Riproposte
https://giardinodeipoeti.wordpress.com/2014/11/18/liliana-zinetti/
Essere cosa.
Accadde che l’immagine penetrò lo specchio.
Vi si stabilì incurante del suo patire
e degli scricchiolii, di un inutile contorcersi.
C’è una sofferenza che attiene anche agli oggetti.
Invano lo specchio tentò di cacciare
l’oscuro intruso, invano si sforzò di rimanere
intatto. Cedette, si frantumò
in minute schegge, così
lesta l’immagine scivolò via, si diresse altrove.
Ma era solamente uno specchio,
una cosa
e questa non è una poesia.
da Minime da una fine, CFR di Lucini, 2013
altro QUI
Sappiamo l’autunno, eppure
scriviamo poesie sulla lamina delle foglie.
Servirebbe un posto dove stare, un piccolo
momento perfetto, una mosca cieca da grandi
con le mani sugli occhi e, tra le dita,
la risata del sole.
Servirebbe non pensare allo scricchiolio
delle cose, al cedimento di ossa e profili.
Vedi, qualcosa passa (ed è già perduto)
senza aver avuto un nome.
Vita che ci regala albe e sogni e oscurità
la ruggine di chiavi che non aprono le porte
e vetri scagliati d’improvviso.
Il ragazzo si è gettato dal terzo piano.
(Un Dio distratto/un’accelerazione di molecole?)
L’hanno portato via a sirene spente
nell’aria chiara di aprile.
Hanno pulito il sangue, tutto
era come prima
solo gli alberi
andavano come pensieri nel vento.
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Sappiamo l’autunno, eppure
scriviamo poesie sulla lamina delle foglie.
Servirebbe un posto dove stare, un piccolo
momento perfetto, una mosca cieca da grandi
con le mani sugli occhi e, tra le dita,
la risata del sole.
Servirebbe non pensare allo scricchiolio
delle cose, al cedimento di ossa e profili.
Vedi, qualcosa passa (ed è già perduto)
senza aver avuto un nome.
Vita che ci regala albe e sogni e oscurità
la ruggine di chiavi che non aprono le porte
e vetri scagliati d’improvviso.
Il ragazzo si è gettato dal terzo piano.
(Un Dio distratto/un’accelerazione di molecole?)
L’hanno portato via a sirene spente
nell’aria chiara di aprile.
Hanno pulito il sangue, tutto
era come prima
solo gli alberi
andavano come pensieri nel vento.
*
Gli uccelli si sono chiamati per tutto il giorno,
sono andati sgombrando il cielo
di voli e traiettorie, stretto nel becco
il segreto. Insonne, urto gli spigoli
di tutte le domande.
E un rumore di vetri affila
la lama della luna, precipitano
nell’emorragia di stagioni
le vene degl’inverni. Quel qualcosa di noi,
fiato di bestie macellate
nel mattatoio di una luce
che scoperchia le tombe e
dissemina polvere di fiori,
alza mani dure nella notte
chiede la sfera perfetta nell’esatto silenzio.
Gli stormi sono bruciati nel rogo delle stelle.
Una piuma volteggia
si posa
pesa.
Cose così, nel solo ordine riconosciuto:
saracinesche e siepi, ossa.
da Nel solo ordine riconosciuto, L’Arcolaio, 2009
Il paesaggio è crollo
– rotaie, canali, febbre, allarmi, tangenziali
(chi lo guarda, lo inventa)
Tira un vento cattivo, si dice, ma il vento
è solo vento
e se morde gli alberi non lascia ferite.
Mano che scrive un nome, decide
senza sapienza. Siamo colpevoli, tutti,
di qualcosa. Invochiamo solamente
una pena equa, ma in ogni inizio scontiamo
l’assedio dei morti.
La mano che consegna segni alla neve
conosce la bufera, spezza il pane
per la fame dei defunti
buio fino alla nudità estrema
al nerbo che si tende, schiocca,
spalanca d’improvviso le finestre delle case.
*
Veniva una dolcezza
una piccola felicità
col canto di uccelli in volo
sospesi nel momento
Talvolta bastava.
L’alba sorgeva pulita,
bambina.
Oggi le parole vengono con il colore
della luce stretto nelle gole degli uccelli.
Ascolta, la nota
che non sai tradurre vola
tra le nubi a sussurrare l’inesplicabile
segreto dei fiumi. La pioggia
laverà l’aria, scintillerà il paesaggio
disteso come un lenzuolo al sole,
troppo chiaro per l’ombrato sguardo delle cose.
Traboccheranno di suoni le gronde
per la sete degli uccelli, il canto
raccolto dagli alberi
trascritto di foglia in foglia.
Aria e terra, allegro,
un bimbo salta
in una pozzanghera di vermi e stelle.
da I cipressi di Van Gogh, Ladolfi, 2011
E così nella luce
bagnata da una pioggia insistente
lui torna e attende
attende di rinascere, la barba
ruvida sul viso di una bambina
ora che rombando si alza l’asfalto
e la notte scioglie i capelli.
Ha tra le mani fiori di campo con
i colori spenti che sono diventati.
Mi guarda
come prima di scivolare
nel buio. Ha i miei occhi.
Nessun merlo, lo sai,
canterà primavera.
da Improvviso il mare, L’Arcolaio, 2012
V
Un raggio lunare nell’azzurro d’aprile un’inquietudine sottile (non vento, brandelli) abita il giorno eppure il sole è sui tetti e l’ombra è andata col suo nero oh ma è solo la casa che lamenta il suo vuoto pesce squarciato coi visceri a marcire al sole gli occhi bianchi e asciutti è solo la casa tranquilla nulla è accaduto perché nulla è stato non era casa non è mai stata casa non è mai stata davvero casa. Vendesi appartamento di recente costruzione, mai abitato, vero affare. Astenersi perditempo, ne è rimasto poco.
VI
Con un latrato il vuoto rimbalza tra le pareti. Chiudo le imposte, vado via. Non guarderò più la pioggia da queste finestre, la neve posarsi sul prato. Per altri fiorirà il giardino. Chiudo la porta per l’ultima volta – non ripeterò più questo gesto – sarà un altro come l’azzurro di oggi non sarà quello di domani svaniranno le impronte – non saremo stati. Chi perpetrò l’infamia avrà una vita felice nessun rimorso nessuna giustizia. Non indietreggio non cado vado con il nulla alle spalle: pronta per le stelle.
VIII
È tempo di attese questo, ma io ricordo solo domani che ripetono i gesti consueti consunti la linea della terra prosegue oltre me che rido degli orizzonti scarni degli imbecilli pur sapendo il mio ancor più ristretto è una questione di proporzioni di quanta vita e consapevolmente posso pure attendere allegramente la morte giocare un po’ con lei, prima , e vezzeggiarla blandirla anche con le parole come fossi veramente un poeta e non una che non è mai partita.
Essere cosa.
Accadde che l’immagine penetrò lo specchio.
Vi si stabilì incurante del suo patire
e degli scricchiolii, di un inutile contorcersi.
C’è una sofferenza che attiene anche agli oggetti.
Invano lo specchio tentò di cacciare
l’oscuro intruso, invano si sforzò di rimanere
intatto. Cedette, si frantumò
in minute schegge, così
lesta l’immagine scivolò via, si diresse altrove.
Ma era solamente uno specchio,
una cosa
e questa non è una poesia.
da Minime da una fine, CFR di Lucini, 2013
Settembre. Fuochi sulle colline.
La vita che non ha afferrato, distanza.
Sera stanca, strade di lumache d’argento.
Accarezza il suo cane.
Alberi strade cortili non la riconoscono,
chiuse le porte delle case.
Rumore di zoccoli, cavalli neri
in corsa verso il mare.
Oggi è quel giorno che si ripete
incessante. Non puoi cambiare
quello che è stato.
Accarezza il suo cane
che nella terra dorme.
*
Si cade perché si deve cadere
senza un luogo o un altrove
assenti anche a se stessi.
Sta diventando un’altra.
(Devi decidere: serpe o fiore?)
Ride, la bocca invasa dalle mosche
un groppo di vermi annidato nel cuore
chi va sicuro di sapere.
Chiedi una risposta, una, una sola.
Ma la serpe scatta
e s’avvinghia al fiore.
*
Era nell’approssimarsi
nella linea che taglia
tra il non detto e l’indicibile
era qualcosa che muoveva alla morte –
tu che parlavi tra gli slogan e il buio
e il buio si raccoglieva nelle mani
e le mani pregavano per una fine.
Una luce incerta
si legò a un destino, precipitò in una frase.
I luoghi non erano stati.
Dentro la commedia
la bambina morta ripeté
un’antica filastrocca, poi più nulla.
Perché nulla rimane dopo il male
lingua ossidata, carcerata alla gioia,
ma più forte preme la vita
il bene che non è mai servo
non si svende all’utilità e ai commerci
muove i gesti e il respiro dei nomi
si fa carne e sangue
e ascolta.
(inediti)