Archive for the ‘Mario Girolamo Gullace’ Category

Mario Girolamo Gullace

28 gennaio 2018

 

Gullace foto

 

CARO DIARIO

fffffff…foglie esiliate da kappa, da theta, da tau;
c’è una sola consonante che sta girando le vie di questa
sera mentre la folla diminuisce ritornando persona.
metty caso che, girato lo spigolo di una mera ipotesi,
il pensiero diventi l’incontro dell’altro pensiero.
fffffff…si potrebbe fare una frase fatta di effe,
stasera. le strade si sono allargate in una sana solitudine
e si possono riempire di qualcosa d’altro. in alto,
sulle case gialle, le persiane, e i panni svincolati dalle
pinze, dispiegano le ali migrando su mondi appena nati.
fffffff…”caro diario oggi inizio a scriverti. se avverti
la pressione di una penna è la mia voglia di viverti
intensamente, di scalare le pareti timorose per
raggiungere l’eremo assoluto di quello saremo io e te.
il vento stacca mille foglie, ma ne basta una per sognare”.

 

D’OSSO DI TARTARUGA

il suo ventaglio di parole prensili immerse
nel bicchiere con l’orsetto lavatore; gli immensi
pomeriggi girando le tazzine tenute dalle orecchie
stilizzate, e i luoghi posticci raccontati e riportati
sul presente teatrino all’ora del caffè.
ventaglio di seta e d’osso di tartaruga con i colori
vanitosi del pavone e dal fulcro dorato.
bagaglio di cose messe alla rinfusa correndo sotto
terra con il rombo delle chiglie ferrose sopra tutto.
strati di lutto come le cipolle “…e non le dico
il disastro risalendo all’aperto, le fiamme sui tetti,
i morti sepolti dai muri crollati. il fumo disegnava
la Morte, come le nuvole le bestie mansuete. e poi
il podestà a testa in giù, e la fuga indecente del re”.
tutti i pomeriggi la tartaruga ci portava con sé.

 

SINCRONIE

il 18, per arrivare in corso Sebastopoli,
lo prendevamo in via xx settembre,
e Maratona iniziava a colmarsi
di sciarpe e di bandiere. per ultimo,
a uscire, era l’undiciclone di Paolino
Pulici nel boato sincrono di coriandoli
e tamburi.
non ho mai più visto un prato così verde
meraviglia, e la fossa dei leoni era la diastole
e la sistole del gregge dei pari inscritto
in un ovale.
per arrivare sul corso d’opera dei nostri
diciott’anni abbiamo intrapreso la via dei xx
contrapposti sulle discronie involutive.
delle sincronie estasianti c’erano le notti
lampeggianti delle lucciole, c’era il virare
simultaneo delle rondini e dei pesci azzurri,
c’era il passo cadenzato dei compagni.
ma, la sincronia del prato verde brillante con
il cielo notturno di San Giovanni, non l’ho
mai più vista. chissà dov’è caduta la bacchetta
di Von Karajan, e il tram chiamato desiderio
chissà quale numero ha. ah, dimenticavo
una cosa, tra le sincronie c’era anche, e ci
sarà sempre, la mano nella mano.

 

IL FALCO E LA LEPRE

sento, disse, dissolversi la tela in superfice del reale.
vedo il falco che artiglia il barlume rosso della lepre.
tocco qualcosa di buio, e mi ritraggo nell’astrazione.
il bestiario assomiglia all’affanno del predestinato
a un milione di cose troppo difficili;
la coscienza è la metropolitana degli angeli di marmo,
e se non comprendi quella è la porta.
vattene.
dopo lo schiaffo il bambino è volato sul letto perché
la volpe ha detto male della madre del falco.
un padre può uccidere i suoi figli?
un padre può fare quello che vuole o che dio gli impone
nei pressi di un rovo
certe sere tira i sassi contro le persiane chiuse perchè
siamo scesi in un sotto vuoto spinto al di là del mondo,
nel sacco del mendicante con il pane duro. se tira i sassi
è una casa senza campanello.
il bambino è planato sul morbido senza rompersi niente.
il falco era lo schiaffo e la lepre era la guancia rossa,
e poi vattene ha rotto un piatto e ha sbattuto la porta.

 

UN ALBERO CRESCE A BROOKLYN

di miseria e di stenti, in un punto dell’american dream
che la fortuna non segue. il gioco per imbrogliare la fame
è la spedizione al polo nord razionando ogni giorno i viveri.
il padre è un buon padre se non fosse del bere e del poco
lavoro, e la madre è più forte e rabbercia le entrate. Sissy
è la zia senza freni che solleva il morale e lo salta di netto.
Francie magrolina, emaciata, e il padre, cameriere cantante,
si accusa d’inetto. Neeley, un anno meno di Francie, metterà
i calzoni lunghi al funerale di Johnny, e di Johnny, Katie,
aspetta il suo terzo. lo chiamano l’albero del Paradiso perché
è l’unica pianta che germogli sul cemento e cresca
rigoglioso nei quartieri popolari. due centesimi di legna
a scaldare la casa razionando il calore poche ore la sera.
Francie e Neeley vincono un albero di Natale grande come
una quercia, e Katie rabbercia, rabbercia, rabbercia. prende
mille volte il nodo alla gola. è una storia che riscrive
l’epica in un salvadanaio coltivato togliendosi ogni giorno
una briciola di pane, un grado di calore, un grammo di riso.

LE SBARRE DELLA LUCE

la fortuna è un puntino di neve sciolto nel calore
del tuo sangue, e il credere alle cose è fatto del tenero
fiabesco nell’aspro risvegliarsi della voce soffocata.
nella città del sole c’è una casa con la corda della
Campanella da tirare, e la mappa del tesoro indica
il percorso da seguire per raggiungere la croce.
“tieni, prima di passare le sbarre, impara a memoria
questa carta. ci sono le indicazioni per arrivare a quello
che cerchi. ci sono gli esperimenti del cane di Pavlov
e delle oche di Lorentz; le api di Mandeville e la
guerra dei topi e delle rane di Leopardi. il materiale
lo trovi strada facendo, e sottraendo il peso delle mani
il tuo destino resterà a mezz’aria a galleggiare, un po’
grigio e un po’ celeste”. sono rimasto alla finestra fino a
tardi a veder passare le ombre dalle sbarre della luce.

Mario Girolamo Gullace

27 settembre 2017

m.g

LA LUCE SUI TRAMPOLI.

la voce, intensa, è una gola carsica, è l’aria riavuta
dalle grotte imbevuta di tufo. passa le labbra come
dalle fenditure della notte i sogni al risveglio.
le parole entrano non per via della ragione, entrano
dalle cicatrici del dolore sulla pelle. sono le visioni
di Nazim Hikmet, e di Federico Garcia Lorca, che
camminano su trampoli di farfalle e di costellazioni.
il piano delle onde sonore ruba i cristalli, e le lenti
dei grandi telescopi, per arricchire di emozioni
i ricettacoli degli occhi; i ricettatori delle preziose
refurtive fondono le immagini in anelli ricorsivi.
gli attori sono la danza delle gru e dei trampolieri,
sono frontalieri che portano le sete e i fuochi ancora
spenti. poi, dal blu scuro del fondale, vorticando,
esplode la galassia scintillante; il brivido si espande
dal batticuore ai battimani, e scrosciano lacrimanti
acque giù dagli scalini di Santa Maria della Scala.
il teatro è una sala all’aperto, e la piazza si svuota.
Siena dorme sui suoi fianchi, quelli stesi di schiena
guardano le luci danzare a scoprire l’aurora nei gufi.

*

IL DONO DEL BACIO.

la luce di luglio attraversava l’aria
incendiandola di calore.
quando entrò nella penombra
di quel tempio, vide i canestri delle offerte:
grano da farne un fascio morbido
per la guancia, da poggiarla sulla
notte; dolci datteri per addolcire gli occhi
della ninfa. non si ricorda cosa disse,
si ricorda una sensazione di vicinanza,
una frequenza del desiderio che sperò fosse
la stessa in ogni stanza. così, nella più alta,
dove i sacerdoti osservavano le stelle
zodiacali, seppe e imparò il nome
del leone; seppe e imparò le sue parole.
uscirono dal tempio, nello spiazzo dove poter
vedere e immaginare le loro nuove scoperte
terrene e, quando fu gennaio, vicino l’edicola
dei santi, il loro paio di labbra assaporò
il succo delle more pressato dall’amore.

*

LA NEVE SUI FILI.

il colle era al di là dei camini,
la sua curva morbida e folta dava
un bersaglio naturale allo sguardo.

la collera, a volte, arrivava in ritardo,
il piatto servito freddo colpiva a caso
a schiaffi calci e pugni, ma senza
bisogno di ospedale. bastava
lo scalino
sulla terrazza, seduti ad osservare
i rilievi brevi, a immaginare i sentieri
incisi dal ripetuto camminare.

la voglia di imparare a farsi i lacci
era per distaccare la testa del serpente,
la fibbia e la cintura era un sibilo
subito rannicchiati in un angolo
acuto del dolore, senza anestesia.

bastava far ruotare due castagne
nel palmo della mano e dirigere la penna
a far segno di qualcosa, qualcosa
che accennava a sgusciare dallo
sterno. il respiro dell’inverno
si appoggiava alla ringhiera e sui fili
senza panni,

e la voglia di imparare
la neve era di essere capaci a cadere
e stare in piedi. il colle era al di là
dei cammini già fatti, gli altri
erano tutti bersagli mobili da capire,
e fallire era più facile che riuscire.

bisognava imparare a stare in piedi

senza affanni, in bilico,
come la neve sui fili distesi.

*

UNA SOLA CHIAVE.

il guardiano della cella lascia cadere
i denti consumati della libertà. l’antico
ospite non flette più la schiena e le mani
le appoggia sul pomello di un bastone.

la grata, su cui pone le torri e gli alfieri,
al tramonto scivola sul muro. certe sere
tira di piatto il pensiero di un rimpianto,
e lo guarda rimbalzare sull’impassibile

orizzonte. poi, la notte, gli cade addosso
ostruendo le cavità dell’aria, impossibile
levarsi il sorriso triste che si riflette nel
suo vecchio sogno: annodare le lenzuola

per l’evasione del corpo sulla terra e per
il respiro un ascensore. la guardia arriva
presto quel mattino, l’ospite ora serra nei
denti la muta rilassata pelle di un sorriso.

*

CAPIRE.

sul cartellino del disprezzo c’era scritto sei milioni
e, tra i banchi ambulanti della nebbia, si sentivano
stridere i talloni di ferro.
mi alzo all’ora dei minatori che si portano in gabbia
il cardellino, il grisù gli piega la nuca come a Gesù.
è l’ora del naufragio sulle coste della costernazione,
e si capisce da lontano che quella volpe sta cercando
un condotto d’aria buona.
C. insiste a dire che tutto può essere compreso, e io,
dopo aver combattuto per trenta pagine, ho sbattuto
la porta in faccia a Hegel.
la signora Amanda s’è iscritta a corsi serali di logica
matematica, che poi la introdurrà nel codice binario
della cibernetica.
Benedetto dice che le cose difficili maturano sinapsi
e Psiche ne trae un giovamento in coppia con Amore.
la struttura invisibile della grammatica si sostituisce
al pianto del bambino e al grido di terrore dell’ebreo.
se l’ingranaggio è in regola avrai il salvacondotto,
da bambino capirai il linguaggio, il linciaggio non si
potrà capire mai.

*

VITE CHE NON SONO LE NOSTRE.

cadere nel sonno, insieme ai delfini che tornano a casa,
e mettere il segno di dove si arriva. Irina ha lanciato
il suo cuore a decine e decine di metri al di là del motore,
e adesso tocca a Emmanuel Carrère. mi trascina con sé
su versanti vissuti davvero; sdraiato nel letto, variando
le pose, mi fa correre il sangue alla testa di bande stonate
su tratti introversi e strade bordate di boschi. dagli occhi
tracima la linfa dell’olmo, e il vuoto è una piena di stelle
e Nirvana. le vite che non sono le nostre ci attraversano
dentro e ci issano a bordo, ci fissano al cavo e ci tirano su.
Irina torna a casa, la portano a spalle, la spina e le coste
sono rotte nel tronco, la faccia un budino sformato. nel
correre forte è passata a uno schianto di luce celeste nel
quale ci ha pianto qualcuno, ma era soltanto uno spicchio.
adesso è il paese che torna, è lo specchio riflessa bambina
con il viso lavato di fresco. vite che non sono le nostre e
strenuamente difese, e se un attimo solo si sta disattenti…
Irina ritorna in Ucraina non per geni impazziti, o per onde
tsunami che racconta Carrère, torna per un segno caduto
dal libro più avanti del libro, per la vita soltanto prestata.

*

UNA VOLTA

al giorno alla luce succede il buio
e gli occhi interrompono le ordinate
sequenze; una volta al giorno viene
a trovarci una commiserazione che
neanche la coda affettuosa del cane
serve a mandarla via.
una volta c’era
la giusta età per fare, da soli, almeno
la metà di noi, e c’era l’energia per
trovare il resto che mancava.
si stava
con la fronte alta e la schiena dritta
e si guardava avanti; bagnato il dito
di saliva si sentiva la direzione dell’
aria che tirava e si metteva mano al
mondo. una volta c’era
un mondo di
cose da fare e non c’era tanto tempo
da passare ore e ore a guardarlo, che
si allontanava.

*

PRIMA PERSONA PLURALE.

a pranzo digiuno, per cena qualcosa;
ma non ci siamo, ancora non ci siamo,
manca il primo elemento elevato alla
seconda portata del tu.

tra l’assenza, e
la mancanza, la speranza è l’intermedia
lacuna che precetta il pilota per andare
da sé.

l’assenza è di poco, la mancanza
è giammai, e nell’arbitrio di un suicidio
dio non c’entra nulla: come in tutto ciò
che esiste si assiste ad una paralisi della
norma,

prende forma una versione lesa
della prima scena di noi stessi e stiamo
abrasi, in un angolino misterioso della
nostra sostanza, a vederci assenti.

si ama
stare soli eclissati fino al nodo alla gola
che si chiama angoscia, e allora troviamo
l’uscita, oppure l’uscita si ingozza di noi.

*

RISTORANTE SONNO.

Il dottor Anerdi era un cappello incollato in testa e un cappotto col bavero rialzato. A casa non veniva volentieri, e molto spesso, al telefono, faceva dire che non era in ambulatorio. Il dottor Anerdi era un cane, e bisognava ricorrere all’accalappiacani perché venisse a domicilio.
Dal ristorante sonno succedeva che mi buttavano fuori molto prima dell’alba; mi facevano pagare il conto dei coperti significati, aprivano la porta sulla notte ancora fonda, e via, andare, camminare, cercando di sbrogliare la matassa ingarbugliata del filo spinato intorno alla vita.
Madrina diceva: questo bambino è troppo pallido, e qualche volta mia madre faceva ruotare sulla testa un piatto d’acqua con delle gocce d’olio. Malocchio; o un demiurgo che remava contro; o qualcosa che tramava tranelli; o del cibo difficile da digerire; o una questione da chirurgo spirituale.
Il dottor Anerdi era la fretta in persona; col cappello di feltro calcato sopra gli occhi, e il cappotto Facis abbottonato fino al collo, estraeva dalla sua borsa l’attrezzo per vedere se la gola era infiammata, oppure quello per sentire se il cuore correva impazzito.
Poi, ho capito qualcosa, e adesso, nel ristorante sonno, osservo l’angolo più appartato. Un cameriere ha servito della frutta secca e una natura morta adagiata su una tela di pantaloni sdruciti.
In quell’angolo ci sono tutti i volti con i loro nomi; ci sono tutti quelli conosciuti in vita e immaginati nel loro intimo di madreperla; ci sono tutti i dottori, anche lo svogliato Anerdi, in un consulto sulla causa prima di tutte le cose. Ma, sopra tutti, c’è l’uomo del banco dei pegni sopravvissuto al campo, quel campo dove invece sono rimasti il figlio, la moglie e, quei due genitori, che l’hanno generato, e che furono sempre generosi di affettuoso silenzio.
In quell’angolo c’è l’uomo del banco dei pegni; lo osservo mentre sta facendo il numero che si porta sul braccio; e mentre sta parlando qualcuno va da lui a impegnare dell’oro. L’uomo del banco dei pegni, a questo punto, chiude gli occhi sui suoi ricordi più preziosi; chiude gli occhi che rimbombano nella solitudine delle sue orbite.
Intanto, mia madre, sta ruotando ancora il piatto d’acqua con le gocce d’olio, bisbigliando quelle parole che non capisco. È per questo che dal ristorante sonno esco fuori prima dell’alba: per sentire tutti i bisbigli che entrano dalla finestra aperta. E non c’è nulla da capire, le emozioni, come le preghiere, bisogna solo sentirle.

*

PAROLE.

lasciale uscire, levarsi loro in piedi e dire
guanciale, provando il viso sopra un pane
cotto bene e sentire il molle impasto coeso.
lasciale calamitarsi insieme contro calamità
presenti e future; lasciale pure slegarsi dai
nodi scorsoi di re reprimenti. lasciale pure,
senza alcun artefatto troppo elitante da quel
senso comune che non sarà colto ma inteso.
lasciale dormire ad occhi aperti, e venire tra
noi in silenzio, su tratti di penne e di libertà.
lasciale crescere a stare in piedi da sole, poi
ti insegnano la bici, e le dici con parole tue.
Gullace Girolamo Mario nato il 21 agosto del ’63 a Torino, risiedo e lavoro, come operaio, a Venaria Reale (To). Libri pubblicati: “La ragazza e il quadrifoglio” (editore Libroitaliano World) “Per gioco e per amore” (libro + video – editore Ismeca) e, sempre per Ismeca “Solo per amore”.
Alcune mie poesie sono state pubblicate sui blog Neobar, Poetarum Silva e Il giardino dei poeti.

Mario Girolamo Gullace

29 Maggio 2017

                                                  

                                                   

IL MOTO DELL’AQUILONE.

il rombo del motore esce dall’apertura delle valvole,
e mentre si avvicina comprime le onde del suono.
dopo averci superato prende la curva ad angolo
acuto, e con il pedalino tocca quasi terra.
il colore della piega è brillante acciaio che si accende
di scintille. la potenza dei cavalli è assorbita
dal marciapiede alto e, nella pendenza, si forma
una pozza rossa ancora palpitante.
adesso tiene l’aquilone dal suo filo di corrente,
lo vede fare capriole e giravolte, come un trapezista
senza rete. adesso prova sete, e l’immagine si sbianca,
il respiro rallenta sul versante che sale più scosceso.
l’incandescenza del motore si disperde dalle alette,
e la coscienza si dimette a poco a poco. il cuore
è il paragrafo di una storia che si sta per distaccare.
ma, soprattutto, le alette bollenti del motore, quel
ticchettio di un orologio che segna addio. l’aquilone,
è l’ultimo moto dell’anima, prima della posa dei venti.

 

 

AUTOSUGGESTIONE.

si viaggia alla velocità del delirio
sotto controllo; è una mille e cento birra
e gazzosa in technicolor grande schermo.
occasione di seconda mano su “Seconda Mano”:
Chevrolet 5 porte, col bagagliaio da un migliaio
di pagine scritte fitte fitte con anestesia;
con il pieno si colma tutta la distanza tra sè e sè
senza aver bisogno di nessun benzinaio.
i paraurti, davanti e dietro, tengono così bene,
che si può anche giocare all’auto scontro scevro
d’anni passati in quarantena. si parte in seconda,
la prima esperienza traumatica è stata abolita
dal quadro comandi. l’autosuggestione è una
quattro tempi cuore a scoppio esuberante;
quando si viaggia sulla capotta si prova
l’esaltante sensazione d’essere preda
di una bestiale leggerezza mentale.

 

 

OCCHI DI LEPRE.

L’erica e l’agrifoglio rosso ruggine; gli invasati aromi da cucina sul balcone al primo piano: basilico, rosmarino, prezzemolo, menta. E ancora il bosso, la mortella, la ginestra e la testarda gramigna (è proprio una lepre), e poi lo zafferano e lo zenzero (ha gli occhi più grandi del cosmo) altre essenze chimiche utili nei cibi. I fiori, invece, quelli raccolti tanti anni fa e messi a seccare nelle pagine di un libro (sta lì immobile mimetizzata allo sfondo) forse sono futili presenze nel mezzo di una storia. (ha sentito la primavera ed è uscita fuori all’aria aperta). Il croco, la genziana, il gelsomino, l’elleboro e il fiordaliso (ti guarda dal suo campo visivo) senza più la linfa (aspetta che ti muovi per contrarre i muscoli e tendere i tendini) che saliva lo stelo per inumidire i colori (è proprio della lepre far così) della sua anima vegetale (è una molla pronta allo scatto). Della fotosintesi clorofilliana non resta che un alone sulla carta (basta il fotogramma di un lievissimo movimento e scappa via nell’imbuto profondissimo dei suoi occhi) e il fruscio dell’aria attraverso le porte della percezione.

 

 

LA SCALA ROTTA.

Intanto che legge in sottofondo scorrono le note di un quartetto da camera.
L’immagine che improvvisamente apre la serratura del suo romitaggio è come l’interferenza di una stazione radio, una frequenza d’onde che increspa il presente con un passato che non è mai passato.
I gesti effemminati di P. che, nella sua assoluta innocenza gioca a far la sposa: si mette sulle spalle il nylon degli scatoloni della frutta imitando lo strascico.
Ad innocenza persa P. sparisce nel suo labirinto senza uscita. Il giorno che riappare è insieme alla donna con i veli neri e gli occhi di bragia.
Si alza dalla sedia per andare a vedere cosa c’è di fuori, quello che gloglotta dentro viene su dal buco con la scala rotta: lacrime mescolate al muco.
Fuori è come dentro: piove, ed ogni goccia cade col tintinnio segreto delle monetine nel pozzo dei desideri.
I desideri stanno lì nel fondo a prendere la ruggine, per salire su bisognerebbe riparare la scala, o imparare a scalare le montagne dove manca l’aria.
P. per lui è stato solo quei due momenti nettamente separati di esserci e non esserci.
La voglia di leggere gli è passata, e adesso ascolta la musica del quartetto da camera. La viola è appena nata e sta sul gambo gracile nel prato; se ne violino l’innocenza, o la lascino crescere liberamente, dipende dal contrappasso di mille fattori, interni ed esterni. Il violoncello ha le corde vocali tra violino e contrabbasso, e dovrà capire da grande cosa vuole fare.
Ora non piove più. Nel fondo del pozzo, qualche desiderio si è scrostato di dosso il circolo vizioso del non posso, e ha messo le ali al posto delle scapole; c’è un radioso P. che passeggia mano nella mano col suo spirito risorto, dallo strascico scintillano i suoi giorni interrotti e mai vissuti.

 

 

ARGENTINA.

Se ne sta sotto l’intrico che genera il fresco dell’ombra, a osservare quel punto famigliare ingrandirsi e arrancare col fiato alle gambe. Gli porta la paglia del vino e il fagotto di pane e di olive.
Si dice salario; lavoro a giornata; sbarcare il lunario. Il cibo, prima, si benedice sempre, e poi si mastica piano, e si mastica piano: il primo coi denti, l’altro si pensa un giro di vite sulla serie infinita di stenti. Girolamo mastica piano, e pensa l’America. L’America non è: hai trovato l’America; per l’America ci vuole due cose: i soldi per partire, e la voglia dei calli sulle mani per tornare coi soldi. Girolamo la prima cosa gli viene data con fatica, la seconda se la deve far venire. Questo è mio nonno: se ne sta sotto quell’ombra a poltrire, e guarda ingrandire il fagotto, piuttosto che il figlio; a ingrandire, il figlio, ci pensa da sé.
Si dice investimento rischioso; soldi di sicuro buttati; tempo perso: questo è mio nonno Girolamo che parte per l’America Argentina: un buco nero di qualche anno, finchè non arriva il telegramma, o la lettera, “speditemi i soldi per tornare al paese”.
Tornato al paese, “l’Americano”, si aggiunge alla lunga lista dei nomi soverchiati dai soprannomi: “tricculi”, “minasiu”, “u pistulu”, “a liscia”, “u mancinu”, “cicchina”, “eccetera”, ecc. ecc.
Si dice pelandrone; senza padrone; vagabondo. Se ne sta sotto quell’ombra a ragionare (senza esagerare, è sempre un lavoro) sull’altra parte del mondo da andare a trovare come sbatterci il muso per caso.
L’Argentina è stata nel frattempo che mia nonna Caruso se la cavava con i suoi carusi Michele, Vincenzo e Giuseppe che, per fortuna, hanno preso da lei il modo d’essere ape e formica.
“mommo raccontateci l’America e la sfortuna che avete fatto”; “ehhh, l’America, l’America, che vi devo dire, è andata così. “mommo raccontateci l’Argentina e come vi siete rovinato”, “ehhh, l’Argentina, l’Argentina, che vi devo dire: era così grande che non si vedeva la fine del giorno; e neanche un albero da starci sotto l’ombra; e una polvere di vacche che si appiccicava al sudore della fronte anche a fare niente;
e le sere di baracche di lamiere; e qualcuno che ballava il tango nei locali malfamati; e le donne, non vi dico, ma qualcuno per loro si sbudellava; e poi, quel mattino, ho deciso che non era cosa, e mi sono fatto scrivere le due righe che sapete. Ehhh, è andata così l’Argentina”.
Mia nonna ascoltava senza dire una parola, ma lo sguardo era storto come i fulmini.

 

 

 

Mario Girolamo Gullace
nato a Torino il 21 agosto del ’63; residente a Venaria Reale e dipendente (operaio) di una partecipata con sede e attività nella stessa cittadina di residenza.
Libri pubblicati dalla casa editrice Ismeca: “Solo per amore” e “Per gioco e per amore” videolibro; per l’editore Libroitaliano World “La ragazza e il quadrifoglio”. Libricini che si perdono nella notte dei tempi e, credo, assolutamente irreperibili.
Più di recente sono state inserite mie poesie sui blog Neobar e Poetarum Silva.