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Luca Pizzolitto

21 marzo 2022

CROCEVIA DEI CAMMMINI

Ed peQuod 2022

                                

                                       

recensione di Luigi Paraboschi

                                   

                                                    

Due parole in questo lavoro mi hanno affascinato dall’inizio : si trovano nell’ esergo di apertura ove si legge una citazione del poeta francese Bonnefoy che dice :

“ E l’estraneo, l’esilio, in te, in me, si faccia origine “

Le parole sono : estraneo – esilio, e le ho tenute presenti lungo tutto lo sviluppo della raccolta; lentamente mi hanno aperto uno squarcio dentro i versi di Pizzolitto aiutandomi, spero, a inquadrare meglio la figura di questo poeta che nella sua scrittura dimostra ottime qualità di approfondimento nell’animo suo e, di conseguenza, anche in quello dei lettori armati di buona volontà.

La raccolta parla d’amore. Vorrei però dissipare i luoghi comuni molto diffusi attorno a questo sentimento, perché nel nostro caso ci troviamo di fronte a una forza interiore talmente grande da far sì che l’autore si senta, e ci faccia sentire tutto il peso la sua condizione di esiliato e di estraneo, come leggiamo a pag 35 :

“ Io cammino solo e/ spento nel tramonto// il mio cuore è un ceppo/ di legna secca bruciato/ fino all’ultimo centimetro/ di amore possibile-// “

Il libro ha un andamento che assume la veste della confessione pubblica attorno a una storia d’amore finita, o che sta per finire, e il tutto viene esposto al lettore con estrema brevità ( al massimo otto versi in qualche raro pezzo, ma se ne trovano parecchi di una o due brevi strofe ) che rimanda a certi film di Resnais degli anni ‘59-’60 (“ Hiroshima mon amour“ e “ L’anno scorso a Marienbad “ ) .

Come in quei film, si è talmente ridotta la comunicazione-dialogo dei personaggi da arrivare al punto di fare estinguere la storia dell’amore tra un uomo e una donna per non causare ulteriori sofferenze tra di loro.

Infatti l’autore scrive a pag. 20 :

“ Parole che staccano a morsi/ lembi di pelle, parole su carne viva “

E’ il tormento, la tortura psicologica – che forse traggono origini dal “ non detto” nel rapporto a due- ciò che fa sentire il poeta come tagliato fuori dal vivere, mandato in esilio non per colpa di qualcuno, bensì per una sorta di dannazione dovuta all’esistere ove

“ nessuno verrà a dirti/ ciò che manca “ (pag. 40 ).

L’esilio è tradizionalmente la condizione perenne di distacco dalla terra ove si ha avuto origine, ma per terra si può anche intendere una persona con la quale c’è stato :

“ il cedere lento all’ebbrezza/ dei naufragati, un dolce restare/ dentro tutte le cose “ ( pag. 26 )

e l’esiliato è colui che analizza il suo vivere ancora di pag. 40 :

“ E’ come bere, bere tenendo le labbra/ stette alla bottiglia, bere e avere sempre più sete //.

Quando il dolore per una perdita è molto acuto l’anima del sopravvissuto cerca in continuazione il modo per non sentirsi estranea all’esistenza e pag.12 riporto per intero un testo che lo esprime con chiarezza :

“ La terra divisa e lasciata/ alla cenere, ciò che avanza/alla notte è deriva lenta del cuore:/ quale libertà, mi dici, quale libertà/ è questo nostro stare, inquieti,/ inchiodati// nello spazio senza rumore di un istante ? //Qui sulla riva lontana del fuoco,/ ti seguo con lo sguardo,/ mi cerco ancora .//

Tutto il lavoro di Pizzolitto appare come una tela di pittura astratta costruita passo dopo passo con brevi colpi materici di spatola, come se egli usasse la lingua come il pittore fa con i colori .

Lentamente egli passa l’osservazione del paesaggio a pag. 16:

“ fluisce la vita, irreparabile,/ tra bottiglie lasciate a metà/ e questo cadere di foglie/ nei giorni di ottobre “

ove però la natura ha qui un posto quasi marginale nel suo narrare, sembra un “ pour parler “ che gli serve semplicemente per imbastire il racconto di sé e del suo dolore, a pag.14

“ …….tutto sfugge e trema/ nella città dimenticata, tutto/ si fa memoria austera del vuoto/…….

ed è sempre lui il nucleo centrale attorno a cui si annoda e snoda tutta la storia, pag35 :

“ io cammino solo e spento nel tramonto// il mio cuore è un ceppo/ di legna secca bruciato/ fino all’ultimo centimetro / di un amore impossibile !!

e l’amarezza gli fa scrivere con echi pavesiani a pag. 40

“ Forse il senso della vita è qui/ nel tempo che scorre e non chiede ragione ; forse è l’abbaiare d’un cane alla notte, il ricordo di una giovinezza/ ormai lontana/….

Poi con fatalità aggiunge a pag. 91 :

“ noi andiamo sempre verso un tempo, una stagione che non sappiamo “

e conclude a pag. 102 con questa strofa :

“ Nell’ istante esatto in cui il tuo cuore/ si spezza e capisci che niente ritorna/ niente può mai durare davvero “.

Rimangono soltanto i ricordi ma causano sofferenza, e stralcio ancora questi due versi di pag. 21 .

“ questo silenzio tra i nostri corpi/ il fragile inganno delle mani “

Al poeta non resta che la sconfitta e a comprova di quanto scrivo, trascrivo questa di pag. 93 per intero :

“cammino solitario mentre/ nell’ azzurro del cielo cade/ la sera e si fa notte//
Questa collina è sabbia/ che il vento solleva e disperde// giorni fatti di addii,/ cappotti scuciti e foglie/ fiorite su nuove,/ disabitate lontananze “.

Alla fine della storia l’uomo-poeta avverte tutto il peso della impossibilità a condividere con qualcuno il suo dolore se non con chi lo ha generato sia esso la madre terrena o il Dio in cui egli dimostra di credere, e, come succede spesso agli uomini, alza lo sguardo al Cielo sperando di trovarvi qualche conforto, ma…

“ Nell’ ostinato silenzio di Dio / nel suo sguardo breve/ di madre/ e trova riposo/ ogni mia lontananza//

E’ duro amare dentro una storia finita, scardina ogni sicurezza il ricordo del passato, così ben detto a pag. 65 :

“ Di questa estate ci resta addosso/ la nuda felicità delle gerbere in fiore/ l’andare del vento sui nostri passi,/ le Ave Maria in latino nel chiostro/ di san Miniato// Due rondini volano sui cieli infranti/ dei nostri inutili ritorni./ Firenze è il ricordo di una città che/muore nel sole di agosto //

Ma quel Dio che precedente l’autore aveva definito “ silenzioso “ prepara dentro l’ animo di Pizzolitto la Sua resurrezione, e riporto per intero questi versi della poesia “ Venerdi’ Santo “ ( pag. 51)

E’ un sole che splende/ sulla polvere di strade/bruciate; forte ed eterno è l’amore.// Guardi il vuoto, silenziosa presenza:/ niente cede, niente muore davvero //

Il cammino dell’esilio è stato lungo e dolorosi, i ricordi portano un poco di gioia dentro il cuore, ma il poeta sa dove cercare rifugio e conforto, e volge lo sguardo verso qualcuno che ha sempre sentito presente nella sua vita, concludendo la raccolta con questa poesia a pag. 103 che dà il titolo all’intero lavoro :

Crocevia del cammini

Nello spazio sacro della sera,/
nel volgere a compimento/
di tutte le cose/
scenda ancora su di noi la grazia,/
una dolce benedizione//

a Te giunga il canto/
di questo inquieto esistere,/
a Te giunga il grido/
che non trova pace, ragione//

Anch’io da lettore appassionato, da uomo spesso addolorato per le più diverse ragioni, da persona che si muove lentamente per le vie del mondo e spesso si smarrisce per la strada, non posso che riconosce nei suoi versi una forza espressiva non indifferente, e la mia speranza per lui è che possa trovare la pace e la ragione ove egli pensa di averla riposta.

17-18 febbraio 2020
luigi paraboschi

POESIE TRATTE DA “CROCEVIA DEI CAMMINI” (peQuod, collana Rive, 2022)

Nell’avanzo di parole
su cieli colmi di rabbia,
qui dove piove piano
e rinfresca la sera

cedi al vuoto, al niente,
il dono austero delle labbra.

Nell’ostinato silenzio di Dio,
nel tuo sguardo breve
di madre trova riposo
ogni mia lontananza.

Dalle tue cicatrici

Il nostro è un paese
di pietre e rovine,
qualcosa che somiglia
al distacco lento dei corpi
dopo l’amore,
lo stelo avulso,
spezzato del tempo.

Dalle tue cicatrici
ciò che nasce – ora,
ciò che nasce è solo
inerme, smisurata
bellezza.

Luce lasciata e tersa
dei primi giorni di dicembre,
misericordia del vento sul
tuo viso gentile, tagliato dal freddo.

È l’eco ostinata del vuoto,
è un peso greve sul cuore;
neve che accende e poi placa
l’inciampo della sera.

Andare in pezzi, fiorire un mattino.

Un dolce restare

Tra me e voi giace un’assenza,
una sussurrata lontananza.

L’aria intorno è ferma, pesante.
Nel cielo caldo, nell’afa di agosto.

Il cedere lento all’ebbrezza
dei naufragati, un dolce restare
dentro tutte le cose.

Hai detto

Ritrovarsi a terra, salvi,
qui dove i vetri soffrono
e le tue ciglia tremano appena.

Mi hai preso per mano,
hai detto Vieni, è quasi mattina.

Venerdì Santo

È un sole che splende
sulla polvere di strade
bruciate; forte ed eterno
è l’amore.

Guardi il vuoto,
silenziosa presenza:
niente cede,
niente muore davvero.

Luca Pizzolitto nasce a Torino il 12 febbraio 1980, città dove attualmente vive e lavora come educatore professionale.

Da quasi vent’anni si interessa ed occupa di poesia.

Nel 2008 vince il Premio Arezzo Poesia; nel 2014 si classifica primo al Concorso Letterario Internazionale Città di Moncalieri (“Una disperata tenerezza”, Ladolfi)i.
Nel 2019 vince il Premio Internazionale Città di Latina (“Il tempo fertile della solitudine”, Campanotto).
Nel 2021 è finalista al Premio di Poesia Onesta e Premio Prato Poesia (“La ragione della polvere”, peQuod)

I suoi ultimi libri pubblicati sono: L’allontanarsi delle cose (Ladolfi), Il silenzio necessario (Transeuropa), Dove non sono mai stato (Campanotto), Il tempo fertile della solitudine (Campanotto), Tornando a casa (Puntoacapo).
Con la casa editrice peQuod ha pubblicato, nella collana Rive: La ragione della polvere (2020) e Crocevia dei cammini (2022).

Da fine 2021 dirige la collana di poesia portosepolto, sempre per conto della casa editrice peQuod.

sito: http://www.lucapizzolitto.it
facebook: https://www.facebook.com/pizzolittoluca

Due parole in questo lavoro mi hanno affascinato dall’inizio : si trovano nell’ esergo di apertura ove si legge una citazione del poeta francese Bonnefoy che dice :

“ E l’estraneo, l’esilio, in te, in me, si faccia origine “

Le parole sono : estraneo – esilio, e le ho tenute presenti lungo tutto lo sviluppo della raccolta; lentamente mi hanno aperto uno squarcio dentro i versi di Pizzolitto aiutandomi, spero, a inquadrare meglio la figura di questo poeta che nella sua scrittura dimostra ottime qualità di approfondimento nell’animo suo e, di conseguenza, anche in quello dei lettori armati di buona volontà.

La raccolta parla d’amore. Vorrei però dissipare i luoghi comuni molto diffusi attorno a questo sentimento, perché nel nostro caso ci troviamo di fronte a una forza interiore talmente grande da far sì che l’autore si senta, e ci faccia sentire tutto il peso la sua condizione di esiliato e di estraneo, come leggiamo a pag 35 :

“ Io cammino solo e/ spento nel tramonto// il mio cuore è un ceppo/ di legna secca bruciato/ fino all’ultimo centimetro/ di amore possibile-// “

Il libro ha un andamento che assume la veste della confessione pubblica attorno a una storia d’amore finita, o che sta per finire, e il tutto viene esposto al lettore con estrema brevità ( al massimo otto versi in qualche raro pezzo, ma se ne trovano parecchi di una o due brevi strofe ) che rimanda a certi film di Resnais degli anni ‘59-’60 (“ Hiroshima mon amour“ e “ L’anno scorso a Marienbad “ ) .

Come in quei film, si è talmente ridotta la comunicazione-dialogo dei personaggi da arrivare al punto di fare estinguere la storia dell’amore tra un uomo e una donna per non causare ulteriori sofferenze tra di loro.

Infatti l’autore scrive a pag. 20 :

“ Parole che staccano a morsi/ lembi di pelle, parole su carne viva “

E’ il tormento, la tortura psicologica – che forse traggono origini dal “ non detto” nel rapporto a due- ciò che fa sentire il poeta come tagliato fuori dal vivere, mandato in esilio non per colpa di qualcuno, bensì per una sorta di dannazione dovuta all’esistere ove

“ nessuno verrà a dirti/ ciò che manca “ (pag. 40 ).

L’esilio è tradizionalmente la condizione perenne di distacco dalla terra ove si ha avuto origine, ma per terra si può anche intendere una persona con la quale c’è stato :

“ il cedere lento all’ebbrezza/ dei naufragati, un dolce restare/ dentro tutte le cose “ ( pag. 26 )

e l’esiliato è colui che analizza il suo vivere ancora di pag. 40 :

“ E’ come bere, bere tenendo le labbra/ stette alla bottiglia, bere e avere sempre più sete //.

Quando il dolore per una perdita è molto acuto l’anima del sopravvissuto cerca in continuazione il modo per non sentirsi estranea all’esistenza e pag.12 riporto per intero un testo che lo esprime con chiarezza :

“ La terra divisa e lasciata/ alla cenere, ciò che avanza/alla notte è deriva lenta del cuore:/ quale libertà, mi dici, quale libertà/ è questo nostro stare, inquieti,/ inchiodati// nello spazio senza rumore di un istante ? //Qui sulla riva lontana del fuoco,/ ti seguo con lo sguardo,/ mi cerco ancora .//

Tutto il lavoro di Pizzolitto appare come una tela di pittura astratta costruita passo dopo passo con brevi colpi materici di spatola, come se egli usasse la lingua come il pittore fa con i colori .

Lentamente egli passa l’osservazione del paesaggio a pag. 16:

“ fluisce la vita, irreparabile,/ tra bottiglie lasciate a metà/ e questo cadere di foglie/ nei giorni di ottobre “

ove però la natura ha qui un posto quasi marginale nel suo narrare, sembra un “ pour parler “ che gli serve semplicemente per imbastire il racconto di sé e del suo dolore, a pag.14

“ …….tutto sfugge e trema/ nella città dimenticata, tutto/ si fa memoria austera del vuoto/…….

ed è sempre lui il nucleo centrale attorno a cui si annoda e snoda tutta la storia, pag35 :

“ io cammino solo e spento nel tramonto// il mio cuore è un ceppo/ di legna secca bruciato/ fino all’ultimo centimetro / di un amore impossibile !!

e l’amarezza gli fa scrivere con echi pavesiani a pag. 40

“ Forse il senso della vita è qui/ nel tempo che scorre e non chiede ragione ; forse è l’abbaiare d’un cane alla notte, il ricordo di una giovinezza/ ormai lontana/….

Poi con fatalità aggiunge a pag. 91 :

“ noi andiamo sempre verso un tempo, una stagione che non sappiamo “

e conclude a pag. 102 con questa strofa :

“ Nell’ istante esatto in cui il tuo cuore/ si spezza e capisci che niente ritorna/ niente può mai durare davvero “.

Rimangono soltanto i ricordi ma causano sofferenza, e stralcio ancora questi due versi di pag. 21 .

“ questo silenzio tra i nostri corpi/ il fragile inganno delle mani “

Al poeta non resta che la sconfitta e a comprova di quanto scrivo, trascrivo questa di pag. 93 per intero :

“cammino solitario mentre/ nell’ azzurro del cielo cade/ la sera e si fa notte//
Questa collina è sabbia/ che il vento solleva e disperde// giorni fatti di addii,/ cappotti scuciti e foglie/ fiorite su nuove,/ disabitate lontananze “.

Alla fine della storia l’uomo-poeta avverte tutto il peso della impossibilità a condividere con qualcuno il suo dolore se non con chi lo ha generato sia esso la madre terrena o il Dio in cui egli dimostra di credere, e, come succede spesso agli uomini, alza lo sguardo al Cielo sperando di trovarvi qualche conforto, ma…

“ Nell’ ostinato silenzio di Dio / nel suo sguardo breve/ di madre/ e trova riposo/ ogni mia lontananza//

E’ duro amare dentro una storia finita, scardina ogni sicurezza il ricordo del passato, così ben detto a pag. 65 :

“ Di questa estate ci resta addosso/ la nuda felicità delle gerbere in fiore/ l’andare del vento sui nostri passi,/ le Ave Maria in latino nel chiostro/ di san Miniato// Due rondini volano sui cieli infranti/ dei nostri inutili ritorni./ Firenze è il ricordo di una città che/muore nel sole di agosto //

Ma quel Dio che precedente l’autore aveva definito “ silenzioso “ prepara dentro l’ animo di Pizzolitto la Sua resurrezione, e riporto per intero questi versi della poesia “ Venerdi’ Santo “ ( pag. 51)

E’ un sole che splende/ sulla polvere di strade/bruciate; forte ed eterno è l’amore.// Guardi il vuoto, silenziosa presenza:/ niente cede, niente muore davvero //

Il cammino dell’esilio è stato lungo e dolorosi, i ricordi portano un poco di gioia dentro il cuore, ma il poeta sa dove cercare rifugio e conforto, e volge lo sguardo verso qualcuno che ha sempre sentito presente nella sua vita, concludendo la raccolta con questa poesia a pag. 103 che dà il titolo all’intero lavoro :

Crocevia del cammini

Nello spazio sacro della sera,/
nel volgere a compimento/
di tutte le cose/
scenda ancora su di noi la grazia,/
una dolce benedizione//

a Te giunga il canto/
di questo inquieto esistere,/
a Te giunga il grido/
che non trova pace, ragione//

Anch’io da lettore appassionato, da uomo spesso addolorato per le più diverse ragioni, da persona che si muove lentamente per le vie del mondo e spesso si smarrisce per la strada, non posso che riconosce nei suoi versi una forza espressiva non indifferente, e la mia speranza per lui è che possa trovare la pace e la ragione ove egli pensa di averla riposta.

17-18 febbraio 2020
luigi paraboschi

POESIE TRATTE DA “CROCEVIA DEI CAMMINI” (peQuod, collana Rive, 2022)

                            

Nell’avanzo di parole
su cieli colmi di rabbia,
qui dove piove piano
e rinfresca la sera

cedi al vuoto, al niente,
il dono austero delle labbra.

Nell’ostinato silenzio di Dio,
nel tuo sguardo breve
di madre trova riposo
ogni mia lontananza.

Dalle tue cicatrici

Il nostro è un paese
di pietre e rovine,
qualcosa che somiglia
al distacco lento dei corpi
dopo l’amore,
lo stelo avulso,
spezzato del tempo.

Dalle tue cicatrici
ciò che nasce – ora,
ciò che nasce è solo
inerme, smisurata
bellezza.

Luce lasciata e tersa
dei primi giorni di dicembre,
misericordia del vento sul
tuo viso gentile, tagliato dal freddo.

È l’eco ostinata del vuoto,
è un peso greve sul cuore;
neve che accende e poi placa
l’inciampo della sera.

Andare in pezzi, fiorire un mattino.

Un dolce restare

Tra me e voi giace un’assenza,
una sussurrata lontananza.

L’aria intorno è ferma, pesante.
Nel cielo caldo, nell’afa di agosto.

Il cedere lento all’ebbrezza
dei naufragati, un dolce restare
dentro tutte le cose.

                       

                   

Hai detto

Ritrovarsi a terra, salvi,
qui dove i vetri soffrono
e le tue ciglia tremano appena.

Mi hai preso per mano,
hai detto Vieni, è quasi mattina.

                    

                   

Venerdì Santo

È un sole che splende
sulla polvere di strade
bruciate; forte ed eterno
è l’amore.

Guardi il vuoto,
silenziosa presenza:
niente cede,
niente muore davvero.

Luca Pizzolitto nasce a Torino il 12 febbraio 1980, città dove attualmente vive e lavora come educatore professionale.

Da quasi vent’anni si interessa ed occupa di poesia.

Nel 2008 vince il Premio Arezzo Poesia; nel 2014 si classifica primo al Concorso Letterario Internazionale Città di Moncalieri (“Una disperata tenerezza”, Ladolfi)i.
Nel 2019 vince il Premio Internazionale Città di Latina (“Il tempo fertile della solitudine”, Campanotto).
Nel 2021 è finalista al Premio di Poesia Onesta e Premio Prato Poesia (“La ragione della polvere”, peQuod)

I suoi ultimi libri pubblicati sono: L’allontanarsi delle cose (Ladolfi), Il silenzio necessario (Transeuropa), Dove non sono mai stato (Campanotto), Il tempo fertile della solitudine (Campanotto), Tornando a casa (Puntoacapo).
Con la casa editrice peQuod ha pubblicato, nella collana Rive: La ragione della polvere (2020) e Crocevia dei cammini (2022).

Da fine 2021 dirige la collana di poesia portosepolto, sempre per conto della casa editrice peQuod.

sito: http://www.lucapizzolitto.it
facebook: https://www.facebook.com/pizzolittoluca

Luigi Paraboschi

1 ottobre 2021

Non c’è bisogno di presentazione per questa raccolta di Luigi Paraboschi, questi versi sono summa di vita, condivisione di un pensiero che tende all’ineffabile partendo dall’intima esperienza umana.
Leggerli fa bene all’anima.

                                        

                                          

“…eppure non ha senso/ rimpiangere il passato, provare nostalgia per quello che/ crediamo di essere stati./ Ogni sette anni si rinnovano le cellule :/adesso siamo chi non eravamo./ Anche vivendo lo dimentichiamo/ restiamo in carica per poco/“

“Historiae “di Antonella Anedda
                 

                                       

                  hic et nunc
…starsene fermi/ su questo mondo che ci ruota attorno/perennemente in viaggio verso est/ e dirsi in versi/ forse nel tentativo di sottrarsi/ non solamente al male/ ma anche alla terribile bellezza/ che annichilisce e ammalia /

  “la simmetria del vuoto”  Cristina Bove

                          

                              

                Lettere dal confino
“ non credo in niente/ ma accendo una candela/ e per poterti ritrovare qui/
dico perfino una preghiera “.

  “ una piccolissima morte “ Francesca Del Moro

      

                                                


_____________________                                                                      

         ____________________________________________________________________________

Ai margini dei fossi

Ai margini dei fossi stanno
dignitosi fiori dai nomi sconosciuti
ignorati da chi passa e va di fretta,
nella povertà del paesaggio
polveroso spuntano striminziti
tra gli sterpi, si nascondono alla vista
hanno petali lavanda o lacca di garanza
profumi che solo qualche laborioso
insetto può rintracciare a fiuto
se però ti serve un mazzo per decorare
non ti rivolgi a loro, cogli nel tuo giardino ,
più spesso il tuo sguardo vola a quello del vicino.
                          
                    

Si formerà una pozza

Ho voglia di mettere giù due o tre righe
sopra un foglio di carta da droghiere,
intingo la penna nei colori ad acqua
e quando a novembre pioverà
le mie parole si scioglieranno
allora si formerà un pozza scura
sopra il tavolo dove siedi per la cena.

Non sto scrivendo dai confini del mondo,
da più lontano, dal luogo ove le nuvole
si riposano quando sono stanche,
è sempre settembre fatto con mezze
luci che s’allungano dolci sopra le foglie
e fanno diventare rosse
di calda vita anche le tende

                  
                     

Tutto il respiro

E’ dunque vero ciò che scrisse il bardo
che vi sono più cose tra cielo e terra
di quanta ne contempli la nostra filosofia ?
Oppure siamo certi di sapere il luogo
dove nasce la malinconia o da che cosa
sboccia la fonte del desiderio?

Se è la carne a farci dire la tristezza
come spiegare allora la corsa ad inseguire
l’appagamento, il tentativo di riempire
un vuoto che appare come nostalgia?

Mongolfiere senza lo spirito condannate
a ripiegare sopra terre desolate,
alianti che senza le correnti devono
planare sperando di non schiantarsi
siamo,
eppure questa attesa di conoscenza
non si tace, il vuoto dentro il quale
ci agitiamo è un porto nascosto
dove sperare incontri di fortuna.

                         

                     

A chi racconteremo i silenzi ?

Sapessimo prevedere quando
finiranno le tempeste
potremmo metterci al riparo
dentro un portone o sotto gli archi,
ma ciò non ci è concesso, ogni risveglio
riporta vecchie ruggini e s’accresce
il cigolio sopra i cardini del tempo.

Andarsene sarà capire il metro
di quel verso troppo lungo
che si voleva spezzare perché
non s’adattava e nel respiro s’assopirà
la nostra voglia di trasmigrare.

A chi racconteremo i silenzi
di quando il giorno è peso
senza ragione, la fatica
per rimanere in piedi _ vigili
ma disattenti_ se non a un foglio
bianco con sopra tracce di parole?

                           

                                 

Il sonno della ragione genera pace

Alle sette di mattina in piena estate quando
il sole è pura luce senza calore pare d’essere
calati in un Bonnard, e camminare nella città
dei morti è come viaggiare sopra un treno
quando s’osserva il panorama dal finestrino.

Sosto di fronte alla bellezza d’una crocchia
ben acconciata, dentro la foto un viso di tre quarti
mi guarda tenero e un poco triste, quasi
complice di qualcosa che solamente noi sappiamo.

In questo panorama mattutino risuona
come il tintinnio di due bicchieri il battere
di una cazzuola contro il mattone
per una nuova sede da cui col tempo
affiorerà l’ umidità che sfoglierà l’intonaco.

Si spezza il marmo, l’involucro perde la resistenza
al tempo e l’erba grassa cresce e si propaga,
tutto riposa in serenità sopra le passioni
stinte nel buio, su gli amori giurati eterni,

si spengono le ambizioni e l’inseguimento che ci allarmavano
l’orecchio come succede ai gatti per i suoni sconosciuti,
tutto diventa luce nel mattino, calati dentro un Bonnard.

                         

                                   

E’ un ‘assenza senza la giustificazione

Ti serve solamente un tronco scorticato
in fondo ad un campo un po’ in discesa
per appoggiarvi il peso delle spalle,
e una finestra da cui scrutare chi risale
il declivio del tuo orto non diserbato,
attendere poi che il ghiaccio nella gronda
diventi acqua nella secchia per interrare
qualche seme e dare un nome nuovo al fiore.

E’ la gratuità a fare meno arido
un incontro tra due cespugli rotolanti
nel vento. Ora che le notti lunghe
dell’inverno hanno smagrito i passeri
restano a loro le piume per il corpo scarno
a noi le parole per cercare un senso
a frammenti di vocali smarrite
e rimanere senza risposte o spiegazioni
è un’assenza senza la giustificazione
sipario che cala all’improvviso
sopra la ricerca di un significato.

                         

 

Arrivederci

E’ stata rapida la tua partenza, un soffio come il vento
che con un colpo d’ala passa sopra i fiori e li disfoglia,
sei andata senza un saluto, forse neppure la coscienza
che ti stavi avvicinando a quella casa ove da sempre eri attesa
_amica cara di tanta vita _ Neppure un gesto della mano
una strizzata d’occhi, forse nemmeno un’invocazione,
ma uno scorrere lento da qui a là, lo sprofondare
dentro il buio che diventa luce in un istante.
Abbandonarsi dal letto dell’ospizio a quello della corsia
senza sapere chi-dove-e-quando, solo il perché
non ti è mai stato ignoto (diceva Carla che non si era
venuti al mondo per compiere una passeggiata ) ma anche tu
ben sapevi che era una scalata spesso senza ramponi.

 

                     

Ciò che resta

Tace la finestra, non oscilla più la tenda,
le stanze non risuonano del parlottio quotidiano,
è vuoto questo mattino, non odo il saluto che dà
lo spazio alla consueta malinconia che improvvisa
o lenta prima o poi scenderà a cancellare visi parole
e gesti, e quell’ultimo respirò s’aprirà sopra un vuoto
nero dove non saprò più scrivere di me e di noi sospesi.

Resta solamente il vuoto di ciò che i sogni lasciano
il fiore amaro delle parole che non abbiamo saputo
pronunciare, lo sguardo stanco di chi ha visto
ciò che è rimasto indietro, la mano persa, la presunzione
d’essere stati di importanza, e un canto aprirà la strada
con il suono profondo di una gola stanca e le vocali nitide
modulate da una fede consapevole per la libertà ottenuta,

allora il giudizio sarà folgorante, un lampo per rimediare
o perdere e scopriremo infine che non era l’ombra ciò
che temevamo ma le voci, i ricordi, gli amori, macigni
sopra i nostri poveri stanchi cuori in attesa di perdono

                        
                                      

                     

[…] Ho amato questi testi di Luigi Paraboschi, come appunti di vita trasposti in poesia, dove il vissuto è reso con un vigore audace, talvolta visionario, ma sempre ancorato alla necessità d’essere veritieri, anche nel registrare le emozioni, senza nulla tralasciare di gioie, dolori, speranze, timori che appartengono all’età che avanza e sempre più avvicina a quel momento la cui certezza per molti è fonte di sconcerto.
Non per il poeta che ha scritto questi versi, che in una sua visione quasi voltairiana, navigando sui mari ondosi della poesia, assegna a dimensioni ultraterrene segreti da svelare: il porto esiste, per raggiungerlo bisogna fronteggiare le tempeste.
C’e un significato implicito nel vivere, vuole comunicarci l’autore, e ci riesce perché lascia che il sogno abbia respiro e renda manifesta l’anima anche nelle piccole cose quotidiane.
Scrive dell’essere umani e transeunti senza facili abbagli, con lo sguardo limpido di chi sa che ci sono “più cose sotto il cielo…”.
Un linguaggio che sfida dispersioni:

“Non sto scrivendo dai confini del mondo,
da più lontano, dal luogo ove le nuvole
si riposano quando sono stanche,
è sempre settembre fatto con mezze
luci che s’allungano dolci sopra le foglie
e fanno diventare rosse
di calda vita anche le tende.”  […]

dalla postfazione di Cristina Bove

Anna Maria Curci

20 gennaio 2021

   Luigi Paraboschi recensisce OPERA INCERTA di Anna Maria Curci
ed. l’Arcolaio 2020

La grande poesia (e questa della Curci lo è) possiede la capacità di saper leggere la storia attraverso gli elementi temporali nella quale viene scritta.
Può talvolta accadere che le parole nelle quali ci si imbatte sembrino poco connesse alla logica espressiva che è propria di ciascuno di noi, così il genere di poetica della Curci manifesta tutta la sua ricchezza e profondità solamente dopo una seconda o terza lettura.
Se si legge “Opera Incerta” non tenendo presente lo spessore culturale dell’autrice, se non si presta sufficiente attenzione alla sua capacità di essere ironica con se stessa e di conseguenza anche con chi legge, non si arriva ad afferrare il significato di questi versi di “Atlantina“, dove l’autrice sembra parlare a se stessa, ma nel finale indica con chiarezza quali errori si è indotti a giudicare quando si opera “senza gli occhiali“ necessari per esaminare in profondità ogni cosa.

“ innaffia i tuoi sensi di colpa/ piega la schiena / fustiga le reni// non basta ancora dici/ e gonfi il petto/ però con quello non trascini pesi // pensavi di aver fatto un buon affare/ allo spaccio dei miti senza occhiali/ scambiasti per la bella corridora un ricurvo complesso// 

e la stessa annotazione attorno all’uso discreto dell’ ironia vale anche con questi che chiudono la poesia Controcanti:

“come Parzival al primo tentativo/ ancora pecchi di acuta discrezione./ Il passo indietro nella lista di attesa : altre sportule reclamano attenzione“.

Leggendo la raccolta mi è parso che la tecnica di scrittura sia spesso costruita “per esclusione” cercando di costringere il lettore a fermarsi e a domandarsi le ragioni e i perché Curci lungo il suo cammino poetico ( già iniziato nel libro precedente a questo “Nei giorni perversi “) stia scegliendo di non farsi coinvolgere nel vizio che spesso si riscontra in poesia, quello di dire troppo, e decide di diventare sempre più rarefatta nel manifestarsi.

E’ lo stesso discorso che si può fare parlando di pittura, quando di osservano i lavori di due artisti, Pollock e Rothko, che hanno operato contemporaneamente in America attorno agli anni 40, 50 del scorso secolo. Se Pollock ha manifestato la sua genialità adottando la tecnica dello “sgocciolamento“ del colore sulla tela, sovrapponendolo ed incrociando  fino ad ottenere il risultato voluto, Rothko ha invece operato “per sottrazione“, cioè togliendo quanto più fosse possibile al colore, eliminando ogni elemento figurativo e disponendo man mano sulla tela numerosi strati dello stesso colore in tonalità sempre leggermente differenti per giungere alla fine al risultato di presentarci un quadro composto esclusivamente di quadrati o rettangoli con due o tre colori differenti da quali si evince il lavoro sottostante all’ultimo.

Lo stesso lavoro fa Curci e cercherò con qualche esempio di chiarire meglio servendomi dei versi di questa poesia a pag. 22 intitolata “Avvento“ che trascrivo verticalmente affinché non si perda la sua essenzialità:

Fosse sempre serena come oggi
questa proroga
attesa protratta
gioie minute

in scatole modeste

Dentro soltanto cinque righe l’autrice ha saputo condensare l’attesa che è contenuta nella parola “proroga“ e ha detto di sé e del proprio gioire per l’attesa di un avvenimento che sta per arrivare dopo l’Avvento, usando quel ” in scatole modeste “ che possono racchiudere tante cose, avvenimenti, umori e amori, insomma tutto ciò che fa parte del fatto di possedere un corpo e di conseguenza essere contenitori di emozioni.

Anche con la poesia e non solo con la pittura può succedere che ciò che leggiamo o vediamo ci costringa a leggere e rileggere, come pure osservare e riosservare un quadro, lasciando poi dentro di noi un senso di incapacità a comprendere fino in fondo il pittore o lo scrittore come a me è successo con i versi della poesia a pag. 24 “Stendo al sole“

“Stendo al sole fasce per polsi / con cura, dopo averle lavate. / Tendo la tela rossa/ e i miei pensieri”//

e mi sono sentito smarrito e confuso, incapace di afferrare sino in fondo quanto di astrazione e di concretezza vi sia in quelle “ fasce per polsi “ e in quella “ tenda rossa “.

Scrive Francesca del Moro nella sua acuta e profondissima postfazione che di fronte al lavoro della Curci non si può essere “lettori passivi“ e non posso che concordare con lei. La sua poetica non si può liquidare con un semplice “like“ o un “cuoricino rosso”, occorre entrare nella selva di riferimenti culturali ai quali l’autrice si aggancia, con speciale riguardo ai poeti o autori in prosa da lei incontrati nel lavoro di traduttrice.

Un altro elemento del quale occorre tenere conto è il continuo mettersi in discussione, il dubitare di sé, il timore di non essere all’altezza delle aspettative, come scrive nella VI parte della poesia “Controcanti“:

“Come Parzival al primo tentativo/ ancora pecchi di acuta discrezione/. Il passo indietro nella lista d’attesa:/ altre sportule reclamano l’attenzione “

Curci è colei che sempre si rimette in gioco ; ecco nella stessa poesia alla III strofa:

“… In permanenza oscillo/ tra il balzo all’utopia/ e l’orrore tranquillo“

L’adesione che è quasi immedesimazione a quanto lei traduce, la condivisione ai personaggi o ai testi, che riscontriamo bene nel verso di questa a pag. 37 esprimono l’immediatezza del suo giudizio attorno alla versatilità della Storia:

“Dal pascolo al patibolo è un salto/ dietro le tende cifra la menzogna/ e batte i denti“

e la chiusa è una domanda che essa rivolge sia a sé che a noi che leggiamo e che si può banalizzare chiedendoci se ci si può salvare dal narrare il falso interpretando la storia o semplicemente raccontarla, oppure si finisce sempre col ricorrere ad un linguaggio servile.

Questi sono i versi “c’è via di scampo dal fumo perenne/ o resta il bivio di falso autorizzato/ e prosa da scudieri ?//”

La fierezza della cultura, lo sdegno di fronte ai falsi della letteratura e della critica letteraria si toccano in questa poesia di pag. 38, dedicata a Cristina Campo dentro i quali vibra con forza un giudizio sferzante nel confronti dei molti che–anche in poesia- distribuiscono banalità:

“imperdonabile inattuale resti/ neghi a chi archivio ti vuole dolente/ e lorde liquida cambiali unte,/gabelle d’aria fritta, campionario// di impenitenti solite sconcezze:/ nichilista, utopista, apripista,/ autodafé alimenta per i gonzi/ ghiotti solo d’altrui gozzoviglie/”

Così anche la poesia di pag. 39 ci pone di fronte al sentire di una persona abituata a leggere, a dare un giudizio su ciò che legge e a dubitare sempre dello stesso (le omissioni), a riflettere di conseguenza sulla nostra collettiva incapacità di agire:

“più degli omissis temo le omissioni/ le sommosse mancate contro l’inanità”

Le certezze, i dubbi, la fragilità che ci riguardano sono tutte messe sulla carta dall’autrice, esposte con poca misericordia e commiserazione; Curci è severa con il suo dire, specie durante l’insonnia, come leggiamo a pag. 44 nella prima strofa:

Quando il coltello si aggira tra il consueto/ è troppo tardi per scapole ciarliere: Parole penzoloni, la baldanza/ è farina, cade a pioggia //”

e l’affiorare della paura, sentimento che talvolta attraversa tutti, la lascia sgomenta e sofferente “Potessi ripiegare i giorni addietro, / al mio passato si affiancherebbe morte con il volto scoperto, compagno di picozza e di sentiero. Con altro riso m’incamminerei //”

perché il vivere non è mai una passeggiata e neppure chi ha lo sguardo “rivolto al cielo” si può sentire tranquillo se non aggrappandosi a valori perenni come la cultura, la lettura o la musica, e tutto ciò è elencato nella poesia di pag. 51 dal titolo “Kit di sopravvivenza“, ove troviamo:

“dosi massicce di sopportazione/ sordina a false rivendicazioni/ sguardo rivolto al cielo o a un filo d’erba/ un libro spalancato o uno spartito”

Forse la parte meno criptica di “Opera Incerta“ è quella nella quale appare l’aspetto socio-politico della scrittrice, quando visitando il cimitero acattolico a Roma di fronte alla tomba di Gramsci, si sente toccata dalla presenza-assenza di questo grande pensatore che la induce a scrivere a pag. 62 versi dentro i quali si legge tutta l’amarezza per aver forse scordato o tralasciato il suo pensiero:

“E qui mi fermo sempre/ penso ai tuoi scritti/ al tempo ad altre soste// Anni addietro lasciammo i nostri segni/ scansate foglie/ sospese le parole//”

Anche la guerra rivista nel ricordo della madre, allora ragazza, ”l’ 8 settembre 43 “- che si mise in fuga tra i monti per cercare rifugio, e pure il ricordo dolente di quella bambina assassinata dalle SS a S. Anna di Stazzema nell’ Agosto del 44, e la visita, calvario doloroso, al campo di concentramento di Birkenau di cui sente di dover scrivere:

“Non sediamo sui fiumi a Babilonia,/ ma il nostro pianto è in piedi e scuote il vento“

Non meno importante è l’attenzione al problema delle migrazioni, affrontato nella poesia “Angelos“ di pag. 76 in cui la poetessa immagina di dialogare con un angelo che sotto vesti umane la soccorse assieme al fratello quando un giorno furono sul punto di annegare, ed è la stessa figura che nell’immaginario dialogo afferma:

“Sono migliaia adesso e non per gioco / Tuffarsi per salvare più non basta/: Lo schiaffo arriva:“perché ha detto “mostro“? non più il rassicurante “mare nostro“?/ Parlo per lei per noi che sconteremo/ mani a premere teste giù nell’ acqua/ il lezzo criminale dei proclami/ e la complicità che allaga il male nostro“.

Il libro si chiude con un omaggio affettivo e sentimentale, una poesia che definirei dolce e accattivante, ricca di tenerezza e di devozione, prova tangibile della profondità dell’ affetto figlia/madre, che tocca il cuore del lettore senza abbandonarsi a sentimentalismi banali, che sa commuovere specie in quel “facevi volare nel mattino“ di pag. 88

“non so se sono ancora la bambina/ che facevi volare nel mattino/ nitido e freddo nel sole di dicembre// La casa, poi il mio asilo nido e la tua scuola/ dove trafelata ti mutavi,/ lingua-madre diventava il francese// So che di tanto azzurro mi rimane/ un fiocco, il cielo in testa e ’occhio desto,/ pegno d’incanto, balzo, testimone”.

E quel fiocco dentro il cielo è un tocco pittorico non alla Rothko ma, questa volta, alla maniera luminosa di Claude Monet.

Luigi  Paraboschi

8 gennaio 2021

 

Barcaiola

Siedi sull’altra riva e getti l’amo.
Io traghetto.

Nella scalmiera remo
bisbiglia con cadenza.

Lei, la tua mobile sostanza, smesse
le vesti torbide, mi accoglie.

Quando riprende il volo la speranza,
cocciutamente sai che non è fuga.
ascolta, su, porgi l’orecchio

ascolta, su, porgi l’orecchio
dirama la conversazione
traduci e chiedi, leggi e annota,
discerni e associa sotto il cielo

Dell’Angelo

Restano mute le parole di prima,
la luce stempera il bruno della crosta.

Tace il rancore, e l’ala ripiegata
aspetta l’altra, insieme voleranno.

L’occhio che anticipa e la mano protesa
accolgono il sorriso, dopo tanto.

Controcanti
I
“Bau bau baby” mi viene da cantare,
un ringhio contro il dì, paradossale,
moderata cantabile eversione
(nuovo marcio che avanza è minestrone).

II
E puoi anche negarti,
nel regno delle madri
(non sfugge, la bellezza,
dimora, sosta, danza).

III
Parto indotto o realtà,
questo è solo un dettaglio.
In permanenza oscillo
tra il balzo all’utopia
e l’orrore tranquillo.

IV
E quella goccia non si perde e viaggia
e si trasforma: ogni replica è prima,
indica vie di fuga tra le quinte
o svela il ben celato sul proscenio.

V

Leggo la musica della pazienza,
talvolta inciampo sulle biscrome
e all’improvviso, ecco: cadenza.

VI

Come Parzival al primo tentativo,
ancora pecchi di acuta discrezione.
Il passo indietro nella lista d’attesa:
altre sportule reclamano attenzione.

Sale

Stanza tutta per me è un’espressione
che aggrinza le mie labbra ad un sorriso.
Di rimpianto, tu dici, tu che sai
che l’esclusiva sempre fu preclusa.

Invece l’ho trovata, l’ho inventata
in fogge disadorne eppure piene.
Due reti e un cassettone a soggiornare
con Il trono di legno e La ricerca.

Accolse una poltrona grande e lisa
gli esercizi sgraziati alla chitarra.
Ora è un ramo proteso di ligustro
a guidare lo sguardo, ogni risveglio.

Nelle sale remote puoi entrare
a patto di scostare le cortine
di sfondare i tramezzi in truciolato
di sopportare il peso d’esser sale.

Iris indaco

Tenue e tenace sogno solitario
iris indaco aroma della cerca
ombroso nella prole variopinta
bivio tra sensi desti e l’oltremare.

Ti invoco ancora e già torna la sera.
Distendo le narici rattrappite
da frenesie di smerci afrori spicci.
Aspiro e al fondo guidi l’immersione.

Tu rannicchiati dentro l’anagramma,
cerca lo schermo, cerca il nascondiglio.
Pure ti scoveranno, non badare
alla torma dei cani, avido strazio.

Claudia Zironi

12 dicembre 2020

 

              

Not bad

recensione di
Luigi Paraboschi

Il nuovo libro di Claudia Zironi, uscito  con Arcipelago Itaca Edizioni, con prefazione di Francesco Tomada, è decisamente bello, ricco di sfumature,  tocchi di bravura, annotazioni psicologiche, riflessioni amare e chi, come me, ha seguito questa autrice fin dagli inizi si sente di dire che è il proseguimento dei tanti temi che Claudia Zironi ha affrontato nei lavori precedenti,  e ora  lo fa con un occhio ancora più dilatato su ciò che essa pensa di se stessa e della vita.

Dall’ opera precedente alla attuale, -“Quando si spegne il cielo“ del 2019- riprende qualcosa che inserisce in questa integrandola come prima sezione delle quattro che costituiscono quella in esame,

“…non ci sarà giudizio né rinascita, le pietre/ non ricorderanno una parola di Albanese né un solo verso di Dante/ di Montale, di De Angelis o di Arminio Franco, chi ha abitato/ la laguna e l’Amazzonia, chi ha comprato l’ultimo esemplare di Ferrari./ poi anche i vermi si estingueranno e tutto tornerà alla perfezione //

 

ovviamente, non si può pensare che un autore cambi d’improvviso la propria visione del mondo, infatti in questo nuovo lavoro scrive :

 

”…da domani non ci riconosceremo/ come umani: macchine, automi, calcolatori./ parleremo di sogni, forse, ma senza crederci/ davvero…/ solo resterà questo senso/ del condizionale passato, tempo andato…”

Il suo  è un occhio pieno di desiderio di libertà, di “…partire verso sud/ …partirò per l’isola/ su una barca silenziosa…”, un occhio non più bisognoso di alcun desiderio, tranne  poi smentirsi più avanti ove troviamo “di cosa hai bisogno – mi chiedevi…” e dopo alcune soluzioni o proposte di aiuto fa concludere il suo interlocutore con questa domanda : “o forse hai bisogno di un mio sguardo, di una carezza?”.

 

L’eterna insoddisfazione che contraddistingue tutti noi riempie il cuore dell’autrice di contraddizioni continue, al punto di scrivere  quasi rispondendo all’amica e consorella Silvia Secco, in questo modo:

libera nos a malo. libere/ siamo, libere, dalla carne/ e dall’anima. libere dai suoni/ dai canti e dalle voci…”

 

Questo bisogno di essere liberata dal male assume in molti lavori la dimensione di invocazione, a volte dolce a volte rabbiosa ma sempre avvolta dentro la tristezza e “le insicurezze dell’eterna adolescente“ che la spingono nella stessa poesia a questa invocazione ”mi si prenda e basta, senza incertezze/ dandomi temporaneo, incondizionato Amore.“ e in quel verbo “prenda“ si sente chiaramente un bisogno di fisicità che immagina espressa da un caldo amante con le parole “- amami, amica mia./ ferma il tempo, fammi duro/ tronco a cui avvinghiarti, cura/ l’insano desiderio dei tuoi baci, diventa sale/ e lingua e carne, appaga/ la tua voglia di bermi goccia a goccia”.

In altra ancora sentiamo affiorare la malinconia  e il bisogno di condivisione che si fanno  strada osservando  una serata di nebbia della bassa:

“ …resta solo/ una specie di malinconia, la voglia/ di un amore già incontrato, di baci/ caldi, di un letto sfatto, con una donna/ che tanto abbia pianto” e qui la consolazione, la comprensione, la condivisione sembra che possano essere solamente fornite da un animo femminile che “abbia pianto“, e mi viene da dire che sento riecheggiare in Zironi i suoni  di un certo animo di Pascoli altrettanto sensibile al tema degli affetti

Non si può non leggere nei versi di questa raccolta l’esigenza spasmodica di un aggancio di qualsiasi tipo o genere, la ricerca di un appiglio per tenersi a galla quando vediamo:

tienimi come riparo/ davanti a un cielo così immenso/ senza memoria e senza confini/… tienimi con te nella caduta/ conferita alla nascita…/ tienimi stretta/ tra la rabbia e la paura./ tienimi come il sorriso/ di un giorno migliore”

 

Queste invocazioni sembrano non toccare l’orecchio cui erano destinate, si scontrano con una sorta d’indifferenza, di incomprensione che generano a loro volta una macerazione interiore che incide l’anima dell’autrice.

Procedo per gradi nell’estrapolare qualche breve riflessione su quella che mi sembra un grande delusione amorosa, e trovo

mi hai insegnato l’impotenza, l’inutilità/ della parola, quanto sia vana la poesia./ la mistica del segno, un risonare di mondi/ inesistenti, dare il nome alla creazione/ e chiamare ad alta voce ogni pensiero/ non avvicinano al divino né all’amore.“,

Tutto l’amore mal indirizzato è spiegato:

per ogni lacrima che verso ti auguro/ dieci anni felici finché sarai più vecchio/ del mondo e felicemente solo/ racconterai alle api e ai monsoni/ la leggenda di chi, con il dolore, ti ha reso/ felice in eterno.“

L’amarezza di una storia andata male esce con dolore da questa

“il giorno della tua morte indosserò/ abiti consoni, una faccia contrita/ modi di circostanza/ spero che non piova/ per non rovinare la messa in piega/ che non ci sia fango e non faccia troppo/ freddo, che sia una giornata normale/ senza sole né gloria, adatta/ all’occasione. il giorno della tua morte/ qualcuno mi avviserà, senza sapere/ qualcun altro mi chiederà come mi sento/ ma credo che non risponderò, non dirò/ niente, tratterrò le lacrime e/ mi darò un contegno. il giorno/ della tua morte comprerò dei fiori/ e li metterò in un vaso, sopra la finestra/ racconterò a loro tutto quanto: tutto quello/ che non sei mai stato.”

 

Tuttavia non è cosi facile dimenticare “ciò che non sei mai stato“, e la tentazione di ricominciare talvolta è forte, infatti:

…sarebbe bello ricominciare/ immaginarci differenti, sorridere al pensiero/ di vederci, di nulla chiedere e insieme andare/ verso un quieto viale del parco a cercare/ le nate margherite.”

La lettura di questa raccolta, da me ordinata secondo una mia logica di pensiero che non ha seguito la presentazione seguita dell’autrice, si conclude con un gruppo di poesie che definirei “tragedia dell’apocalisse“ nelle quali sembra confluire tutto il condensato, la delusione, il disgusto, l’amarezza, per questo nostro mondo e modo di vivere che non lasciano alcuno spazio alla speranza, ove anche la cultura non è sufficiente:

so quel che c’è da sapere, ore e ore/ di parole, anni di inutili dati/ racconti miei importanti svaniti/ …che vorrei/ non avere mai sentito, che non posso/ cancellare, nemmeno se chiudo gli occhi/ nemmeno quando si spegne il cielo.”

Per celebrare la fine di un anno questi versi ci lasciano sentire ancora una volta quanto grande sia il bisogno di amore che scaturisce da questa raccolta:

”… la fine di un altro anno sulla terra/ dove cerchiamo giorno per giorno di lenire/ il terrore della primigenia creazione, di viverne/ altri trenta, inutili, da sconfitti./ e qualcosa ci lascia -/ la capacità di scrivere d’amore.“

 

La conclusione la lascio ad un poesia che dal titolo stesso racconta già tutto il significato e la filosofia di Zironi, infatti si intitola in inglese “hole in my soul“ e di buchi nell’anima di questa artista ne abbiamo trovati molti, ma non rassegniamoci ancora a perdere  la speranza che in un modo o nell’altro essi possano essere riempiti con l’amore che le è mancato:

 

perché in fondo come si definisce un buco?/ciò che non è pieno, un vuoto, un tronco cavo/un nido abbandonato, l’abisso, il pozzo, il gorgo/che tutto inghiotte, nero e dirompente nello spreco/illusorio e fallace, della vita, il viaggio senza destino/della luce, che parte e non si sa dove si frange/dove riposa come buio, con tutti i suoi colori/ai margini del tempo, la mancanza/di progetti e aspettative appigliati a un domani/che non ci appartiene, la resa della terra/e del muro e di ogni altra nobile materia/alla sua asportazione dal contesto, il silenzio/che ci chiude anzitempo nella tomba, il lutto/della memoria, la demenza, la follia, l’oggettiva/inefficacia della perseveranza, l’archiviazione/di ciò che avremmo potuto e non è stato, un passaggio/dal perimetro regolare o frastagliato, un foro.

 

Alcune poesie da Not bad

 

 

Dalla sezione I Quando si spegne il cielo

 

 

io ho una gemella siamese, ci hanno detto

che siamo indivisibili e dovremo

passare tutta la vita insieme. io

ho il fegato e un rene, bocca e stomaco

sono in comune, il cervello è equamente

ripartito: lei è quella che guarda le nuvole e ci vede

bambini alati e cavalli colorati, è quella

che scrive le poesie. sta invecchiando

più velocemente di me, lei è quella che

possiede il cuore. so che un giorno

se ne andrà per prima e a me resterà

qualche momento ancora per capire

come si muore.

 

 

Dalla sezione II Not bad

 

 

# happy days

 

scrivo dalla terra degli alberi

spogli e delle notti senza stelle

perché lì è la bellezza che cura

amorevole, materna. in silenzio

le piccole aracnidi nell’ambra

conservano ogni storia accaduta:

sfilano le sorelle, gli amici, i figli

tutti i padri perduti nei millenni

in una lenta processione di ombre.

scrivo dalla terra dei folli

da quella degli amori mancati

dove si soffre senza invecchiare e

si prega il dio dei ricordi

affidando le parole a una rete.

qualcuno in ascolto testimonierebbe

che non c’è fallo nella rinuncia.

nessuna luce, nessun movimento

una tiepida quiete nel cosmo.

 

 

Dalla sezione III Nuda carne

 

 

c’è un silenzio che sembra quando nevica

e ci si aspetta un miracolo dalla notte

fuori dalla finestra, si trattiene il respiro

scostando la tenda, si tace

davanti a tutto quel bianco.

c’è un silenzio che sembra

che le stagioni siano sospese

e la primavera fuori di qui

non stia per arrivare.

c’è un silenzio che sembra

che non siamo mai nate

come se fosse la prima notte del mondo

e fossero le stelle a tacere stupite

fuori dal tempo.

c’è un silenzio che sembra una tomba

come fossimo morte

e non mancassimo a chi amavamo.

c’è un silenzio che sembra

una condanna

da scontare come una quarantena

così inevitabilmente sole.

 

 

Dalla sezione IV Il ritorno degli uccelli

 

 

il nostro tempo ha le ali grandi

vola rasente acqua e le batte con calma

con cadenza precisa. l’acqua che sfiora

non è mai la stessa: benedice il mutamento

santifica il gioco. solo una volta nella nostra vita

interrompe il volo.

 

 

Claudia Zironi opera dal 2012 con l’associazione Versante Ripido della quale è uno dei fondatori e Presidente e collabora con altre realtà che promuovono poesia, arte e cultura. Fa parte della redazione della rivista Le Voci della Luna. È alla sesta pubblicazione poetica delle quali Eros e polis è stata riproposta in USA in traduzione di Emanuel Di Pasquale (Xenos Books, 2016). Del 2019 l’antologia a cura di Sonia Caporossi: Claudia Zironi – Diradare l’ombra – antologia di critica e testi – 2012-2019 (Marco Saya Edizioni). Appena uscito il suo libro di poesie: Not bad (Arcipelago Itaca, 2020).

 

 

Paolo Polvani

10 febbraio 2019

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L’azzurro che bussa alle finestre
di Paolo Polvani
Collana Versante ripido

 

 

 

 

 

 

Il mistero, ma anche il fascino, che si nascondono dentro ogni libro di poesia consistono nell’essere consapevoli che l’autore ci viene incontro con le sue pagine, ci tende la mano che tiene il suo lavoro, e sembra dirci: “piacere di fare questo incontro con te, io sono  ciò che tu scoprirai nel mio libro“, e poi soggiunge “… ma non sono solamente quello, per conoscermi meglio dovrai attendere anche il prossimo libro“.

 

Per me ogni volta succede così: ogni libro di poesia che mi cade sotto gli occhi mi racconta la storia del suo autore, la sua vita, le sue passioni e le sue delusioni o le amarezze, e questo di Polvani, dedicato all’azzurro, inteso non solo come colore ma  più come sentimento, stato d’animo, mi ha mostrato un lato differente dell’autore che conoscevo come poeta  di poesie civili, impegnate, socio-politiche, rivelando con questa raccolta un’altra sfaccettatura di sé, forse simile a quella che indusse anche il cantautore Paolo Conte a inserire nel corpo della sua canzone Azzurro questi versi “…quelle domeniche da solo/… neanche un prete per chiacchierar“.

 

Credo di poter essere quasi certo che Paolo non abbia avuto la nostalgia di un prete per fare due chiacchiere, però questo libro  ci dice quali sono i temi che spesso attraversano la sua esistenza di uomo che vive e anche scrive poesie, e i temi sono diversi, spaziano dalla domanda su dove risieda la gioia, le ragioni della insoddisfazione di sé, la vigliaccheria per l’omissione di certe minime attenzioni al prossimo, l’angoscia della morte, la passione e l’attenzione verso l’altro sesso ed il coinvolgimento della fantasia che ogni avvenimento piacevole o di sofferenza comporta sempre.

 

Il tutto è raccontato senza pesantezza, e lo prova l’esordio con la prima poesia che ci viene presentata Si chiama azzurro“, come se Polvani volesse trasmetterci la  felicità di un giorno in cui la vita lo ha pervaso d’amore, di voglia di esistere, di passione, sentimenti che lo hanno indotto a scrivere: “ l’azzurro che inchioda i gabbiani /… assottiglia le vibrisse… / l’azzurro che lenisce… / l’azzurro che sfinisce /.

 

Ma se ci riflettiamo bene, questo colore non è forse quello  fondamentale della pittura impressionista ?

Se partiamo da Pizarro, tocchiamo Sisley  con i loro cieli primaverili ed approdiamo agli azzurri delle  marine di Honfleur ritratte da Monet ci accorgiamo che questo colore rappresenta il trionfo della vitalità nella natura, e anche Polvani lo sottolinea quando scrive: “…la tracotanza dell’azzurro/al vento gonfio di capelli //; subito però  appare un’ombra in questa poesia quasi per dar ragione a quanto scriveva allora Paoul Cezanne: “ mettete prima le ombre e poi il resto uscirà da solo“, ed infatti, prosegue Polvani: “...come si chiama questo sproloquio delle credenziali,  /l’ affacciarsi di marzo e un mare di scompigli/ smania di vivere protesa sul bianco della pagina / sul nuovo alfabeto di fittissime foglie, come si chiama // questa ruvida insoddisfazione che ti offusca e ti / afferra, ti trascina allo specchio “//.

 

Noi  che leggiamo non siamo ovviamente il prete che cercava Paolo Conte nella sua canzone, però ascoltiamo con affetto e quasi con la stessa attenzione di colui che raccoglie una confessione, la sua “smania di vivere“ e lo seguiamo in quel “trascinarsi allo specchio“ per cercare di capire come mai in un giorno così pieno di azzurro si faccia sentire nella sua (ma forse anche nostra) anima quella “ruvida insoddisfazione“, e perché  egli scriva in altra poesia a pag. 13  “l’azzurro è un artiglio che non lascia scampo/ ti divora i sogni, è una minaccia e un lampo, /la tentazione di un azzardo, una pazzia /.

 

Il trionfo dell’azzurro nella poesia di Polvani non vuole essere un grido tipo euforico ma superficiale tipo  “la Vispa Teresa“,  e ,come certe marine di Monet non ci raccontano tutto di lui, ci basterà riflettere su un altro quadro in cui è pieno inverno innevato e appare, a fare contrasto con tutto quel bianco, un uccello nero poggiato su di una staccionata a destra nel  quadro, per renderci conto che anche in una giornata splendida di azzurro si possono  affacciare le domande di pag. 15:

 

“sai dove abita la gioia? Dove/ trova riparo? Dove fa la sua cuccia?/

 

e la risposta egli  ce la dà nel verso successivo ove troviamo

 

“a chiunque tremerebbero le gambe/ quando accende la luce/ il tuo sorriso. Ci sono le voci/ e il passo lieve dei gatti, ci sono/ le antiche strade, le passate lacrime./ E’ un abbraccio nel quale riposare //.

 

Tuttavia, prima di andare a scoprire “dove abita la gioia“ per il nostro autore, mi piace camminare ancora un poco accanto a lui nell’itinerario che tocca, – com’è giusto che sia in una poesia non superficiale, – il problema che sta alla base di tante nostre domande, è cioè quello condensato nel  titolo di un altro quadro famoso di Gauguin:

“D’où venons-nous? Que sommes-nous? Où allons-nous?“

 

Polvani non sfugge alle ombre necessarie ai quadri e pure alla vita, come diceva Cezanne, e infatti scrive versi angosciati per la celebrazione della morte della maestra Mariella:

 

…// adesso non è vero che riposi, l’assillo/ delle cartilagini ti affanna, le crepe/ nelle palpebre, lo sgomento delle unghie nel vedersi/ crescere nel vuoto, l’ansia improvvisa dei capelli,/ e il tormento, tutta quella solitudine che grida“

 

E’ raro poter leggere con tanta nitidezza, che fa pensare ad alcuni passi dei  racconti di Edgar Allan Poe, l’angoscia che la morte suscita sempre in tutti, e lo si capisce meglio in questa poesia di pag. 34 dal titolo Magia, in cui egli augura alla persona deceduta

 

…”alzati/ dal letto, esci dall’ospedale, percorri a ritroso/ le stagioni, richiama il fumo dalla ciminiera, ricomponi/ ogni frammento d’osso, riprendi i tuoi vestiti, esci/ dalle fiamme e cammina dentro il mese di aprile/, muovi ancora  i passi, allenati per i nuovi/ sorrisi, articola un piccolo discorso, sgranchisci/ la mandibola, prova a parlare, guardaci ancora/ una volta negli occhi, chiamaci per nome, cancella/ quella scritta: morta l’otto di aprile //

 

Non c’è nella poetica di Polvani alcuna speranza di riscatto ultraterreno di fronte alla morte, e i versi di Paradisiamoci qua  lo dicono con chiarezza:

 

“Io non so lo e non lo sai tu come sarà, ma il tuo invito/ di rivederci in Paradiso cara io lo declino, bada non è/ un rifiuto, semmai un rinvio.“

 

e prosegue nella stessa poesia rievocando la concretezza della quotidianità di alcuni atti della vita :

Ti ricordi che abbiamo mangiato un gelato al mascarpone?“

per  domandarsi  subito:

pensi che potremo rifarlo in paradiso? Che potrò comprarti quelle sciarpette colorate?

 

L’agnosticismo dell’autore si conclude poi nella poesia dal titolo strano ma eloquente

eurostar s’infila dentro una galleria e qualcuno s’interroga sull’esistenza di Dio“

ove leggiamo ”... e il fragore affonda tutti nel guscio tondo della galleria, nel fondo/ della marea nera, paura bru bru e tun tun e rimbalza/ sui binari il seguente assillo: esiste dio? Ma nessuno lo sa e ci viene/ da ridere e ci si chiede dove va questo treno immaginario? Va/ dove vanno tutti i treni immaginari: nella pancia di dio/ ma anche dio è immaginario e s’infila dentro una pancia immaginaria//

 

Sono versi che rimandano ad altri di Giorgio Caproni  nella poesia “Congedo del viaggiatore cerimonioso“ sullo stesso tema, e quasi con la stessa ambientazione sopra di un treno in movimento, ove troviamo:

.../ ed anche a lei, sacerdote, /congedo, che mi ha chiesto se io /(scherzava) ho avuto in dote/ di creder al vero Dio /…

 

 

Se allora la visione del nostro autore è strettamente connessa e legata al “qui ed ora“, alla mancanza di una visione ultraterrena è lecito domandarsi da dove egli tragga la forza per sentirsi esaltato da tutto l’azzurro di cui abbiamo parlato poc’anzi, e quale sia l’aggancio che lo trattiene e lo lega in modo così vitale all’esistenza.

A me sembra di poter affermare che  la risposta sia collocata nella corporeità del concreto, in modo speciale  in quel concreto che è quasi sempre rappresentato dall’incontro con l’altro sesso,  tangibile in molti versi di questo lavoro.

Ma non sempre questo aggancio con “l’altra metà della mela” si rivela appagante, e infatti egli scrive a pag. 8 di sentirsi:

“… incatenato/ alla chimera del possesso, all’idea che sia il sesso che ci salva/ e ci riscatta“,

ma contemporaneamente (invocando per sé stesso quel salto qualitativo nel sentimento che gli possa permettere di non “incespicare, barcollare, ed essere“ sgominato nell’orgoglio“):

chiude la poesia in questo modo

“… chiederò ai tuoi santi un consulto, una dritta/ per amarti davvero, per amarti di più, amarti oltre ogni sconfitta“.

E come ogni uomo che si scopra debole e fragile nei confronti delle promesse non rispettate, il nostro autore è capace di auto-da-fé, di promesse che si augura di poter rispettare, – anche contraddicendo quanto affermato in precedenza a proposito di un ipotetico paradiso – quando scrive a pag. 28: “guarda cara, per te io vincerò/ la legge gravitazionale, infrangerò/ la norma, perché già lo so,/ lo avverto, ne sono certo, continuerò/ ad amarti anche da quell’altro luogo,/ di cui non saprei indicarti valide/ e attendibili coordinate: un laggiù, un lassù, chissà, ma che sia per di là/ o per di qua non ha grande rilevanza,/ io so che il mio amore per te si espanderà/ come un oceano, dilagherà come una pioggia/ di fine ottobre//

Se di questo poeta sento di condividere la passione per la vita e per le sue creature, se lo leggo sempre con ammirazione e rispetto verso la sua capacità di far suo il dolore che spesso incontra nel cammino della vita,  se ho stima per la sua intransigenza di intellettuale e  per lo sdegno verso la faciloneria nella quale la stagione sociale in cui siamo immersi tutti sembra travolgerci, vorrei prendere congedo da questo suo lavoro trascrivendo per intero i versi di questa brevissima  poesia che  esprime la sofferenza per un dolore arrecato ad una donna, ma al tempo stesso nei due versi del  finale lascia trapelare tutta la natura di chi è poeta che intuisce la contraddizione ed il dualismo tra ciò che egli vorrebbe essere e ciò che invece lo incatena alla sua indole di scrittore.

 

In cambio del tuo pianto :

 

-quanta disperazione si è data appuntamento e ora/

ti assilla e assedia e ti difende/

la convulsa grammatica del pianto./

 

E’ lì che ti raggiungo, dentro i singhiozzi./

Un pianto di donna che mi chiama a un lampo/

d’immaginazione, a un fervore fecondo.//

 

Quel “lampo d’immaginazione” e “quel fervore fecondo “ sono la condanna del poeta (ma non solo sua) alla disanima continua attorno a sé stesso, sugli altri e sul dolore che causa le lacrime in chi ci ama, ed egli, come le figure che popolano la poesia “le mie amiche sono felici ? “, può concludere:

 

 

Ridono così bene, e non ti negano parole di velluto.

Io non so se le mie amiche sono felici

 

Neppure io  che scrivo lo so.

 

 

Luigi Paraboschi

18.1.2019

Silvia Secco

15 dicembre 2018

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Lettura di Luigi Paraboschi

 Se le parole che un poeta usa con maggior frequenza sono le spie che ci aiutano a comprenderlo, ciò che in buona parte serve per identificare il nucleo del suo “ sentire “,- visto che  in questa raccolta la Secco usa i sostantivi “ Neve “ “ Pane “ , “Sete e Fame “  con molta frequenza-, non posso non  domandarmi quale sia la parte di sé che essa maggiormente tende a valorizzare, se il corpo o lo spirito, ma propendo a superare la fisicità dei sostantivi elencati per lasciarmi sedurre da un’altra spia del suo essere persona, gli esergo che essa antepone alle varie parti del suo lavoro.

Si sceglie un “esergo” per  fare una introduzione al lavoro che si intende sottoporre al lettore, ed anche per rendere omaggio a qualche autore importante per la nostra formazione, e la nostra autrice  ne evidenzia alcuni  che elenco per aiutare ad inquadrare i vari temi che essa svolge

il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome
e per citarle bisognava indicarle col dito. (Gabriel Garcia Marquez)
Tutto ciò che con ogni amore e afrore di paese
doveva difenderti (Andrea Zanzotto)
della città importanti io mi ricordo Milano (Ivano Fossati)

Se è vero che scriveva Marquez che “ le cose bisogna indicarle col dito “ a me sembra che già dal lavoro precedente “Canti di Cicale “  Secco avesse lasciato capire che il titolo del lavoro attuale fosse già in cantiere quando da allora  indicava al lettore che: Interni al mio ventricolo sinistro/maturano segreti di amarene
e  infatti questi sono i frutti che lei si decide a cogliere ora, quando scrive  del lavoro di cui sto parlando:
io qualche decina di amarene/mi covo nel grembo. Per voi preparo/un pane in dono, minuscolo ed agro.

Ma  aveva anche dichiarato da prima:
All’amore/occorre tacere, come alla neve cadere./Occorre accarezzare, se brucia soffiare. /Placare se serve, lenire.

Le amarene che Silvia ci offre sono talvolta acidule, com’è nella loro natura, e lasciano in bocca un sapore brusco, e quindi il lettore dovrà cercare di addolcirsela girovagando tra i numerosi passaggi morbidi di questo libro.

Il dolore del cuore prorompe dentro la riflessione che essa conduce parlando di  fatti di cronaca recenti, episodi di violenza su bambini e bambine accaduti nel sud del nostro Paese, fatti che hanno turbato le coscienze di tutti per la loro drammatica evoluzione.

E l’urlo di dolore non prorompe ma si tocca con mano perché la poetica di questa autrice è sì tutta giocata con parole che esprimono  fatti e avvenimenti tragici, ma  lo fa sempre con il pudore e la riservatezza che la delicatezza degli argomenti richiede, come in questa  dedicata alla bimba napoletana  di pochi anni, abusata e poi gettata dal terrazzo di casa,  una storia horror raccapricciante.
Leggiamo  questo testo per intero:

le bamboline salgono le scale/dei palazzi con le ginocchia sbucciate,/le ciabattine. Portano nomi come/caramelle. Suonano alle amiche/per giocare sulle terrazze sgombre/delle antenne, a unire i puntini dei nei/nella forma del lupo. Indossano/magliette preferite con le ali /contano i loro anni, fino a sei. Poi /si chiudono la bocca con le mani/gridano la faccia dei padri. Fanno il salto, volano giù otto piani.

Si legga attentamente e con pazienza i versi di questa che segue, si analizzi la delicatezza delle espressioni usate, il pudore dei gesti, la riservatezza nel raccontare i fatti, ma anche la precisione quasi pittorica di quella sofferenza fisica derivante dal dolore per la violenza subita.

Nove anni, piedini nei sandali /e i malleoli uniti, ti dondoli / nel piccolo male d’ossicine. /Nove anni e spingi pianto e groppo /giù, ginocchio contro ginocchio/ giù, più forte un malenorme/ giù dal bruciore dell’occhio/giù nel cavo della pancia che è un tondo/ liquido mondo bambino. /Nove anni e stringi che non si spanda/- sopra il cesto del bucato dove siedi /nemmeno tocchi terra con i piedi -/Fingi di farfalle nelle ragnatele /e mani senza dolo da tenere /magari solo per attraversare.

Come non avvertire tutto il dolore che c’è in quel “ malenorme” nel cavo della pancia, come non vedere quello stringersi delle gambe affinché quel dolore non fuoriesca dal corpo, come non rendere concreto sotto i nostri occhi il disagio di quel muovere i piedi che non arrivano a terra ?

Le bamboline salgono le scale /dei palazzi con le ginocchia sbucciate, / le ciabattine. Portano nomi come /caramelle. Suonano alle amiche /per giocare sulle terrazze sgombre /delle antenne, a unire i puntini dei nei /nella forma del lupo. Indossano /magliette preferite con le ali /contano i loro anni, fino a sei. Poi /si chiudono la bocca con le mani /gridano la faccia dei padri. Fanno il salto, volano giù otto piani. 

Le possiamo vedere queste “ bamboline “ con le loro magliette da pochi soldi, le ciabattine strascicate ai piedi e la drammaticità dei versi finali ci fa comprendere meglio il significato dell’esergo ricavato da Zanzotto: Tutto ciò che con ogni amore e afrore di paese /doveva difenderti .

Non c’è protezione né salvezza neppure gli odori di casa, niente difende il cavo della pancia di quelle bimbe, nulla le protegge dai lupi che si aggirano attorno al cesto del bucato sul quale siedono dondolando i piedini.

Ma teniamo presente anche la “neve” che, come ho ricordato all’inizio, è una costante frequente nel versi della Secco, e non occorre possedere troppi studi di psicologia per intuire che  vuole rappresentare uno slancio inconscio verso una serenità ed una pulizia interiore della quale l’autrice sente la necessità, come in questi

Insegnami il coraggio dei papaveri/ai margini di strada, l’ilarità/di certe spighe, a spasso con le folate./Fammi capace di gentilezza/- l’erba sul piede nudo, l’attitudine del sasso/a tacere le erosioni, la pazienza che hanno i pesci/coi costumi dei bagnanti – dammi la fede del frutto/che maturerà come ne ha la neve, in altitudine/a maggio inoltrato.

Questi versi sono una invocazione quasi trascendente ( la trascendenza non appare mai troppo evidente in questa raccolta, ma la si sente, la si tocca anche se non è nominata ),si avverte un bisogno di “ gentilezza “, la necessità di essere spontanea come i papaveri sul ciglio dei fossi, la rassegnazione del sasso che ignora le erosioni del tempo e delle intemperie, e la fede nei risultati che verranno.

 Ancora  la poesia

Impareremo dalle cime la vertigine,/la libertà dal gatto di morire solo. Avremo pietà/- come la terra per il fieno, all’ora della falce -/un biancoridere di scogli davanti al mare./Impareremo a eliminare dalla calce, dalla brace/a trattenere. Avremo sete e avremo fame:/la sete di chiarore della rosa/l’urgenza degli uccelli di cantare./Avremo comprensione nelle mani,/la stessa fame d’ossa degli anni, dei cani.// 

e sottolineo questo bisogno di “ trascendente “ che sarà finalmente soddisfatto un giorno quando avremo imparato dalle cime la vertigine, quando la nostra fame di ossa che hanno i cani sarà saziata, per evidenziare meglio come in Secco vi sia un  tormento  esistenziale così ben espresso da questo esergo di apertura al libro:

 “Tu sentissi come come mi urla il cuore questa litania. /Mi urla come un bambino “.

Ma quando avremo imparato la libertà del gatto di morire solo “ allora sapremo farci concavi per diventare capaci di raccogliere il dolore

…Essere pozzanghere, per similitudine /di condivise profondità, voragini e spaccature/ loro, come le persone. /A raccogliere gocce fuse alle gocce noi /ci diciamo luogo, raduno di piccole cose cadute.

……………. perché scrive più avanti   il nostro destino è  che “ Mai saremo promesse alla quiete “.
Eppure un luogo esiste sembra dire l’autrice per raggiungere quella quiete desiderata, occorre ricercarlo anche :

……….. Dentro la città, dentro le righe/fra le lastre delle pavimentazioni,/ci fioriscono le mani, e sono fili/d’erba nuovi e sono vivi: quadrifogli/che si fanno avvicinare/……….…..ci rassomigliano per illusione…..

L’illusione scompare dentro la scoperta della personale “ pavimentazione “ , quella interiore che è capace di non farsi soffocare e lascia crescere così quadrifogli, anzi genera quei filari di rose che i contadini fanno sbocciare agli inizi di ogni filare di viti, ed è la scoperta di possedere radici ciò che dà all’autrice di “ appartenere ad una patria “ 

Vien vardàre, mi hai detto. Il filare/finisce sul fiore, ognuna delle tue/rose è sana. E nel minuscolo tondo/del chicco/ancora non succo né acino/e nel ventaglio della foglia e nello/slargo del palmo della tua mano/e ovunque fra il passo e l’erba, io mi fiuto/un buono di pelle che è il nostro odore/e dove mi trovo, figlia. Appartengo/a una patria.

Quell’espressione dialettale con cadenza veneta che appare all’inizio è un invito che qualcuna di famiglia, la madre presumibilmente,  le rivolge quasi come  incoraggiamento a soffermare lo sguardo sul tondo di quel chicco d’uva che sta crescendo,- nuova vita-, e la induce a scoprire quell’odore di buona pelle che è la certificazione di origine, l’identificazione con qualcuno che fa parte di noi, è il coronamento di quell’espressione trovata poc’anzi che diceva:

………dammi la fede del frutto/che maturerà come ne ha la neve, in altitudine/a maggio inoltrato.

 e anche di quest’altro verso che  dice parlando delle pozzanghere   :……….Concedere ai bambini di entrarci, di saltare/nudi, con la felicità dei loro gridi.

Una volta trovate la radici delle rose del vigneto, è facile ritrovare anche quelle del proprio destino di donne legate alla stessa pelle, allo stesso colore del suo tessuto, alle stesse linee del destino, come leggiamo:

 Senti come fa rumore, una foglia/sulla strada sopra il letto delle foglie/sopra l’anulare/- l’oro della fede/che dopo appartiene a mia madre -/Senti com’è uguale anche la grana della pelle/a ripensarla, e uguale è il colore/di sua madre, di mia madre e di me/mano a mano, con gli anni che disegnano/le linee, questo destino che ci scrive/una separazione.

La parte più amara di questa raccolta è l’ultima, quella che si fa precedere da quell’esergo iniziale:

Bocca sulla bocca ti ho mentito/l’inutilità di questa frode
Prima, nel lungo tempo anteriore, non ho fatto/ che levare -una lettera alla volta del tuo nome/ quando lo chiamavo, ed era già in tutte le parole/ nelle canzoni di Fossati della bocca e del vapore/ vasto, come un città -Milano, io mi ricordo: lascivo la casa allora, disadorna e  feroce/ e bianca di latte e coperta di lenzuoli, come accade/ dopo la lotta e la rivoluzione/. Ma tu mi hai scritto che saresti arrivato alle otto./ Hai scritto alle otto, arrivare. Hai scritto/- immaginata mia primavera- arrivare:/ mia nuovo curva lunare, virgola d’esplicitazione,/ stato di quiete mio. Arrivare//

Secco esce con queste ultime poesie dalla dimensione del dolore particolare ed assume veste di persona che si interroga sul proprio destino, ma anche su quello di coloro che verranno, si domanda  che ne sarà degli anni:

Quanto, quanto avremo/ perduti i prati che non torneranno, non i prati/. Non rimarrà prato alcuno/ Non più gemmeranno i tralci, si seccheranno/ e germi nelle cavità dei legni li marciranno/ e nessuno, né rami né foglie, neppure gli acini/ ripareranno dalla crudeltà del bianco:/ gemere vuoto di luogo disabitato, abbaglio di bianco/ sul bianco del muro

Decisamente l’andamento di questo lavoro della Secco è ineccepibile come svolgimento;  ci prende per mano, l’appoggia al suo grembo a ci lascia togliere i frutti amari che esso raccoglie; parte dal dolore che trasuda da ogni poro del nostro vivere, passando attraverso la sofferenza del proprio vissuto privato

A noi dicono, invece, ce ne sarà per degli anni./Che ci faremo anziani, e alla cura non basterà la neve. /Ma allora come faranno i figli. Come le madri ,/ il bestiame, il torrente o la piena, le vigne /e il grano, oppure il piano a sopportare /nostalgie di tre sillabe – alcun orizzonte, /trincee in luogo di alture, cicatrici incapaci/a guarire – e noi incapaci, a spaesaggire.

E quella crasi “ spaesaggire “ ci fa  approdare  a una conclusione avvilente, disillusa e sconfortante servendosi di un linguaggio anticonvenzionale, privo di retorica, scarnificato all’eccesso, sfrondato da ogni tentazione sentimentale anche nella parte del proprio privato affettivo, ma temo che queste amarene non saranno le ultime che dovremo aspettarci di questa giovane autrice già al terzo libro di poesie.

 

 

 

Claudia Zironi

10 dicembre 2018

Lettura di Luigi Paraboschi

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Variazioni sul tema del tempo
poesie di Claudia Zironi

Credo di poter dire, senza timore di essere contraddetto dall’autrice, che il tema del tempo costituisca quasi una costante di tutte le sue raccolte, a cominciare da
Fantasmi, spettri, schermi, e avatar da cui stralcio :
A un certo punto il mondo ha rallentato
…non so bene quando è successo…
il mondo era invecchiato

Che Zironi pensasse che il tempo abbia rallentato e invecchiato il mondo, e il flusso degli anni abbia trasformato e si sia portato via i nostri migliori sentimenti, lo si poteva già intuire e dedurre dal finale di questa altra tratta da Eros e polis ove, forse parlando di sé stessa, preconizzava un destino di morte, di oblio e di sconfitta al quale però siamo inevitabilmente destinati tutti:

Sei nido della rondine /a settembre, destinato /all’abbandono. Servirai /da concime alla terra / dei nuovi ramoscelli /che culleranno uova

Ma in questa ultima raccolta lei affronta ancora e con maggiore impegno e attenzione quasi scientifica il tema temporale, costruendo all’interno di tutto il suo lavoro scansioni letterarie chiamate: Ucronie-Eterocromie-Eucronie-Discronie-Sincronie-Ur-cronie-Diacronie dentro ognuna delle quali inserisce testi a suffragio del tema principale che è
“il tempo“.

In tutti questi “paragrafi“ o “capitoli“ del discorso poetico sono inseriti testi che davvero spiegano il significato dell’intitolazione ad essi assegnata, e ritraggono ciò che sarebbe potuto succedere se un preciso avvenimento storico avesse assunto un andamento differente.

E’ una sorta di “sliding doors“ letterario nel quale Zironi immagina di viaggiare con la fantasia attraverso luoghi geograficamente precisi ( la Finlandia, Stoccolma, Santiago, Il Cile, la Fossa delle Marianne, Istanbul ) per proporci testi a volte leggermente angoscianti per quel senso di solitudine e di lontananza che mi hanno fatto riandare al romanzo “La strada“ di Mc Carthy, per la visione desolata di un mondo sopravvissuto ad un disastro ecologico o nucleare.

Poiché in un testo essa scrive: ”per scrivere di cose profonde/ ho scritto di curiosità geografiche “, non ci resta che seguirla nel divenire poesia di queste “cose profonde“ il cui sviluppo lascia il lettore a volte spiazzato, come in questa:

Avevo- forse ho-qualche parente a Padova/.Ci sarò stata due o tre volte in tutta la mia vita/ ricordo solo la chiesa, la piazza/ ma è uno di quei posti che diceva mia nonna/ suona familiare/ come se ci avessi perduto qualcosa/”

ma lo spiazzamento arriva da questo verso folgorante che chiude il testo “Guarda per me nel fiume“.

La spiegazione di questa volontà di disorientare il lettore mi è apparsa più chiara da questi versi di un’altra:

“Sei mai stato una gazza?/ disposta in fila con altre trenta su un cavo/ nel sottotetto, che guarda/ te che sospiri scacciando l’idea/ di un nuovo amore/. E sei mai stato il tuo letto?/ che accoglie l’insonnia, le mani, il calore/ come fosse il suo corpo/. Sei mai stato il treno che ascolta/ i tuoi nuovi pensieri cosi azzurri/ come fossero raccolti di fresco in un campo/ E sei mai stata l’aria che lei respira? Il pipistrello/ che le vola davanti alla finestra ? Sei mai stato la sua bocca, i suoi occhi/ il suo seno?/ da quando ti conosce//”

Ancora una volta, come nei precedenti lavori, affiora in Zironi uno sguardo sul mondo che pare volere celare una invocazione di aiuto, la volontà disperata di vincere l’inevitabile trascorrere del tempo e di volerlo piegare alle esigenze di un cuore sempre bisognoso d’amore e di contatti umani, malgrado quella che a un lettore frettoloso potrebbe quasi apparire aridità o quanto meno indifferenza.

Se non ci si sofferma sul disincanto racchiuso in questi versi, sul loro nichilismo:

“non è infinito l’universo/ è il nulla-meno qualche cosa, esiste/ per sottrazione al nero/ ma Tu/ sei come il tempo

se non ci si lascia influenzare dal contenuto di questi altri:

“E se un giorno svanissero/ i pensieri la luce non esistesse più/ la percezione/ dello spazio né quella del freddo, non ci fossero/ più nervi ad accogliere il dolore/ nessuna voglia nel ventre, un grande/ silenzio./ Il tempo/ fosse una macina per ossa/ Se un giorno restasse solo questa sensazione/ di non servire a niente//

e si va oltre la prima reazione di sconforto, tornando sui differenti testi di questa raccolta ci si può rendere conto che l’anima di questa artista possiede angoli di sensibilità eccezionali capaci di venire fuori con tutto il loro vigore,e la loro forza espressiva come si può dedurre dal finale di questo testo che segue, malgrado sembri essere stato dettato dallo scetticismo più globale:

“Misurazioni effettuate hanno dimostrato/ che l’ innamoramento sul pianeta Terra/ nell’uomo dura circa tre mesi, nella donna/ un anno, dopo sei anni c’è la sopportazione/ quando va bene,/ poi solo fastidio, la possibilità/ di incontrare l’uomo dei sogni è pari/ a quella di trovare il libro di Urizen/ su una bancarella, arrivata a cinquant’anni/ ogni donna libera dichiara guerra/ all’amore e alla coppia, ogni uomo/ di pari età corre appresso le ventenni…..“

se non fosse che il riscatto dalle parole precedenti e dallo sguardo disilluso che si apre su una realtà abbastanza diffusa viene fuori da questi versi della chiusa che dicono :

…”mi spieghi/ per quale statistico motivo/ mi hai sorriso ?“

Ma l’anima che cerca il sorriso che nasconde l’attrazione, è la stessa anima che la induce a trattenere i sogni nella tasca di un cappotto nel quale ha rintracciato un rettangolino di carta (forse un biglietto d’ingresso a qualche locale) e di conseguenza scrivere: “… quando ho letto ho ricordato/ un piccolo prezzo per un anticipo d’estate/ per il sogno di un’intera vita./ L’ ho rimesso tra i rifiuti/ nella tasca, e la fa ribadire l’ostinazione di voler riattivare un rapporto che sembra esaurito. “Ti cercherò tra le spighe e i papaveri/ imbiancati, nelle tane lasciate vuote/ delle pietre, nonostante il frastuono/ dei gabbiani ti cercherò tra i vescovi/ in conclave, tra le sabbie delle mie parole e/ tra le rose senza nome, tra tutti gli uomini/ mancati nel millesettecento, tra le madri/ che non hanno avuto figli. /Se c’è una possibilità di ritrovarci/ non la lascerò intentata, il giorno / della fine del mondo //

La speranza dell’incontro va al di là del fluire inevitabile del tempo e culmina nello splendore di questa ultima che riporto per intero:

“ci sono cose che capitano./ Accade di nascere comete/ o solo di nascere, come di morire/ cadendo in un fiume/. Capitano strambi incontri/ dove i silenzi non sono/ contemplati, accade di traversare/ il deserto e il mare./ Può capitare di imbattersi/ in un astronauta per strada/ e non saperlo. Può essere/ che quando si aprono le mani/ per sentire il vento freddo/ della notte qualcuno le stringa/ e si parli dell’amore//

Luigi Paraboschi 13.10.2018

Luigi Paraboschi

20 settembre 2018
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dagli APPUNTI DI LETTURA
di Ennio Abate

 L’ultimo libretto di poesia di Luigi Paraboschi si presenta in toni raccolti e dimessi già dal titolo non casualmente in minuscolo, che viene ripreso e chiarito in «Il ghiaccio della gronda»: le nostre esistenze sono abiti stropicciati, non stirati, non più di festa; e li indossiamo (metaforicamente: indossiamo noi stessi, cioè i nostri corpi-maschere), come per una recita solitaria o davanti a pochi spettatori noti ( molte le dediche a persone care ), ai quali dire l’essenziale della nostra vita e di vicende, dalle quali prendiamo ormai pacatamente «a caso ciò che serve». Chi parla fa un bilancio di vita e questa raccolta è un po’ il «De senectute» di Paraboschi. Vi contempla un se stesso ormai compiuto innanzitutto nella sua memoria. E richiama a fare lo stesso al lettore. (E a me in particolare, suo quasi coetaneo, che l’ho conosciuto da pochi anni e subito – anche se finora non ci siamo incontrati – l’ho sentito per molti tratti amico-fratello, molto vicino alla parte giovanile del mio percorso: uno, mi sono detto talvolta, che avrei forse potuto essere io, se non mi fossi strappato alla mia città di provincia e sporcato con il ’68-’69, gli anni Settanta, le periferie, le sirene rivoluzionarie). […]

il resto potete leggerlo qui

Cerchi ancora la pietra d’angolo

Cerchi ancora la pietra d’angolo
uno scoglio sul quale edificare
ti lasci scarnificare da relitti
che pensavi sepolti nel cemento
in un punto profondo dell’oceano.

Anche i fiumi carsici all’improvviso
si sotterrano come fai tu e fanno perdere
le tracce. Pure se non sono aridi di acque
si rifiutano di finire in mare
e annegano nel sottosuolo
quasi a pentirsi d’avere amato il sole

poi – senza preavviso – riappaiono
più a valle ad irrigare altri terreni
meno sassosi di quelli di montagna.

Le scorie invece no, non sedimentano
con il tempo, rilasciano veleni tossici
rendono amare le acque attorno ai sogni
che la vita porta in giro e che coltiviamo

anche se spesso ci stanno troppo larghi
come un paio di scarpe nelle quali
il piede s’è smagrito e le trasciniamo.

Vecchia parte di città

All’occhio resta la ferita dei vecchi muri,
il rosa antico steso sopra la parete smossa
di una camera da letto, il verde salvia forse
di un soggiorno, tracce sbiadite di progetti.

Tegole impilate con meticolosa cura
all’angolo del cortile, testimonianza
di quasi un secolo di piogge riparate,
foglie raccolte in fondo alla grondaia
piena di sabbia che il vento ha raggrumato
per smerigliare il cotto e farlo spento.

Pochi i suoni, un silenzio piatto
dietro le persiane che un sole addenta
tiepido in questa vecchia parte di città
dove la massicciata arroventa
le lame dei binari di stradelle strette
dentro le quali la luce taglia i muri
come in certi quadri di Morandi.

Cortili angusti per i troppi vasi d’oleandri,
cancelli dalle colonne sormontate
da leoni in gesso, balconi liberty
dai quali sgocciola una pioggia di gerani.

Così ti vivo, strada della città vecchia
dentro un languore di primavera tarda,
sotto un cielo dalla calura triste
che stonda i sassi nel giardino all’ombra
ma non uccide l’erba, ove nervosa guizza
una lucertola che s’abbevera alla pozza
sotto il fico dalle foglie come palmi aperti.

Raccontami l’acqua che è già corsa

Dici che temi la vita virtuale,
lega le mani e non ha confini, ma
quella che trascorriamo è più reale?

Pensi che l’occhio in cui ti specchi
non ti nasconda ciò che osserva
quando non ci sei o che la mano
che ti fruga sia più sincera ?

Forse sei nel vero.

È già difficile indovinare il tempo
che farà nel pomeriggio, come capiremo
se e quanto diromperà una parola
quando sappiamo già che il fruttivendolo
ruba sempre sul peso mentre col mignolo
allontana il piombo sopra l’asta della stadera?

Raccontami invece l’acqua ch’è già corsa
le radici che hanno dita lunghe
e le campane e i suoni che ascoltavi
prima che la vita ti accorciasse la cavezza,

parlami anche di tutti i padri
che fai sedere sulla tua panchina
e di come li guardi e li perdoni
dimmi la sofferenza di non avere
che memorie in bianco e nero
e lasciami cambiare le mura che cerchi
di costruirti attorno – fortezza
senza ponte levatoio – con semplici mattoni
o sassi uno sopra l’altro e con una
porta dove chi entra resta e non ti lascia
dubbioso al chiavistello nella sera

e poi descrivi le siepi che circondano
i tuoi sogni senza recinzioni e i fiori
che non puoi cogliere nei campi del ricordo.

Il vento che ci spinge ai margini

Il vento che ci spinge tutti ai margini
impedisce d’arrestare le distanze
e dentro il giorno resta la voglia
di parole tonde senza angoli:

“fiore, bue, cane, girasole, gatto”.

È la gratuità a fare meno arido
un incontro tra due cespugli
rotolanti dentro quel vento

la capacità di pronunciare
solo parole brevi crea una storia
e incide la pietra che grava
sopra ogni speranza.

Concerto per donna sola

Ci fu un tempo in cui mi frugavi dentro
come questo vento che accartoccia il fogliame
al fondo delle grondaie prima che piova.

Allora visitavi le mie contrade devastandole
con la tua arroganza dentro errate latitudini
e nuvole d’amianto sotto cumuli di piombo,
corteggiavi lo scuro caffellatte dei miei seni
ed i miei fianchi erano stoppie di collina
per le tue mandrie in corsa di rapina.

Senza parole, di gesti squilibrati,
quel transitare dentro me, lasciavi
nebbia ed umidore, rabbia dolorante
soffocata dentro un grido oscuro e fondo
nella gola, sabbia arroventata dal tuo ansimare.

Così hai lacerato la mia carne ed i pensieri
di quella giovinezza che occhi forestieri e nuovi
leggevano dorata, questa figura era diventata
la trama di un tappeto afgano che invece bruciavi
come un kilim polveroso sotto i piedi
del nostro amaro disamore, ed hai rubato anche
la mia passione per sezionare le tue povertà,
ma ora che sto frugando fra i miei detriti
provo rancore per quel supporti l’unico uomo.

Più non grido, soffoco l’angoscia di questa assurda vita
che talvolta mi scippi ancora all’inguine la notte,
urlo forte dentro me per l’abortita attesa di un amore
che non sia solamente lo spasimo di una tenia,
ma so che imparerò a conversare in una lingua
poco praticata, costruita con sguardi di sottecchi
e qualcuno finalmente carezzerà il mio muso triste
di cagna che ha riscattato il suo destino.

A un’amica

Sono deserte e vuote l’ urne dei forti,
le nostre Madeleines le dobbiamo avvolgere
nella stagnola per proteggerle dall’umidità
di questa stagione che annacqua, dilava
e infine omologa ogni velleità di differenza.

Porti per sentieri faticosi il peso
di un silenzio e di distanze, ti domandi
se e quando arriverai alla tua baita,
ed io ti rispondo con la scorta
del pensiero di coloro che s’erano illusi
d’alleviare la durezza del nostro scorrere
usando le parole dei Maestri.

Inutilmente

ci appartiene qualche verso, il fruscio
di un languore nella memoria,
il respiro di chi una volta s’è addormentato
nel nostro accanto, la tenerezza
di una mano che s’inumidiva,

cose, immagini di gesti, parole
ancora, per accompagnarci
verso quel silenzio dal quale
per molte volte abbiamo
tentato di allontanarci.
———————————————–a V.

Le vecchie litanie

Ho lasciato sopra gli scalini di casa tua
quattro versi sciolti nel poco miele che restava
della mia estate di san Martino, come
l’obolo della vedova, tesoro tenuto in grembo
frutto di rinunce e non ciò che le esuberava.

Conservali per quei momenti in cui s’affaccerà
alla tua finestra un velo di rimpianto
non rileggerli con distacco, sono il prezzo
che anche tu paghi all’illusione che ci fa sperare
al di là del suono dolente delle campane.

Io ripeto gesti ed azioni collaudate,
intono vecchie litanie, mugugno cori muti
di paturnie, ma tutto avverrà com’è giusto sia
il sole completerà il suo giro, l’asse della terra
non subirà inclinazioni, ed il gelo sopra i fili
del nostro bucato non si scioglierà perché
è senza luce questo giorno d’inverno
che altri hanno già battezzato dello scontento.

Ne passeranno ancora come questo, con pause
brevi come quelle dei nostri pasti, e se qualcosa
s’avanzerà dentro il piatto diremo con disinvoltura
di non avere fame, e tutto sarà più facile:
ci basterà dimenticare di non avere vissuto.

Il silenzio è da catturare

Soltanto quando avrai osservato a lungo ogni paesaggio
sperando di catturarlo con le pennellate che distendi
quando avrai girato l’interruttore tra te e il mondo
e sullo schermo apparirà la linea piatta del confine,
——————————————————–tu saprai
————————————————-d’essere vivo
e non ti lascerai più condurre in giro dal rumore.
——————————————————–Allora
———————————————vi sarai vicino,
——————————————————–allora
avvertirai che quel brusio si è assopito dentro te
e potrai toccare la consistenza del silenzio.

Nel buio la tua pena si farà più lieve
sciolti i lacci che trattengono il flusso del respiro
ascolterai ogni eco che s’allontana dalla mente

e quando scoprirai che nell’accettarti
figlio d’un Padre silenzioso ma non assente
sta l’inizio e la fine d’ogni ricercare,
la tua storia diventerà un libro chiaro.

Allora, non prima

Allora, non prima, sarà il non detto,
la parola non uscita il suono tronco
il gesto generoso non compiuto, a fare aggio
su quel poco che la nostra illusione
penserà d’aver portato a compimento,
e non servirà il rammarico o il disappunto
per le scelte troppo a lungo rimandate.

Le nostre non azioni, l’indifferenza,
quell’accidia sottile che accompagna sempre
la mancanza di carità saranno lì
oggetti di natura morta per aridità
quadro dipinto con poca conoscenza
tappeto sopra un telaio privo di movimento

e non si potrà disfare alcun disegno
o cambiare di posto ai componenti,
ma sulla nostra assenza prolungata
si stenderà il giudizio o la chiusura.

La non appartenenza

Trapassa anche te il malessere
della non appartenenza come se
viaggiassi dietro vetri oscuri?

Al risveglio ti succede
d’indossare abiti non tuoi, poveri
indumenti che coprono le debolezze
e fanno vergognare dei pensieri?

Oppure ti sembra che la vita
talvolta sia un fiato tronco,
e cerchi il respiro del giorno
dentro gli occhi di chi incontri?

Bivacchiamo con addosso squame
congelate da troppi inverni d’astinenza,
lasciamo tracce di morte mascherata
da vitalità, lanciamo l’illusione
d’essere gli anelli forti d’una catena
ma la secchia che gettiamo in fondo
al pozzo non porta su che fanghiglia e sassi.

Il malessere che trastulliamo come fosse
un capogiro non è un calo di pressione
per il quale può bastare una zolletta

ora che il fumo dei vulcani s’è allontanato
resta questo ansimare persistente che qualcuno
-per mia ironia- ritiene tosse cardiopatica.

 

Luigi Paraboschi
nato a Castelsangiovanni ( Piacenza ) il 21-11-1938

2018- pubblicazione presso l’editore Terre di Ulivi di lecce della raccolta
di poesie “ …….e ci indossiamo stropicciati “.
2018 – Finalista al premio “ Claudia Ruggeri “ Bologna
2017 – terzo posto al premio di poesia Va’ pensiero di Soragna per poesia singola
2016 – finalista al premio “Città di Forlì “
terzo premio al premio Patrizia Brunetti di Senigallia
2015 – segnalazione finalista al pregio Giorgi – Sasso Marconi
2015 – segnalazione speciale al premio “ tra secchia e panaro “
2014 – ottobre secondo classificato al premio per poesia inedita “ le quattro porte “ di Pieve di Cento ( Bo )
2013 – ottobre : 1° classificato al 32°premio per poesia inedita città di Quarrata ( Pistoia )
2011  : terzo classificato al premio per poesia inedita “ tra Secchia e Panaro“ Modena
ottobre : menzione al premio Soragna per poesia singola.
2010 ottobre – primo premio al concorso “ Violetta di Soragna “ per la sezione “ libro edito con il volume “ Geometrie precarie “
maggio -terzo premio per la sezione silloge di poesia al concorso Mezzago Arte “ a Mezzago ( Milano)
maggio – Secondo premio per libro “ Geometrie Precarie “al concorso
“ Toscana in poesia “ di La spezia.
2009 –Settembre – primo premio poesia inedita “ Le quattro porte “ Pieve di Cento
( Bologna )
Giugno –primo premio per silloge inedita al xxxiv concorso” Casentino “ di Poppi ( Arezzo ) con pubblicazione del volume “ Geometrie precarie “
2006- 1° premio pari merito al concorso per poesia inedita all’VIII concorso “ Giacomo Natta “a Vallecrosia ( Sanremo )
2003 – 1° premio assoluto per la silloge di poesia “ Controvento “al concorso “Città di La Spezia”

“Dispacci” Lettura di Luigi Paraboschi

11 gennaio 2018

                 scrittori-a-confronto01-12-06-09

              Dispacci
              Narda Fattori
              L’arcolaio 2016

Scriveva la Fattori in una precedente raccolta  dal titolo “ la vita agra “, volendo lasciare un “consiglio- avvertimento” alla nipote

se non hai passioni e sogni grandi
  resti all’anagrafe solo un rigo nero “

ed in questo ultimo lavoro, dal titolo significativo DISPACCI, non fa che ribadire il concetto sopra esposto, quello della passione per la scrittura e per la lettura che sembra essere dominante, come scrive in questi versi della poesia Viaggi

……….

nei libri il viaggio bambina fu con Sandokan/

con Nietzsche più tardi e saputa ma non ho imparato/

a discriminare il grano dal loglio/

 

Da questo nuovo cammino che ha intrapreso essa invia poesie nelle quali parla di sé  spesso in modo diretto, alludendo al suo modo di aver vissuto, e usa il titolo che ho precisato, forse perché tradizionalmente si adotta il termine “ Dispaccio di agenzia “ per indicare un  sintetico rapporto giornalistico o di agenzia giornalistica, quasi un avviso, e talvolta anche un breve rapporto militare dal fronte di guerra volto a condensare gli avvenimenti e ad aggiornare il ricevente sullo “ status quo “ di quanto accaduto.

 

E l’aggiornamento di Fattori è un riassunto composto da tante immagini, tante sensazioni, tante emozioni tra le quali direi che i motivi conduttori girano attorno ai temi degli : affetti perduti- solitudine e del distacco-  delusione nei confronti delle aspettative e dei rimpianti –  la fede e l’immigrazione.

 

Uno dei primi dispacci lo si incrocia nelle poesie di apertura, dedicate al padre alla madre ed alla sorella, tutti citati con nome e cognome, ma credo sia stata l’assenza ( forse ) troppo repentina della figura del padre a rendere ancora forte e vivo il bisogno di aiuto nel cuore dell’autrice, e questi sentimenti così ben condensati nel corso della poesia “Lui” possiamo viverli attraverso la  sintesi racchiusa in  questo verso finale:

 

 ci vuole la mano di una padre per un bambina “

 

ma se la mano del padre è mancata, anche il legame con la madre cui fa cenno nella poesia “ e tu madre “ ( forse ) non è stato portato avanti troppo a lungo  nel tempo, come  possiamo leggere qui :

 

il nodo si sciolse e molto passò/

del bene e del male/

nel coagulo nudo dell’essere vivi/

 

ed infine c’è la figura della nonna, evocata dalla poesia “ Vespro “ che “ muoveva piano la labbra arse/ e si segnava al vespro-  e che ha lasciato un vuoto interiore nell’autrice  da indurla a concludere  così :

 

io ormai dico crepuscolo e già non vedo “

  
Ma agganciandomi  a questo “ non vedo “ vorrei riprendere altri versi raccolti dalla raccolta  precedentemente citata “ “la vita agra”, che suonavano :

 

 

Perché se sopravvivere è una fortuna

                     allora il prima e il dopo la vita

                   appartengono al segreto

                   di una divinità terribile e troppo umana

 

per giungere a questo breve passo della poesia  di questa raccolta“ Enigmi “ che dice:

……………………………………………

mi restano mani nude inabili alla poesia/

restie alla preghiera /

…………………………………

la mosca unisce due zampine all’interno/

della ragnatela- Vanamente prega/

 

E questa mosca che “ vanamente prega “ unendo le zampine è la stessa  “ mosca “ che dirà nella poesia “ Single “

 

misuro a spanne la dimensione/

                      della mia anima/

non più ampia di una tovaglia/

 

e concluderà la stessa poesia affermando

 

La mia anima è più piccola della tovaglia/

poggia-piatto all’americana/

…………………..

single per non dire sola

 

E’ un’amara conclusione quella di questa “ mosca “- per giunta “ single” – una conclusione amara ma lucida, quasi impregnata di disperazione, come si può leggere nella poesia “ la forma del finire “ dalla quale stralcio alcuni versi .

 

 

finire dimenticando  il volo le ali/

lasciare che il niente pettini/

le piume e sostare senza fretta/

alla porta che non si conosce/

…………………………..

nessuno sussurro nessuna preghiera/

nel silenzio tondo la nescienza/

dell’essere stati del non essere più/

 

Parafrasando il titolo di un famoso romanzo americano oserei dire, (ma lo scrivo con il rammarico, cosciente di una realtà che vivo in prima persona), che questa non è poesia per …….giovani ; c’è molta amarezza,  una sofferenza chiusa, quasi senza speranza, di chi avverte lo scorrere del tempo e l’incalzare dei giorni, e le delusioni che derivano da una presa di coscienza del reale  sempre più avvertita con consapevolezza.

 

A conferma di quanto detto riporto parte della poesia Avvenne

 

Avvenne che inciampo’ sul primo scalino/

infausto incontro con la diminuzione/

…………………..

il corrimano era bastato fino a ora/

e passi studiati lentezze contro sole/

…………………………..

non ha re-imparato la rincorsa/

l’epidermide bruciata dallo sfregamento/

……………..

…………………

sta seduta in silenzio

lei che aveva sempre profetato

 

 

Ma  raggiunta una certa età, quando le condizioni fisiche non sono più quelle di un tempo, non si può non concordare con la Fattori : spesso quel corrimano che ha sostenuto per tanti anni le nostre illusioni ha ceduto sotto il peso metaforico dei “pensieri poco profondi” e lo scoprire che “i fiumi di un tempo si sono trasformati in fossati” può condurre alla conclusione  espressa  da questi versi della poesia “ la mia sera “

 

la mia sera è un albero con foglie residuali

 

che si accostano ai versi successivi dove risalta l’ incertezza fideistica  di quel “ brivido” che la coglie e lo sgomento esistenziale  di quel non so

……………………

la mia sera è una nuvola sfilacciata che s’allunga/

sotto la volta del cielo- s’attarda – guarda la terra/

che l’ ha generata e un brivido la coglie – non sa/

ancora se sarà brina pioggia o neve di peso lieve/

                                               o tracimazione/

 

 

Lo sguardo dell’artista è talvolta acido e sarcastico nei confronti della stupidità e della cattiveria di questa società, come nella poesia 2014-2015

 

2o13-2014-2015 abbiamo scavalcato/

il dosso del tempo ancora morte/

lutti cupidigie rapine e omicidi/

stradali cioè di umani in strada/

un’ammaccatura alla carrozzeria/

un mazzo di fiori sul ciglio/

                            del fosso/

……………………

Fra smartphone iPod e tablet/

vocifera la solitudine on line/

 

 

E concludo questa lettura stralciando qualche verso da questa poesia dal titolo Abbi pazienza perché essa ha, per me, un sapore amoroso forse involontario, quasi un invito  rivolto ad un partner immaginario, magari ultraterreno, ad un rapporto fisico che rassomiglia un po’ ad un amplesso  tristemente mortale

 

……………………….

Abbi pazienza ho navigato tanto/

la vela è stracciata e si beve il vento/

………………………..

 

prendimi quando il sonno/

mi picchierà sulle tempie e l’orologio/

sarà qualche minuto indietro/

una dimenticanza succede invecchiando/

aspetta ora rimedio…….sii paziente/

aspettami …..sarò qui subito subito./

 

Siamo così giunti alla fine della lettura di questi Dispacci e ne abbiamo riportato la sensazione del malessere dell’autrice che si estende anche all’animo del lettore il quale non può fare a meno di essere  coinvolto.

Quando si termina questo viaggio si deve riconoscere alla Fattori una lucidità di pensiero, una profondità nelle  considerazioni di poetessa e di cittadina-testimone del mondo  tali che diventa obbligatorio considerare questa opera un esempio attento ed alto di come sia possibile coniugare il valore letterario congiuntamente alla  poesia civile.

 

 

 

Luigi Paraboschi

Luigi Paraboschi

23 ottobre 2017

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Geometrie

Angoli

Detesto quelli acuti sono spilli,
ed anche quelli meno appuntiti

hanno spesso un po’ di “sopracciò”,
specialisti nel salto della quaglia,

quelli retti, poi, sono così altezzosi
con la loro verticalità e il dogmatismo.

Gli ottusi, invece assumono sempre
quell’aria da vomere che squarcia,
sfondano ma senza cattiveria, non ci arrivano,
anche se usano molta buona volontà,
con quelli piatti mi sono deliziato
a lungo, distesi come orizzonti, calmi,
copule sull’erba, dolci morti in geometria.

Ma ora che indosso male il tempo, amo
quelli a giro perché non hanno punte,
si sono annullati nel vorticare, consci
che il bene ha forma circolare dentro cui
basta cambiare una vocale
per tramutare l’angolo in angelo.

 angolo giro

La perfezione non sta dentro il triangolo
come raffiguravano un tempo sul catechismo,
è l’angolo giro con i suoi 360 gradi quello
che può narrare questo amore che t’abbraccia
anche se incontra certi spigoli, ma è ancor di più
dentro un cerchio senza circonferenza
che io immagino sarà la vita attesa, ove
non basterà moltiplicare raggio per raggio
e poi per tre-e-quattordici per calcolare
la superficie, perché saremo tutti in tutto
senza dover sfiorare la felicità passando
per la tangente come succede quando amiamo.

a mia figlia

 

Cono e poi tronco di cono

Il massimo del fulgore l’ebbe col Metafisico
quando la sua forma celebrata dai manichini
nelle piazze deserte della città estense
si prestava per i giochi con la conoscenza.

Per la sua eleganza e per la disinvoltura
seduceva nei circhi sulla testa ai clown,
amava ergersi sopra gli altri solidi
pungere con l’arguzia nel dibattito tra menti.

Dentro il cono d’ombra nascondeva segreti
da confessionale e nel suo occhio di bue
le ballerine s’avvinghiavano ai doppiopetto,
ma perse la punta quasi senza rendersi conto

e si scopri ridotto a tronco di cono malandato
buono per sostenere i piedi di qualche vecchia
credenza traballante, poi lo costrinsero
a passare il tempo assieme ai parallelepipedi
dalle troppe facce, una per ogni circostanza.

 

l’area del cerchio

Provo a rinchiuderTi dentro la superficie
che credo di scoprire quando moltiplico
la fede con la speranza, e se invece del pigreco
metto il tuo nome, l’area ti sta stretta.

C’è sempre una falla nella circonferenza
e tu invadi gli spazi attigui a quel recinto
ove con presunzione ti ho racchiuso.

L’acqua tracima sempre dal mio cerchio
confortevole e la contraddizione origina
il mio malore, perché se cinque mariti
nulla hanno potuto contro la sterilità
della donna di Samaria, anch’io devo pur
farmi una ragione se fra i tanti lebbrosi
d’ Israele fu solo Naaman il Siro quello guarito.

 

Sfera

Del cubo meglio non fidarsi
ha troppe facce, una per ogni circostanza,
il cono vive sempre in dicotomia
tra il dottorale e il magico,
un po’ mago Merlino e un po’ Pinocchio,
sul cilindro è meglio sorvolare
è talmente snob che pensa sempre
d’essere infilato sopra il capo
di qualche Fred Astaire d’avanspettacolo,
la piramide è troppo presuntuosa,
crede d’essere investita dal destino
da quando l’hanno elevata a monumento,
il parallelepipede non sai come guardarlo,
quando l’osservi dice sempre con sussiego
“ dall’altro lato vengo meglio “.

Invece della sfera non puoi che dire bene :
tutto le scorre addosso e scivola via ,
non s’ intromette con gli spigoli vivi
ha una sola faccia ma non sai quale,
le basta il buffetto d’unghia di bambino
per correre sulla rena accanto al mare
e quando si fa boccia s’affida ad una mano
che le trasmette la forza necessaria
per appoggiarsi alla sua gemella e riposare.

 

la retta

E’ vero che tra due punti
la via più breve è quella retta,
ma se non mettiamo gli stop
alle laterali succedono disastri,

perché tutti sanno che infinite
sono le rette che possono passare
per un punto solo, perciò tieni presente:

conviene il percorso su stradine di campagna
senza la mezzeria pur se con molte curve
ma prive d’innesti alle carraie
che portano a poderi abbandonati,

occorrerà più tempo per l’arrivo
e di certo troveremo la brace spenta,
ma poco importa, basterà fare legna
nuova attizzare un fuoco senza
le vecchie braci su cui soffiare.

—————

Tre poesie
(con stralcio da una nota di Ennio Abate)

 Il fiume San Lorenzo

Il fiume San Lorenzo corre veloce
tra le rocce prima del Ferro di Cavallo
e poi si schianta nel salto
dentro la nebbia d’acqua
ove galleggia microscopico un battello
dal nome ” Maid of the mist “.
Così noi, tu, io, assieme
alla maschera di Tutankhamon
e allo schiavo che eresse
la sua camera funerarie,
il defunto di Sant’Elena
e gli insepolti delle sue battaglie
i loro amori, le malattie, il sangue
delle ferite, ed il dolore delle baionette
dentro le viscere, i dissolti di Hiroshima,
i disintegrati delle torri
tutto scomparso dentro quella nebbia
ove basta un secolo per essere dimenticati,
anche tu, piccolo uomo che ora balli
al suono dei jingle natalizi
ti perderai nel flusso della corrente
e non saprai di me e dei miei amori
inconfessati e sotto silenzio
non troverai che echi di rimando
ma dell’emozione di una mano intrecciata
con la mia, di quelle labbra cercate
nella morbidezza di un abbraccio contrabbandato
chi ti potrà narrare ?
Eterna è la nebbia del fiume San Lorenzo
e naviga ogni giorno quel battello
con i turisti, tutto avvolge
questo tempo che ci è dato e tolto
in un istante senza poter capire
la ragione della sorte e del destino,
la nostra storia ed i suoi angoli
che non sappiamo arrotondare
e quel bisogno di narrarci all’altro
che talvolta neppure sa di noi
( o l’ha smarrito nelle pieghe
d’un desiderio morto )
e le partenze che rinviamo
con quei biglietti di sola andata
già obliterati, tutto tutto tutto
sarà avvolto e poi travolto
dentro quella nebbia che si scioglierà
soltanto in un incontro dentro quel Tutto
e finalmente respirerà la pace.

*Il battello Maid of the Mist prende il nome da una figura mitologica degli indiani Ongiara, trasporta passeggeri, nel bacino alla base delle cascate, sin dal lontano 1846.
(da https://it.wikipedia.org/wiki/Cascate_del_Niagara)

 

Il pallone cade sempre al di là del muro

In quella fotografia non ancora color seppia
sorrisi, sguardi, complicità, inconsce
speranze, illusioni, tutto era ai nostri piedi
allora, il dubbio e l’incertezza non ci appartenevano,
ogni virgola era al suo posto, chi avrebbe immaginato
che il futuro sarebbe stato quello che divenne ?
A quel tempo si distendeva sotto i nostri piedi
il tappeto rosso delle stelle, tutto era in discesa
quasi senza pedalare, nessuna ombra
sarebbe apparsa sopra l’alba di anni nuovi,
Urbino sferzava i vostri visi col vento delle sue Cesane,
e così disperdemmo negli arabeschi delle strade
i nostri sogni fatti di attesa e i viaggi di speranza,
ma il tempo ci ha buttato addosso il suo mantello
e la vita è rimbalzata al di là del muro di confine
come talvolta avviene col pallone
e si deve scavalcare la recinzione
con la speranza di recuperarlo
ma l’erba è cresciuta a vista d’occhio

 

Al Premio di poesia

Non si nega l’applauso
è pura cortesia, affabilità,
civile comunicare un affiatamento
tra sconosciuti che hanno biascicato
le stesse parole, ordinandole
con diverse sfumature, domandandosi :
” ma cosa voleva dire ? ”
e la giuria indossa le piume d’ordinanza
si sciacqua l’ugola con le citazioni colte
s’arrampica sugli specchi
per dimostrare che ha letto
meditato e soprattutto ben capito
il senso, il messaggio (no, questa parola
non la si dice più, fa troppo anni sessanta)
meglio parlare di mission della poesia
e poi tutti a buttarsi a scapicollo
senza l’eleganza del censo e anche del ceto
sopra i bicchieri di vino bianco
la fettina di crostata e le tartine
gentilmente offerte dalle dame
d’una carità acculturata e progressista
poi la lettrice che declama i testi
con troppo birignao e l’autore
un po’ imbolsito che enfatizza
il suo prodotto, e tu che ascolti
ti domandi il senso di certe calligrafie,
se aiutano il mondo a farsi chiaro a noi
oppure se altro non sono
che l’appagamento d’una vanità
che ci attraversa e lascia folgorati
sopra una strada che mai non va a Damasco.
Infine ci si saluta, ci si complimenta
e si riparte, ognuno con la sensazione
di sfatto,di deja vù, di paura ben nascosta
per ciò che abbiamo dentro
e che avremmo voluto tirare fuori
ma le parole che avremmo usate
non sarebbero state degne del sentimento,
e domani ricominceremo a pennellare
la nostra vita sopra le vecchie tele
sperando che il senso si faccia avanti
e si dispieghi, ma non accade.

Sin dal primo impatto con i versi di Luigi Paraboschi si coglie il tono fondamentale della sua poesia, che è lucido, dimesso e amaro. (Quando ho pensato ad un corrispettivo nel campo della pittura, mi sono venuti in mente i quadri di Edward Hopper, il ritrattista della solitudine americana). Paraboschi coltiva una poesia che non vuole essere per letterati. (Si veda il distacco ironico che mette tra lui e gli altri poeti nella terza poesia qui proposta). E che s’affanna, invece, sulle domande di senso della vita e delle nostre esistenze. Sono, immagino, domande sue. Che però ha sentito galleggiare anche nella mente della gente comune con cui sta a suo agio. Come lui, costoro non hanno una corazza di studi letterari o filosofici e non amano le “ideologie”. Né i ricami col linguaggio («e tu che ascolti / ti domandi il senso di certe calligrafie»). Di solito hanno fatto altri studi (tecnici e scientifici forse) o hanno vissuto in modo pratico buona parte della loro vita. Hanno pensato, cioè, dentro le sue maglie strette e spesso ispide, non in appartati seminari accademici o cenacoli letterari. Dalla poesia, perciò, reclamano qualcosa che abbia ancora a che fare con quel che hanno cercato e cercano nella vita di tutti i giorni. Ai versi chiedono innanzitutto « se aiutano il mondo a farsi chiaro a noi».
Conservando gelosamente un legame privilegiato con questo tipo di lettori, ai quali Paraboschi mi pare legato in modo tenace tanto da farne anche una sua maschera difensiva e selettiva, la sua poesia proviene da un sincero bisogno di narrare e di narrarsi all’altro. Ed è perciò colloquiale. Non resta comunque in superficie. Non ti intrattiene amabilmente ma ti porta nella profondità dei sentimenti da lui vissuti, dimessi e amari, come dicevo. A questo «desiderio di contatto» Paraboschi non si affida però del tutto e tende anzi a castigarlo. E qui entra il realismo che ha conquistato dalle sue esperienze di vita e di scrittura. Perché ha troppo chiaro che il mondo, di cui una volta i poeti, ma soprattutto i narratori, che credo egli preferisca, raccontavano abbastanza liberamente, non ha oramai più «colori e forme definite». E sa bene che «oggi tutto si muove in fretta, la stanchezza / ci attraversa senza lasciare al cuore il respiro /per un battito anche senza futuro».
[…] Ennio Abate

 

—-

Luigi Paraboschi

2016 – finalista al premio “Città di Forlì “
2015 – segnalazione speciale al premio “ tra secchia e panaro “
2014 – ottobre secondo classificato al premio per poesia inedita “ le quattro porte “ di Pieve di Cento ( Bo )
2013 –
ottobre : 1° classificato al 32°premio per poesia inedita città di Quarrata ( Pistoia )
2011
aprile : terzo classificato al premio per poesia inedita “ tra Secchia e Panaro “ Modena
ottobre : menzione al premio Soragna per poesia singola.
2010
ottobre – primo premio al concorso “ Violetta di Soragna “ per la sezione “ libro edito con il volume “ Geometrie precarie “
maggio -terzo premio per la sezione silloge di poesia al concorso Mezzago Arte “ a Mezzago ( Milano)
maggio – Secondo premio per libro “ Geometrie Precarie “al concorso
“ Toscana in poesia “ di La spezia.
2009 –
Settembre – primo premio poesia inedita “ Le quattro porte “ Pieve di Cento ( Bologna )
Giugno –primo premio per silloge inedita al xxxiv concorso” Casentino “ di Poppi ( Arezzo ) con pubblicazione del volume “ Geometrie precarie “
2006
1° premio pari merito al concorso per poesia inedita all’VIII concorso “ Giacomo Natta “a Vallecrosia ( Sanremo )
2003 –
1° premio assoluto per la silloge di poesia “ Controvento “al concorso “Città di La Spezia”