, sulla lievitazione tra vita e forma, mondo e linguaggio, cose e parole: su quello schweben che abbiamo menzionato all’inizio e che implica anche una sorta di sospensione del giudizio di esistenza  (o epoché trascendentale) del mondo ricevuto, che qui viene messa a tema e in forma, tutta racchiusa fra il punto anomalo dell’inizio e i due trattini stesi alla fine, che insieme sottolineano e sdoppiano, sottendono e mettono in mora, il valore dell’enunciato, cioè della loro stessa verbalizzazione. Questo per dire tutta la sottigliezza, complessità, condensazione, humour, ironia e lucidità di cui è capace Cristina Bove. Che qui in partenza si esercitano sullo statuto stesso della poesia, “la parola estinta” in quanto “il suo vissuto termina sul foglio” e dunque anche il luogo in cui la vita trapassa e si fissa nella parola. E su quello dei poeti, che vengono chiamati in causa con elegante sprezzatura, come coloro che nutrono “una vita di sillabe” ma che non riescono mai a giungere al cuore del reale galleggiando sulla superficie del discorso.  Una sprezzatura che però presto si volge in autoironia poiché lei stessa afferma di non aver mai  “scritto un bel silenzio”.

In questi versi, metricamente calibrati e variati, vien fuori la perfetta congruenza tra la fluttuazione metafisica e il fraseggio poetico, come tratto fondante e distintivo della versificazione di Cristina Bove. E si tratta di una declinazione singolare e memorabile di quello Unter-Schied (differenza-relazione o interferenza fra linguaggio e mondo) che per Heidegger costituisce il sostrato della poesia in quanto tale e che qui nel testo di Cristina Bove si traduce graficamente nell’uso insistito del trattino basso. Si tratta dunque di una messa a punto onto-logica del proprio dire che si esprime poi in un metro e in una sintassi meravigliosamente esatti e variati, in un minidramma della ipostasi della parola scritta che, fra peripezie e riconoscimenti, squisitamente infine si arrende al silenzio che la attende. Per cui questa ironia che non fa sconti, questa umanissima certificazione dei propri limiti, umani e poetici, finisce per tramutarsi infine, in virtù del suo proprio stesso disincanto, in una muta domanda che esprime tutta la pietà del pensiero. E infatti, nel componimento seguente, il tratteggio poetico rivela la trama esistenziale da cui è sotteso: “le questioni mai risolte/tra la vita e la morte” (87). Quella sospensione dei mortali che sanno di “esistere per poco” e null’altro sapendo sospettano di essere solo “sogni/di un dio che ad ogni suo risveglio/ha già dimenticati.” (ibid.)

Ma la fluttuazione ontologica è endemica nella poesia di Cristina Bove, e i suoi tratti ritornano in una molteplicità di profili e intagli come accade, con evidente allusione alle opere di Lucio Fontana, nella poesia “Fontaniana” appunto, dove il taglio della tela di un quadro appare come un “varco tra pensiero e corpo” (83) e pertanto assume la valenza metafisica del frammezzo, “la zona franca aperta sulla tela” fra essenza e apparenza, in quel continuo dialogo fra essere e coscienza che si svolge nei suoi versi, senza che le due parti possano mai veramente scindersi né coincidere, (“_perché il male ci dispensa dall’amalgama_”), (ibid.) come monadi che danzano alla cieca il ballo in maschera dell’esistenza, in bilico sul filo del rasoio, in attesa di una finale messa a punto di cui ignorano il tempo e il luogo. Questa arlecchinata metafisica ha peraltro già avuto un’esposizione magistrale nella splendida “Maestri (s)concertatori” dove “in un emiciclo di ripercussioni”, (44) l’intera sinfonia dell’esserci appare intesa a “lustrare gli occhi spersi di chi sa/che tutto muore/come le note già suonate/nella toccata e fuga di se stessi.”  Su questa stessa pratica della espressione  fenomenologicamente sospesa sul fondamento nullo dei suoi trattini bassi, del fraseggio come correlativo verbale del frammezzo esistenziale tra dettaglio e disegno, nomi e cose, essere e coscienza, si veda per esempio anche l’impeccabile umorismo di “Inquilini e scalatori” dove ci si può esprimere solo “Per interposta ragnatela”, (53) perché “non si trova il modo/di dare un altro nome a ciò che accade”, e ci si trova “intrappolati ai muri e ai versi”, presi in tenzoni futili, quasi dimentichi che “tanto sarà per poco” e che ci tocca “nel frattempo/vivere di miracoli a ritroso/esserci quanto basta”. E dove infine la charis (grazia, dedizione e cura) di ogni dire risulta funzionale a riempire il frattempo che ci divide dall’attimo fatale.

L’equivalenza tra frammezzo esistenziale e fraseggio verbale, viene sviluppata ancora nella lirica che segue, “Considerando il dentro e il fuori”, dove la sinfonia dell’esistenza trova ulteriori accordi nel tenore metapoetico del testo e la commedia umana nuovi scenari, (tra dentro e fuori, tra essere e coscienza), un intero copione di metafore gastronomiche che riconducono l’ispirazione poetica alla sua base organica, mentre la poesia appare ancora una volta come farmaco (rimedio-veleno) contro il male di vivere: “sta quasi per accendersi la festa/si pronuncia l’antitodopoesia da bocca a bocca” per render il “mondo commestibile” e chiudere gli occhi sui “_transiti scatologici_”/di questa mascherata cromosomica/che ci consegna ad un perenne oblio.” Mentre “l’aria che si annida negli alveoli, ad ogni inspirazione/incendia le apparenze e ci consuma/           malgrado innumerevoli varianti, siamo carboni ardenti”. (54) La ironica e spassionata demistificazione dell’arte sfocia infine, nella lirica seguente, in quella della religione, dove “il dio dei fallimenti programmati/in palinsesti onirici” (55) per non farci accorgere “che non esiste porto/né un orizzonte per colare a picco”, viene rappresentato in tutta la sua comica impotenza mentre “è lì che aspetta il sorgere del mondo”.

Su questi incroci prospettici fra realtà e rappresentazione, si producono dunque quelli che ho chiamato gli ologrammi poetici di Cristina Bove, nel senso degli incroci di prospettive o di raggi laser sull’oggetto che appare così traslucido e multidimensionale. Ma anche nel senso di una inclusiva grammatica della creazione che sa mettere insieme dettaglio e disegno, in una fantasmagoria dell’esistenza che è nel contempo lucidissima e visionaria. Questo “Paradigma ologrammatico” (significativo anche in vista delle sue applicazioni all’arte digitale di Cristina) trova d’altronde una esatta definizione nella lirica eponima, dove lo sdoppiamento e la fluttuazione ricorrente fra essere e coscienza, dettaglio e disegno, micro e macrocosmo, trovano una messa a tema e una definizione esplicita: “è che assistiamo/_contemporaneamente_/ad ogni tempo della nostra vita/il vivere e il morire a ogni momento/essere il sognatore ed il suo sogno”  perché “di fronte ad uno schermo/siede il frammento e tutto l’universo” (50): un disegno frattale impeccabile che va ad arricchire l’ologramma poetico-esistenziale, in cui lo sdoppiamento di essere coscienza, reso in una costante variazione aspettuale e prospettica, distillato nell’alambicco di un linguaggio senza fronzoli, genera quella geometrica veggenza che caratterizza la poesia di Cristina Bove: “immagine riflessa _pupille come fori_/negli occhi innumerevoli e diversi/attraversati dalla stessa luce/un solo aspetto/eppure il tutto riversato in esso/nell’illusoria percezione che/ci si veda soltanto un po’ per volta”. (ibid.) E qui si nota chiaramente come l’oscillazione caratteristica del dettato di Cristina Bove, non riguarda soltanto i diversi livelli di realtà ma anche l’ordine temporale dell’accadere, muovendosi tra due tagli verticali (Kairoi), l’attesa dell’evento ineludibile della morte e il ricordo non già della nascita, ma di un evento traumatico, di un tentato suicidio, in una notte “del trentuno agosto/che lei precipitò dalla ringhiera/e poi si addormentò sul marciapiede” (83). Evento che assume però qui i connotati gnostici della metempsicosi, di una caduta dell’anima nella prigione del corpo, segnando l’inizio di quel dialogo fra sé e sé, di quello sdoppiamento, prospettico ed esistenziale, e di quella veggenza  che caratterizzano la poesia di Cristina Bove: “io me ne andai/lasciandola sul posto_ venni al mondo/pagandomi l’accesso dal balcone.”, “Però le ho sempre raccontato tutto/e lei non ha mai smesso di volare/_non si ricorda d’essere atterrata_/:sogna di me piombata sull’asfalto/sagoma disegnata con il gesso/e nel suo sogno lei si crede viva/ed io nel mio fingo d’essere morta”. (ibid.) Questo dialogo fra self and soul, che mi ricorda una splendida poesia di W.B. Yeats, costituisce l’arco teso su tutta la poesia di Cristina Bove, l’arcobaleno iridescente che contiene tutte le sfumature della sua veggenza e i magnifici doni che essa sa offrirci, e che a mio parere fanno di lei uno dei maggiori poeti viventi, ancora in attesa di un pieno e doveroso riconoscimento.

Giuseppe Martella

http://www2.lingue.unibo.it/romanticismoold/membri/Martella/Martella_Giuseppe.htm#top

 

 

Giuseppe Martella

30 giugno 2019

 

Per strada
E così via, raccogliendo per strada
i lacci e le conchiglie e i ricci
stracci – le caccole dei cani
gli impicci fra ieri e domani
raccogliendo, scartando
(rifacendoci gli occhi)
facendo insomma le pulci
alle cose con le dita nude –
doloranti magari, gli occhi stanchi
davanti sempre un mucchio di detriti
e quanti quanti sempre più davanti
sfaticati, stenti sulla strada
quasi sfiniti tutti, tutti quanti –
quasi arrivati, e neanche partiti.

Macchia
Ogni macchia, lasciata sulla strada
intrisa di semenze
ogni cosa derisa – attende
di essere ripresa, condivisa
come un’ostia dissacrata
attende di essere ancora una volta
spezzata, spezzata come pane
diluita, stinta, poi bevuta
tutta d’un sorso –
la macchia sul dorso della tua mano
il fuscello nell’occhio
e dire piano, e dire piano
sempre più piano dire
sempre più vano il tuo fletterti
in ginocchio – pregare –
la macchia densa
che sta fra il dire e il fare.

Gran Canaria
Azzurro, azzuro
azzurro il cielo, trasparente è l’aria
dopo la pioggia rara del mattino
fine fine battente
la pioggia mattutina a Gran Canaria.
Azzurro azzurro che scema nel celeste,
celeste il cielo
azzurro il mare, bianchi i cavallucci
riccioli bianchi, spuma sulla roccia
che scende sui tuoi fianchi
isola d’aria
La pioggia mattutina ti ha vestita a nuovo
nutrito ha il poco verde, che nella roccia
si perde, e al mare mira diventando muschio
mischia l’aria col sale – e fischia una leggera brezza
sul celeste che rischia di annegare –
isola d’aria persa in mezzo al mare.

Luce e terra
E la figura nell’ovunque luce
svanisce e si dà pace finalmente
si piega come il gambo sulla terra
– è passato un giorno – soltanto un giorno
è passato –
La terra tace, assorbe, riconduce
tutta l’acqua di luce alla sorgente
la terra riproduce fiori e frutti
e tutti quanti ritorniamo alla terra,
tutti ritorniamo alla terra dalla luce.

Pensionato
Sono rassegnato, sereno
ho fatto la pace col mondo
– se non con me stesso –
in fondo che cosa mi ha dato?
Qualche cosa di buono:
settant’anni di pace
le tanti mani tese,
qualche coltellata andata a vuoto
qualche finta di troppo
qualche palla mancata
qualche leggero intoppo
qualche fidanzata –
finale di partita:
ma che bella giornata!

Cielo a rovescio
Guarda celeste come si disperde
il cielo
in mille biascicanti fiocchi
e mi rifaccio gli occhi
mi dimentico il gelo dell’inverno
il dolore ai ginocchi –
il maleterno di vivere a quattr’occhi
con la morte – chiamiamola per nome
non so come dirla altrimenti
anche tu che mi conduci, mi
indichi la meta
anche tu menti – mio segreto destriero
bianco che mi porti –
lì sul dorso del cielo.

A mia madre
Non ho parenti, sono solo al mondo
sono un bimbo strambo
perennemente in cerca di adozione
se piango canto la stessa canzone
di sempre –
e mi sovviene il tuo volto parente
madre dai tanti volti ormai dispersi
semicancellati, sovraimpressi occhi sbarrati
madre che urli dalla finestra e ti sbracci
e mi chiami –
di giudicare io non ho il diritto
il bene e il male che mi hai fatto.
Io sono qui per te natura che non mente
sono tuo figlio, qui, sulla soglia del niente.

Ore
Le ore sono parole da non dire
e passano altrove e si
dis-fanno sempre l’una e l’altra
– l’ora bruna del presentimento –
come nube leggera dagli orli illuminati
arancio, rosso perché viene
perché viene sera prima o poi
nell’ora stessa come quando bussa
alla tua porta
il pellegrino sempre più inatteso
sempre più vicino che lo confondi
poi col tuo profilo che si smussa
che passa
per la cruna dell’ago,
e sì foggia un angolo protetto
come la tortora che si fa il nido
di straforo
nel sottotetto della tua dimora.

Canone inverso
E breve breve mi ritorna in mente
il ritornello
però tutto a rovescio che non so
neppure se sia quello di prima
oppure un altro – o della foglia
il dolore nel ramo che si incrina –
sulla soglia dove il rumore
si trasforma in suono e poi in parola
e poi vola fra me e te –
rimane fra di noi – come se
fosse un arcobaleno, solo
un effetto di luce nella pioggia
una lama nel cuore
un boomerang di ritorno
un osso di rapace
scagliato d’improvviso a ciel sereno.

Rincorsa
E ci rincorrevamo per le stanze
a tutte le ore,
la mano nella mano, amore
ma non era vero era un sogno
più che vero una ghirlanda di luce
una chimera – era
la voce che mi rincorreva – era
l’eco, l’onda sonora che
portava seco l’immagine che sfiora,
vita nella parola,
la lavora da dentro –
come in una morsa – cara
così che arresta nel lampo la rincorsa
la cura, dalla culla alla bara.

Verità
Quando lei impastava l’aria di pane
gesticolando
quando lei pensava insomma –
e fermava le mani “formando un nido”
e io la guardavo di sbieco in auto
– che fai pensi, le dico –
oppure giù in giardino mi chinavo
cercando di scovarla lì tra i fiori
così per scherzo, come se l’avessi
già persa
– la mia testa bislacca
sempre a caccia di scherzi –
la cercavo con gli occhi schernendola
– lei curava i miei fiori sui ginocchi –
e non era uno scherzo: lei era vera.

Pro-verbio
Avevamo lo stesso mal comune
avevamo lo stesso mezzo gaudio.
Nella monotonia dell’esistenza
ci sfioravamo appena
cantavamo canzoni ciascuno per suo conto
ma l’eco ce le restituiva sempre insieme
intatte come in un controcanto,
una polifonia antica
dove i tempi e i modi dell’accordo,
gli stacchi i timbri le modulazioni
non erano farina del mio sacco
e neanche del tuo, mia cara.
Ma ora che mi tornano alla mente
mi sembra che ci siano state sempre
così fra noi
prima di te e di me
del nostro incontro (le pause, le durate)
prima dell’incrocio degli sguardi
prima della prima parola…
appena prima.

 

 

 

Giuseppe Martella ha insegnato letteratura e cultura dei paesi anglofoni nelle Università di Messina, Bologna e Urbino. I suoi studi riguardano in particolare il modernismo inglese, l’ermeneutica letteraria e filosofica, i rapporti tra scienza e letteratura, e tra letteratura e nuovi media.

Da alcuni anni si interessa anche di poesia italiana contemporanea, collaborando con diverse riviste cartacee e online (La Clessidra, Poesia Blog Rainews, Poetarum Silva, Versante Ripido, Carteggi Letterari). Non ha finora pubblicato versi propri.

 

Fra le sue pubblicazioni accademiche:

Ulisse: parallelo biblico e modernità, Bologna, Clueb, 1997.

Ciberermeneutica: fra parole e numeri, Napoli, Liguori, 2013.

Tecnoscienza e cibercultura, ARACNE, Roma, 2014.