Il nucleo ideologico ed estetico della poesia di Maria Benedetta Cerro è tutto risolto nella sfida a penetrare e a dire l’oltranza di una dimensione esistenziale e metafisica che, per intrinseca necessità, oltrepassa il limite dell’hic et nunc della situazione dell’io, da cui pure si origina, per misurarsi con la vertigine dell’assoluto e dell’eterno. Si tratta di un tentativo temerario che richiede una dolorosa dedizione alla ricerca della verità e che trasforma il privilegio della enquête in condizione di lacerante e costante sofferenza, nella scommessa, lungo un percorso in cui si alternano istanti di gratificante acquisizione a momenti di tensione inappagata, di un approdo gnoseologico e linguistico pacificato. Sicché l’intera trama della scrittura poetica si configura e si definisce in un vitale coesistere di spinte antagonistiche e ossimoriche, entro una musica verbale e ideativa che ha preso drasticamente congedo da ogni forma di seduzione, per farsi scabro ed essenziale strumento di conoscenza. In questa prospettiva, con lucida coerenza, Maria Benedetta Cerro mette in atto un rigoroso e impietoso procedimento di sottrazione e di rovesciamento, che restituisce alla poesia e, per essa, alla figura del poeta la funzione mitico-religiosa che una lunga tradizione orfica gli aveva consegnato.
Raffaele Pellecchia
LO SGUARDO INVERSO
Ebbi nozione dell’inverso
e ne sondai l’inganno.
Da quel punto vidi la realtà farsi apparenza.
La lingua delle convenzioni
rantolare un dire fuggiasco
il diverso gettare all’opposto
l’unico ponte prossimo al vero.
Il dire sorgivo
Ci ordinò di corrispondere
perché eravamo inconsolati.
E riprese a pulsare la vena
dell’abbandono.
Il cielo neutro della parola
manifestò il suo dire sorgivo
e il lutto
fu animato dalla meraviglia.
Lui – il nodo del fenomeno
e del tutto – ci concesse il dettaglio
capitale che mutò lo sguardo.
Poi fu il silenzio / che uccise i talenti.
I denti guasti dei portatori
ridevano correndo.
I santi barcollanti fermarono i sogni
ai semi vietarono il germoglio.
Ora i ribaldi fioriscono impuniti
sulle ceneri / elevano torri.
I morti che nutrono il mare
piantano giardini.
Alle ossa comando di rifarsi pietra
al picchio nel mio cranio
– che ne è signore –
di battere ciecamente
con le mie parole
sulla corteccia del cuore dei sordi.
Oltre – non altrove –
indice della nascita orientale
nella scena profonda
dolcemente insolente
cautamente sovversiva
sorge la salvifica
dalle vocali spumeggianti.
In totale immediata urgenza
nel mese che prepara
il parto alle gemme
la parola maiuscola
che ammansisce il buio.
La cucitrice di bocche
siede nel frastuono.
Il remoto e ciò che spera di venire
attraversano il filo che infilza le parole.
Tolto il senso
il suono
il sussurro
non resta che togliere il pensiero.
Allora ti sarà ridata la bocca
la cantilenante nenia dei pazzi
Spargemmo sulla parola negata
il sale del senso
le voci oscure e nobili
che ci aiutarono nel combattimento.
Chiedemmo pace alla prova estrema
l’acquietarsi del grido
che ci scosse il sangue.
Occhi consenzienti implorammo
allo sguardo immobile
e folgorante la sua luce vuota.
Venne – forse – la punta di pietra
che mandò in frantumi il nodo
che ci piegò la fronte.
Qualcosa che sa d’impotenza
e ricorda fogli macchiati di pena
durante la notte
come un morto che torna
a raccogliere le sue ceneri
dal suo nulla tradito e invocato
qualcosa
dal “coro della mezzanotte”
si è ridestato e piange
Alexander
versi cedevoli e puri.
Sei la malattia che insinua nel sangue
la musica degli uccelli morti
che addormenta in letti alcolici
le parole indispensabili al canto.
Tu sei prato straziato dall’incanto
tomba di vermi e di poeti pazzi
che un solo libro affossa
da cui germoglierà l’incontro.
Miracolo crudele
che ha guarito gli occhi
– ora ciechi
e dallo sguardo inverso –
Parlami con la luminosa follia
del canto senza fine
ché io ti guarirò col bacio sterile
della riconoscenza.
Una galoppante radice di richiamo
viene a fiorire dagli abissi
perché la crosta secca del silenzio
germogli parole palpitanti.
Che sia l’assenza
o l’indifferenza
non ne piangerò l’insulto
perché il contagio della tua follia
saldi come un patto
il buio e il sole.
All’origine erano una cosa – la stessa –
In me divaricarono per fluire
opposti e pieni i fiumi sonori del silenzio.
In me parlarono dall’esilio e dai limiti
tutti i mali dell’uomo.
Mi fu impedito di morire
perché fosse chiaro che l’immensità
può abitare il linguaggio
divenire istante di verità
arte di salvazione.
Maria Benedetta Cerro è nata a Pontecorvo e risiede a Castrocielo – Frosinone
Ha pubblicato: Licenza di viaggio (Premio pubblicazione, Edizioni dei Dioscuri 1984); Ipotesi di vita (Premio pubblicazione “Carducci – Pietrasanta”, Lacaita 1987); Nel sigillo della parola (Piovan 1991); Lettera a una pietra (Premio pubblicazione “Libero de Libero”, Confronto 1992); Il segno del gelo (Perosini 1997); Allegorie d’inverno (Manni 2003); Regalità della luce (Sciascia 2009); La congiura degli opposti (LietoColle 2012); Lo sguardo inverso (Lietocolle 2018).
È presente in diverse antologie, tra cui: Poeti del Lazio, a cura di R. Pellecchia, Forum Quinta Generazione 1988; Melodie della terra, a cura di P. Perilli, Crocetti 1997.
Interventi sulla sua poesia sono apparsi su testate giornalistiche, riviste e testi critici, quali: Frammenti di un discorso amoroso nella scrittura epistolare moderna, a cura di A. Dolfi, Bulzoni 1992; La parola ritrovata. Ultime tendenze della poesia italiana, a cura di M. I. Gaeta e G. Sica, Marsilio 1995; G. Linguaglossa, Appunti critici, Edizioni Fabio Croce-Edizioni Scettro del Re 2002; La Ciociaria tra scrittori e cineasti, a cura di F. Zangrilli, Metauro 2004; Amerigo Iannacone, Nuove testimonianze.
Interventi critici, Edizioni Eva, 2005; R. Pellecchia, Con le parole/Oltre le parole. Saggi di letteratura contemporanea, Metauro 2007; R. Scrivano, Letture e Lettori. Appunti di critica letteraria, Metauro 2010.