Ricordando Lucia
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[…] penso che se fossi una sana
stupida signora perbene mai ti avrei
ri-conosciuta
si riconoscono i propri simili
quelli che dio natura o chi altro mai
ha fatti
di-versi.[…]
(da una poesia di Lucia a me dedicata)
altro
…
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Non ho nemmeno una lettera
Quando correvo incontro a un sacchetto di gelati
che portavi nell’ora del tramonto o sotto il sole d’estate
e tu guardavi di sbieco le cose e ti soffermavi
sulla mia mano tesa come quella di uno zingaretto
sembravo la freccia che mira al cuore
le ginocchia macchiate di terra
le fiamme
incurvate dentro gli occhi
il braccio che implorava la benedizione
di quell’oro da succhiare a morsi
abitavamo allora
in un’immondizia di palazzi edificati
come macerie
Roma distava un pezzo di campagna, un’ansa di fiume
una corsa d’autobus su una valle di sterpaie
quei palazzi di borgata preservavano
la schiena della mia infanzia
come una chioccia grassa o il petto di una balia
ti ho visto ieri arrivare senza provviste
malato della tua follia della tua furia
correvo da te come un orfano in cerca
del mike blond della eldorado
non ho nemmeno una lettera
in cui ho riposto i miei riccioli, le scarpe
bagnate di pioggia
l’odio
quel vento che non era nostro
quel tempo che non era
nostro
–
altro qui
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Fino all’ultima sillaba dei giorni
scrivere è un destino covato dall’ombra delle ore
la spina amorosa di chi non lascia niente alle sue spalle
perché essere cenere, sostanza di vento
è inciso da sempre a lettere di fuoco
nelle pupille dei segni che trascina – un canzoniere
infimo, un breviario di passi senza orma
tracima sillabe d’innocenza e memoriali di sabbia
dalla brocca silente che disseta il labbro,
quando parole malate d’aria si staccano dalle mani
precipitano nell’impercettibile abisso
di una pagina –
scrivere è un’ora covata dal destino
la spina che costringe il corpo in reticoli d’albe in piena notte
e punge fruga ricuce orli slabbrati lacera la carne
fino a che sanguinano anche i sogni,
fino a che l’immagine fiorisce in echi di sorgente
gli alfabeti rappresi dentro un grido
(sono queste le voci che mancano a una pietra
per sentirsi un arco lanciato verso il cielo,
sono questi gli accenti
che scortano il seme alla sua tomba di luce – al precipizio ardente
dove la morte è presagio di stagioni,
oracolo dei frutti e del ricordo)
.
altro qui
–
Tempo r(e)ale
Sono entrata in una vasca di nebbia
un lattice tagliato da lame di sole
un telo d’azzurro militare sopra
a farmi pensare a niente di buono.
Ho vagato paziente, riprendendomi il tempo
di andare: le gambe inchiodate, stordita
la testa, ripetendomi Arsenio. E il diluvio
era già pronto ad esaudire i pensieri:
turbine esatto, luce sbigottita, cartacce
e tendaggi travolti dal bianco, odore di zolfo
di ozono di ferro arrugginito, tregenda di fili
e camicie. Lì l’acqua avanzava come un muro
qui ero all’asciutto, ancora per poco.
Ridendo pensavo che la morte,
goccia più goccia meno, sarà
come il temporale d’estate
improvviso, invalicabile.
Senza riparo, senza rimedio.
Bagnarsene, fino in fondo.
Le poesie appartengono a raccoltine che vado componendo da circa un paio d’anni: si tratta di versi generalmente sorti da un’ispirazione lampo che in un secondo momento si rivelano pertinenti a un discorso più ampio che me li fa collocare nell’una o nell’altra. La caratteristica comune è la scarsità o totale assenza di punteggiatura: una sfida a far sì che sia il suono delle parole a produrre ritmo e senso. I temi derivano dall’esperienza della malattia, della morte (meno evidente che non in passato), della difficoltà a mescolarmi con i ritmi del mondo: discorso solo apparentemente personale, che scaturisce, al contrario, dal continuo dialogo e confronto con le tante persone importanti della mia vita.
insomnia (frammenti)
le notti si sommano alle notti
e tutte hanno una spuria lentezza
che ti ridà al sole del mattino
gli occhi ancora aperti disperati
disegnano dei margini al silenzio
entropie #28
le braccia possenti
e le mani degli alberi
tese a tenere la terra
in alto dove è montagna
sono pochi drappelli
di soldati di retroguardia
[l’uomo-nemico
dappertutto dilaga]
metafore del freddo – 1
essere aquila averne l’occhio guardare
il sole senza abbassare lo sguardo
non serve: una corrente fredda
ammala anche le aquile le cala
a venti metri da terra
le spiuma mentre precipitano
le ritrovi passeri infreddoliti
su una siepe puntuta
con l’aria a mezzo stupita
uccelli di dio abituati alle altezze
al vasto respiro dell’ala
indecisi da un ramo all’altro
che oscilla precario
preda del primo gatto rognoso
che s’acquatta nell’ombra
credendosi tigre, leone
gli atti della postera – atto secondo
non mi stupisco quasi più di niente
ne ho viste troppe e ancora ne vedo
mi incanta un sorriso una parola
mi atterrisce la superbia l’invidia
quella che mi vorrebbe morta e sola
e invece io davanti a te non cedo
io sono io: io non sono gente
quartine #2
ci son tromboni in codesto paese
che far delle labbra trombetta è fargli
un complimento nobile e cortese
[il suon della tromba copre lor ragli]
H – come Hunger (nuovo alfabeto)
vorrei trasgredire,
combinare un bel pasticcio.
risolvo i guai altrui,
aggiusto cuori, mi impiccio;
sistemo nodi alle cravatte,
correggo errori di lingua,
chiedo scusa. vorrei
far piangere qualcuno,
spezzare almeno un cuore,
stare a guardare
un gran disastro
e non saper più ricominciare,
non saper più come i cocci
raccogliere e incollare
echi ridotti #42
sublime specchio di veraci detti
‘o scostumato, ‘o parlanfaccia
quando dico i miei versi maledetti
chi mi piglia a sassate
chi si lava la faccia
preghiera del poeta domenicale
la forza della filastrocca
l’energia del verso infantile
la tenerezza del domenicale
lo spessore dell’ingenuo sentire
l’onesta complicazione
il sale della precisione
i versi poveri e infaceti
dammi, signore dei poeti;
allontana da me la cresta
vietami l’alloro;
fa’ che indossi stracci
che raccolga ciò che resta
sul fondo da altri raschiato
e quando l’abbia cantato
– da poeta non laureato –
non mi vergogni
di sembrare una pazza
che i suoi bi-sogni
ha messo in piazza
da Echi ridotti
lo sdegno peloso lo schiaffo
ed il pugno per l’intasamento
fognario dei bassifondi poetici:
non vedete che siete patetici?
a me mi fa un emerito baffo
il piacimento e il compiacimento.
verrà la morte e avrà i vostri versi
i miei e tutti gli altri. non siete diversi.
***
giù per il mondo senza fine amaro
senza il tuo sorriso buono e arguto
ogni dardo del destino avaro
sarebbe stato velenoso e acuto.
***
ecco: fernuto.
m’è crisciuto
‘o scartiello:
e nun so’ scelle.
***
delle cose che fanno la mia domenica
la più bella è quando si svegliano:
una talpina che sgattaiola
non vista – crede lei, poiché, bambina,
se non vede non è veduta, pennuto
biondo e bello e di gentile aspetto –
e un tal signore che mi abbraccia
in un modo che non ha eguali in settimana
– io alta arrivo appena alla sua spalla –
mi godo l’illusione del tempo
che mi riporta una giovane madre
e un padre alto a protezione.
***
questa mattina mi son svegliata
o mia bella notte travagliata
addio! ho sentito il cuore dare
in un cigolio uno iato
di motore ingolfato
che parte si spegne si riaccende
una di quelle cose tremende
che ti fanno pensare che è giunta
la grande amica-nemica
che ti lasciano madida consunta
di forze di fiato
[e piena la vescica]
si sta male, a crepare.
***
la grande morte è il frutto
che per vivere dobbiamo
masticare. fu la mela del giardino
archetipo della vita
inchiavardata alla sua fine.
la maledizione non era
nel peccato del mangiare
non era nel disubbidire:
era nel dopo, nel terrore
della fine che ci portiamo
addosso. era nell’estremo
paradosso di chi per paura
di finire [ancora adesso
dove non si sa] massacra
i popoli dando la caccia
all’eternità.
***
ovunque orbite vuote
palpebre abbassate
un tempo brillanti ridenti
sontuosamente spalancate
su ogni bendiddio.
affittasi vendesi trasferito
riapertura in data da destinarsi.
è tutto un mondo che è finito
bisogna farsene una ragione:
dalla periferia al centro dell’impero
è un continuo sgretolarsi
un venir meno di modi e mode
pezzi di vita del grasso epulone.
e fuori è pianto e stridor di denti.
***
hai poco da averci
lo sguardo che mira
lontano: le cose vicine
son tali che ingombrano
la vista (le morti sbagliate
i fastidi di giornata l’ombra
sempre più lunga che fa piccine
le beghe stantìe ma appassionate).
non c’è il grillo non c’è il gatto nemmeno
un focolare con quelle quattro capriole con cui stare.
[hai un labirinto di strade da attraversare
la meta è lontana l’incubo diurno ti abbranca]
da Versi sciatti e indigeribili
venne il gelo e il matto
non sapendo dove andare
si riparava in un anfratto
tra i muri delle case.
da sotto le cimase
cadeva un gocciolare
solido, compatto. il matto
parlava con questo apostrofare:
“signore, pietà, non ho più il tatto,
fa un freddo più di me matto,
un freddo bipolare”.
***
ho il sospetto
che sia per questo
che non vado troppo
d’accordo con gli umani:
sono troppo libera: troppo!
ed è terribile difetto
assai indigesto
ai sani.
***
oh divano divano
che mi fai così accidiosa!
sei perfettamente divano:
ove la diva posa
il deretano.
Le poesie di Lucia Tosi mi hanno posto una domanda fin dalla prima lettura: perché dobbiamo toccare questi estremi di dolore, che libera dal tappo la botte della poesia e il vino inebriante? Non potrebbe, una poetessa, avere la sensibilità normale, come quelli che poeti non hanno mai pensato di essere e, al massimo, hanno scritto una dedica romantica nei fumi del primo amore?
Nei momenti di debolezza vorrei essere più normale anch’io. Poi mi chiedo che cosa significhi essere “normale”.
Mi sa che i fumi del primo amore, per i poeti, sono perenni, tutta la vita su una soglia artistica e di pensiero da oltrepassare e sempre avanti così.
Partiamo dalla prima poesia di Lucia Tosi, Tempor(e)ale: già il titolo è emblematico, il temporale è adesso, in tempo reale. Non è un ricordo né un timore per il futuro, è in atto: “Ridendo pensavo che la morte, goccia più, goccia meno, sarà come il temporale d’estate improvviso, invalicabile. Senza riparo, senza rimedio. Bagnarsene fino in fondo”.
Quel “ridendo” è sarcastico, graffia come una stilettata. E com’è bello quel passaggio all’infinito: “bagnarsene”: dalle gocce all’immenso della morte, che tutti ci prende.
E più avanti: “A guardar indietro parmi d’esser stata di pietra: neanche il tempo per graffiarmi il volto e buttarmi a terra, nel buio, a brancolare”.
Quel “graffiarmi il volto” mi fa pensare alle lamentazioni delle tragedie greche e quel “buttarmi a terra” ad un verso simile del Leopardi, ne La sera del dì di festa: e qui per terra mi getto, e grido, e fremo”, ma non è il solo Leopardi o Lucia Tosi, è l’eterna umanità storica che si lamenta: qualche volta anche a me è venuto questo bisogno perché buttarsi a terra è come cercare un conforto di radici oltre che un gesto di grande avvilimento: la terra è madre di ognuno e ci accoglie dopo la morte.
La terza poesia è dedicata a Cristina Bove, l’amica poetessa dalla vita semplice, di marmellate e talee, qui il tono di Lucia si addolcisce: “Non avresti bisogno di parole se non che ti furono date in cambio di una vita che non è mai stata solo tua”.
Nell’ultima poesia proposta Lucia invoca una tregua e un rifugio sperando che le esigenze quotidiane non la inseguano fin nel profondo della propria poesia, il suo “carcere libero” “con tutte le torture più raffinate che mi infliggo per sentire se ancora vivo”.
Dopo il conforto dell’amicizia con un’altra poetessa, ritorna l’angoscia esistenziale che non conosce mezzi termini ed ha bisogno di spiegarsi in parole come per chiarire a se stessa la dimensione di tutto questo se non il suo perché. Il dolore, esplorato, vissuto e rivissuto, le fa percepire di essere ancora in vita, come quando ci mordiamo la lingua ed il male ci sveglia.
Tempo r(e)ale
Sono entrata in una vasca di nebbia
un lattice tagliato da lame di sole
un telo d’azzurro militare sopra
a farmi pensare a niente di buono.
Ho vagato paziente, riprendendomi il tempo
di andare: le gambe inchiodate, stordita
la testa, ripetendomi Arsenio. E il diluvio
era già pronto ad esaudire i pensieri:
turbine esatto, luce sbigottita, cartacce
e tendaggi travolti dal bianco, odore di zolfo
di ozono di ferro arrugginito, tregenda di fili
e camicie. Lì l’acqua avanzava come un muro
qui ero all’asciutto, ancora per poco.
Ridendo pensavo che la morte,
goccia più goccia meno, sarà
come il temporale d’estate
improvviso, invalicabile.
Senza riparo, senza rimedio.
Bagnarsene, fino in fondo.
Mostratevi entusiasti di avermi conosciuto
La vita si fa poco per volta:
coi sensi di oggi non riconosco
quello che allora, e più indietro,
devo aver per certo provato:
per il sangue le morti
– da spiaccicamento autostradale o da malanno –
i suicidi.
Ogni volta una diga che tracima
un vajont di disperazione.
Come l’acqua che si ritira
non si sa dove – di tanta
che n’è scesa – anche il dolore
lo risucchiano il da fare
del giorno e l’invocata tenebra.
A guardare indietro
parmi d’esser stata di pietra:
neanche il tempo per graffiarmi il volto
e buttarmi a terra, nel buio,
a brancolare.
Fumi
ho sognato una collina verde
con campi lavorati e boschi
in cima un castello antico
a ben guardare spuntavano
da dietro le torri altre torri
metalliche rugginose e fumose
una portomarghera di montagna
ho girato le spalle aperto gli occhi
per non vedere
fuori una nebbia novembrina
l’afa di là dai cortili il tram
che stride come un pavone
hanno disciolto l’incubo
a Cristina Bove, in margine a “tregue”
questo è un altro pianeta:
asteroide in fuga nella tua orbita
passo ogni mill’anni
a riprendere la corsa. fuori
imperversa la miseria
delle beghe canine
di chi poeta dice
di essere e non sa.
marmellate e talee, tale
la tua vita d’uso che si spande
in ore. quella di sopra
ha la forza delle ere
che ti danzano attorno:
non avresti bisogno
di parole se non che
ti furon date in cambio
di una vita che non è mai
stata solo tua
mettere da parte il giorno
duro fatica a pensare
ci vuole spazio e una tregua
mettere da parte il giorno
con i suoi annunci e proclami
sperando non mi insegua
fin nei sotterranei della casa
dove ho il mio rifugio
di talpa il mio carcere libero
il pensatoio strozzatoio
con tutte le torture
più raffinate che mi infliggo
per sentire se ancora vivo
Per chi volesse leggere quello che considero un gioiello della sua poetica ecco “il piccolo alfabeto del malumore”, nella Dimora del tempo sospeso di Francesco Marotta
e c’è ancora molto altro da scoprire nel blog da lei condotto Il lunedì degli scrittori