Come da remote stanze. Come se passi troppo tenaci violassero la stanza – la settima stanza- di una riservata, eppur vibratile e vitale, cardiacità esperienziale che attinge al fuoco -doloroso, anche, e per questo, forse, eticamente ratificato – della vita, la poesia (o, meglio, lascrittura, intesa come esercizio di restituzione di moti interiori altrimenti inesprimibili, altrimenti destinati a cadere, a smarrirsi) di Letizia Dimartino impone un approccio delicato ma non lene, tenero ma non tenue. Impone l’ascolto di un dolore esistenziale, impone l’ascolto di quella ferita originaria da cui la poesia è scaturita, da cui si ostina – con quella trasgressione che appartiene ai Santi e ai puri – a scaturire: ferita cui la poesia tenta di attribuire un senso. La scrittura volutamente arranca attorno al proprio nucleo fondante, siattorciglia attorno al rovello. Eppure è altra, rispetto a esso; ha pur sempre il tenero calore della vita, ha il respiro di colei che, attraverso il labor della scrittura (esistenziale ancor prima che creativo), comprende il dolore della vita e ne fa scaturire una laica e tensiva accettazione. Accettazione che, del dolore, costituisce un superamento: non irenico, ma sempre agonistico, combattivo.
L’interazione con l’altro – «comunicare nella penombra» -, quasi attraverso vie d’ariaazzurra, di bosco di montagna, in certi asprigni, verdi «slants of light» mattutini…, è il problema vitale dell’io che in queste parole nude e lacere scrive la propria silenziosa lettera al mondo. La comprensione da parte dell’altro, se gli occhi di quest’ultimo sono offuscati, incapaci di scorgere oltre il velo dell’effettivo, oltre la porta di una stanza.
Nella scrittura d’aria – tersissima – di Letizia Dimartino agisce una delicatezza resistenziale, pur modulata entro la penombra di una stanza. Una stanza trasgressiva ed esorbitante come un quieto vulcano, come la stanza di Emily Dickinson; un laboratorio di ricerche di senso – non meno trasgressivo, alla luce dei tempi odierni – la stanza di Letizia Dimartino. La stanza è colma di respiri, di rifrazioni, di attese; è quieta, ed esprime, nella sua apparente e uterina pace, le articolazioni del pensiero, gettate in scrittura; è un orizzonte di oggetti riconoscibili, quotidiani, che tuttavia si illuminano se a percorrerli sono la mano e lo sguardo di chi scrive, se la scrittura li riveste di significati, di significato. È spazio di attesa – di attesa che giunga la parola dell’altro, o la parola dell’io. E questa parola – queste variazioni sul tema di una attesa, di una tenace resistenza alla vita che è, al contempo, ascetica accoglienza di ogni sua bellezza – costituisce la delicata, luminosa, liturgica «lettera al mondo» che, da una stanza dove è convocato l’universo, ci consegna Letizia Dimartino. E di questo dono le sono, da lettore e amico, grato.
Matteo M. Vecchio
TU
2012
Con carne e lacrime
con quello che mi resta
la pelle soprattutto
e il vento che disturba
saresti dunque la mia rovina?
il vestito sul nudo del corpo
che fa trasalire ginocchia
sollevare braccia e torcere le dita
io non vorrei essere, io vorrei
sparire per essere cercata
la tua mano che si tende
nel sogno a liberarmi
per sempre dall’angoscia
fuori, nella strada che non
attraverserò, al tavolo di un bar
nei pomeriggi che non avremo
il mio viso copre le lacrime
che ti riservo, sono il tuo pasto
ed io – crudele – te lo servo
perché rinasca l’anno che mi hai dato
oggi, lo sento, permetto che sia unica
la vita immaginata e tu che tocchi
ogni parte.
Ogni mio piccolo punto.
*
Oggi in libreria pensavo alla tua mano
al bianco della fronte
a quelle lenzuola che non avemmo mai
e tutto si faceva nebbia
i libri al loro posto
da strapazzare nelle sere d’estate
saresti lontano, libero
e la voce non calmerebbe
quel senso di tremore
che sento già da adesso
perché so che tutto finisce
e niente cambia nel mio corpo
anche se metto un vestito che sconosci
io ho dentro un marcio
qualcosa che non ha colore
e che svuota le giornate
per questo piango nel sentirti
e tu non puoi capire.
*
Girati, a poco a poco
gira le tue spalle
vedi quanto resta
di un corpo imprigionato
che sa tradire, che si nutre
di ogni lembo di pelle
che fa a pezzi il fegato
– a brandelli il suo cuore,
frantumi di vertebre –
ma non sa vivere
ma allunga le ore
rimesta idee e cioccolata
sposta libri, spezza le ore
e attende che gambe
intreccino le sue
in un balletto, senza mai cadere
perché la mano accarezzi
celata, e lo sguardo a forare
– sono buchi i tuoi occhi –
per una sera, nascondere
l’odore, il singhiozzo che scappa
soli fra tutti, finalmente.
*
Stanotte dovresti avere
una forma, essere corpo
e non più trasparire
lontano dai miei occhi
avere un senso oltre
il vestito, la fretta che ti dai
sotto la pioggia o dentro le ore
che calde tu respiri – perché
lo sento che sono tue, e come
me ne parli –
poco ci appartiene, lo sai che saprei
gridare per ogni passo che faccio
nel dolore che sento, attimo dopo attimo
gira la testa, sento che vacillo
la strada perde luce, il vento
si disperde
e io potrei anche piangere
d’un tratto, senza vergogna
solo perché non sono.
*
Dormi, mi sai dire come tutto è normale
se viviamo di sbagli lontani
se tutte le carezze vado cercando
per quell’attimo che sconosco
quando la sera finisce
e la cena mi attende
col bicchiere appannato
la camicia che slaccio
uno sguardo taciuto
perché subito è notte
e le gambe non reggono
e mi sento mancare
con parole che tacciono
senza giochi, ti prego !
senza drammi, solo pensami
questo serve al mio corpo
che vacilla e si perde
nel suo buio.
*
Dovevo arrivare
la cima che avvicinava
e poi quel nulla che spinge
e porta come un pianto
perché se attendere è non lavarsi
non vestirsi, abbandonare i capelli
rendere cielo quello che è tetto
nella camera, chiusa,
perché se la voce si spegne
in questo mattino di silenzio
e immaginare serve a poco
e viene pena per questa schiena
che perde ora dopo ora
che non vincerà mai sul corpo
il laccio del muscolo a stringere
– nessuno mai a capire –
Inarcai le vertebre quel giorno
riuscendo a donare il busto
nel tuo diniego che in me
si fa lacrima dentro – ma non lo sai –
il timore che copre il gesto
e sono già fuori.
La tua dimenticanza, poi,
toglierà la vita che piano
– piano – mi hai dato.
*
C’è un’altra storia di cui
poter parlare, stretti seduti
con la coperta sulle gambe
la mano che dorme sulla mia
e ogni capello che si posa
che faccia ridere il tuo sguardo?
allora ti direi che siamo già cresciuti e degli anni abbiamo rughe
che la tristezza ha vinto sulla vita
e ogni gesto io lo sento ripetuto
ma ho un corpo che comanda e tiene prigioniera
se ci sarai ancora sarà per bontà
di questo amore fai a meno
e quel che ci diremo, un giorno,
luciderà i miei occhi
sappilo, forse ti ucciderò
e avrò sonni irrequieti
finiranno i limiti
ma un occhio
lo apriresti, riusciresti a chiedermi di non
lasciarti andare, infondo, tu lo sai
io ti esisto.
*
I tuoi passi
lenti, che riconosco
senza rumore avvicinano
non li sento, la strada, il treno
– lontani – portano dove vorrei
e sono sola, seduta
le mani ferme, in una città
che ti ruba
e tu non andare
tu, resta.
Nata a Messina nel 1953, Letizia Dimartino vive a Ragusa. Ha pubblicato nel 2001 la sua prima raccolta di poesie, Verso un mare oscuro (Ibiskos), seguita nel 2003 da Differenze (Manni) e, nel 2007, da Oltre (Archilibri). Nel 2010 è uscito La voce chiama per Archilibri.La silloge Cose, tratta da La voce chiama, è stata pubblicata sull’Almanacco dello Specchio 2009 (Mondadori). Nel novembre 2010 Metallo, primo premio per l’inedito (premio Gilda Trisolini) del circolo culturale Rhegium Julii, è divenuto un libro a opera della stessa associazione. A maggio 2012 è uscito per Ladolfi Editore Ultima stagione con un testo di Renato Minore.
Sue poesie e recensioni sono apparse sulle riviste letterarie Atelier, Polimnia, Poeti e Poesia, Poesia (a cura di Maria Grazia Calandrone), Almanacco del ramo d’oro, La Mosca di Milano, Le voci della Luna, Capoverso, L’Estroverso, L’incantiere. Nel 2009 è apparsa su Io Donna con la poesia Abruzzo, tratta da La voce chiama. A maggio 2012 Ultima stagione è stato raccomandato nella rubrica Lo scaffale di Giovanni Tesio su La Stampa. È possibile leggere un’intervista a Letizia Dimartino su La Sicilia del 28 luglio 2012 (a cura di Grazia Calanna) e un’altra su Sicilia Style, inserto del Corriere Della Sera (a cura di Raffaele Nespoli, 21 dicembre 2012).
Nel mese di dicembre 2011 è stata la protagonista del sito Poeti e poetastri. La si può leggere sui blog Rainews24, La stanza di Virginia, LaRecherche, La poesia e lo spirito, Carte sensibili, Spaziozero54, Viadellebelledonne, La rivista intelligente.
RICONOSCIMENTI E PREMI
Nel 2008 il libro Oltre ha vinto il primo premio del Concorso nazionale di poesia Simone Cavarra (Ragusa) e, nello stesso anno, è stato segnalato ai premi Montano e Città di Marineo. Nel 2009 è risultato finalista al premio Astrolabio e al premio Antica Badia di San Savino. Per la narrativa ha ricevuto la menzione speciale del premio letterario indetto dall’Associazione culturale Evaluna (Centro studi del comune di Napoli), con la raccolta di racconti Il senso negato, con cui è stata pure finalista al concorso La vita in prosa. La silloge Acciaio è stata segnalata al concorso nazionale Lorenzo Montano 2010. Finalista al concorso Poesie di strada (Macerata, dicembre 2011) con la poesia Che ti rispondo se mi chiedi? tratta da Ultima stagione. Quest’ultimo libro è anche finalista Premio Palmi 2012.
“Ultima stagione” è stato recensito su “La lettura”, inserto del Corriere della Sera, con una nota di Franco Manzoni il 10 febbraio 2013. Lo scritto “Milano”, tratto dal libro inedito “Direzione inversa”, è stato pubblicato sulla rivista SETTE allegata al Corriere della Sera il 15 marzo 2913 nella rubrica Lettere al direttore. La silloge “Una domenica mattina” è anche un Ebook edito da Larecherche (23 gennaio 2013). “Direzione inversa” prosa e lirica insieme, è finalista al premio Lorenzo Montano -2013 per la sezione Prosa inedita. Sue poesie sull”ebook edito dalla Recherche antologia: Conversazioni su Proust – Salon Proust – Aa Vv. (10 Luglio 2013)