Avere dentro di sè un corpo di scrittura
Michele Caccamo è uno che ha provato il deliquio della parola, quello stato di grazia intermittente che è solo dei poeti, e in specie dei poeti visionari e metafisici come lui, che hanno una “malinconia rarefatta” e una loro “musica nascosta”, come osserva Raffaele La Capria nella prefazione a “La stessa vertigine,la stessa bocca”, Manni, Lecce, 2007.
Si tratta di un poeta che cerca striature di luce e di libertà, che ha una spinta costante a donarsi, una tensione e un linguaggio talora corrusco, violento, magmatico, potente, incisivo, che lascia il segno: “E potrò salire al sole/ – con il fuoco tra i denti -/ e un faro d’oro tra le dita/ e stare eterno”
Bisogna provare che cosa significhi avere dentro di sé un corpo di scrittura e la sofferenza, il dolore , la morte come “paesaggio” esistenziale; bisogna provare quella profondità di certi strati della carne, quel costante esercizio d’astrazione della geometria delle sofferenze, fisiche e spirituali, quella tensione verso l’esattezza, lo spaventoso, l’inconcepibile, il vuoto infinito, la dannazione, la morte che tutto annulla, per comprendere questo poeta calabrese, che ha frequenti contatti con il Salento, (che una volta, guarda caso, era chiamato “Calabria”) e con gli dei che un tempo lo abitavano, per evidenti affinità elettive.
Ma Caccamo è “anche” un poeta dei nostri tempi, un cristiano inquieto e problematico che costruisce immagini di cristallo seduto su un vulcano fosforico, un vulcano che somiglia tanto al Monte Calvo di Gerusalemme, al Golgota, dove sta ancora e sempre in croce quel povero Cristo, lì appeso, inchiodato, come l’ultimo volgare degli assassini, deriso, sputacchiato, spernacchiato, sconfitto. E lui, il poeta, come dice Borges, “deve essere la croce e i chiodi”, la lancia, il sangue e il cielo che s’oscura; deve essere il testimone (e il complice), l’uomo che guarda tutte le cose e deve giustificarle; l’uomo ferito, incredulo, disperato, che piange un dio che muore e non crede alla rinascita, alla salvezza: “E’ insensata la salvezza/ Non sento l’urto di nessuna sepoltura/…Ci fosse la salvezza/ fosse con noi/ nel nostro sangue/ ci farebbe rinvenire/ e per Dio pregheremmo”
Fatti che popolano lo spazio e che toccano il cuore dell’uomo per sempre, fatti che meravigliano e continuano a meravigliarci ogni giorno, come il numero infinito di cose di cui ogni giorno si nutre il poeta e che vanno a finire nell’imbuto senza fine della memoria dell’universo, insieme alle galassie e ai buchi neri.
La morte, dice Caccamo, ci bracca, ci sta sempre addosso, alle spalle, o davanti, la morte come “vizio assurdo” pavesiano, la morte bergmaniana che ti sfida all’ultima partita a scacchi, ma prima e dopo la morte, ci sta quel Crocifisso che non ti puoi togliere dalla mente e dal cuore, “Quello era l’unico uomo veramente buono mai esistito sulla terra”, dice Dostoevskij, che ci propose il Cristo “Idiota” , il Cristo ancora oggi “Sconosciuto “, il Cristo Mistero Irrisolto, che fa dire al dubbioso poeta: “La sindone è una morte solo umana/la deportazione di un lino/ una disgrazia senza profeta/un tranello ecclesiale/La morte è già regno/deposizione e dimora/capanna croce e spavalda lastra/ un gradimento divino”.
Metamorfosi tutta luziana
In realtà, questa sua necessità di cogliere verticalmente, di scavare in profondità il senso dell’esistenza, questo suo cristianesimo interrogante, pessimistico, in-fedele, rimane comunque l’unica forma di speranza, l’ultimo possibile approdo, per dare un senso ad un viaggio, a una vita che altrimenti non avrebbe alcun significato. Un vita che spazia dal filo d’erba alla immensa sinfonia delle stelle e dei pianeti, ma allo stesso tempo continua a scavare nei pozzi più profondi, immisurabili, nei recessi più remoti dell’inconscio (…son qui venuto, avanzo / da tempi inconoscibili, ardo, attendo; / senza fine divengo quel che sono, / trovo riposo in questa luce vuota”), in una fusione di pensiero e immagini in cui la frequente oscurità, il gioco delle sinestesie metaforiche sono anche cifra stilistica e caratteristica peculiare: “lavami la bocca con acqua di riso/e coprimi il torace/ stanotte mi addormenterò/ senza pensare all’ossigeno/ e stanotte ho paura/ come deponessi l’anima”
“Da far mancare il respiro” , scrive Silvia Cuomo . Ed è vero. Dà l’idea di un corpo e di un’anima sommersa, che ti vengono incontro dal passato, o dal futuro di un’anima nascosta “nel corpo oscuro della metamorfosi” tutta luziana.
Il sentimento del vuoto e del naufragio
Caccamo è uno che vive lo sradicamento, lo spaesamento, lo spossessamento fisico e spirituale dell’uomo di oggi, la “liquidazione” di tutti i valori tradizionali (famiglia, scuola, patria, onore, ecc.) delle civiltà occidentali …”Il mondo sprofonda nel suo caos originario le cose risaltano di nuovo con quella terribile libertà che possedevano quando non servivono a nessuno”. L’unica via di fuga è la letteratura, la poesia. Ma bisogna farsi corpo di scrittura, bisogna saper usare le parole in modo diverso, come terapia dell’anima, per ridare un senso al fare poesia, durante la nostra abituale navigazione nei vari fiumi infernali di oggi non dissimili da quelli danteschi, lo Stige, il fiume delle lagrime dell’incontinenza, passaggio obbligato per arrivare alla città di Dite, e l’Acheronte, il fiume che segna l’ingresso nel regno dei morti, il limite che le anime di tutti i defunti devono varcare, inelusibilmente e irreversibilmente, sulla barca di Caronte. Ma già in questa vita, dice Caccamo, siamo tutti su una barca di dannati , e non abbiamo altro porto che quello dell’inferno o del Nulla. La salvezza ci è preclusa da sempre, e non ci sarà Beatrice alcuna – atto incantato di una memoria che ama rievocare, trionfo della fantasia, figurazione d’amore – che ci salverà, perché “quest’acqua/piena di lacrime/quasi si muove/come fosse un pianeta /o una bomba che fa saltare le onde…”
Ed ecco che le parole di Caccamo si fanno lapilli che vanno verso l’alto, a ferire un cielo che precipita nel vuoto, con una tensione verso il nulla e l’infinito, che è attrattiva e repulsione al tempo stesso. Lui è uno che ha capito che lo spaventoso e l’inconcepibile che ci sovrastano non sono il vuoto infinito dello spazio, ma l’esistenza stessa, che è solitudine senza fine e senza meta: “è di vapore la notte/ è muta/ tutto si sottrae/ e mi lascia esistente /come fossi una luna /metafisica risorta…io qui mi piego/ e piango/ come l’unica vittima/ interamente chiuso / in questo vuoto/ ravvolto in quel cielo/ che invano guardo/ così senza altezza/ stretto al suolo/ agonizzante fino ai piedi/ come una traccia a terra“.
Ed ecco che questa poesia che cerca di innalzarsi, arrampicarsi come un’edera metafisica verso un qualcosa che non esiste, si fa via via sempre più consapevole del suo inevitabile naufragio, del buio totale, assoluto: “lo spessore della terra è il vero orrore/ tutto senza luce/ senza possibilità che rimbalzi il vento ma è simile a un prodigio questa successione/ questa carne espansa“.
Scisso in se stesso, senza ruolo, identità o dimora, nostalgico dell’impossibile, tutto gli pare luogo d’esilio, tutto si riflette, si miniaturizza nella miseria creaturale, e nell’attesa della morte, lucida gelida, nera e spietata (“si muore senza ti amo…/ e non si hanno carezze”). Ma dov’è più l’antica voce che apriva l’aria, che la scindeva e la squartava, che si insinuava nel suono dei mattini iniziali, nelle pieghe della luce?… Ecco, questo è il suo destino, far risuonare l’urto della luce afferrata, far diventare una superficie, il tragic glass, il ritmo, la misura dei luoghi, l’accento forte, l’ictus, il piede che batte la terra, il piede che diventa ritmo, il verso bianco gambizzato, l’immagine della claudicazione, la luce e il suono …far diventare il tutto voce di speranza, “una voce indivisa/una veglia/dove si produce l’anima…/dove la polvere nell’aria/ diventa fiamma/ e i morti appaiono/ e si vedono le colonne/ i semi delle stelle/ e per tutte le anime unite/ si spalanca la luna“.
La prigione del corpo, Rebora e l’anima.
Se il teatro – come disse Klossowski – è molto vicino alla chirurgia, la poesia può essere la medicina per salvare, guarire gli esseri umani… e questo fin dall’origine, fin dal principio quando il primo verso non fu altro che un grido di dolore miliardi di volte ripetuto nell’etere… Amici, -sembra voler dire Caccamo -, la poesia non è un’arte, è una necessità indistruttibile che inventa forme fino a che non coincidono più con la realtà, ma vanno oltre, sono altrove … la poesia distrugge l’idea, manda in frantumi le forme, o nasconde le forme, o eccede le forme. Enuncia la rivelazione in modo apocalittico di quanto accade ogni giorno senza mai essere cominciato , senza mai essere ripetuto: “portatemi una rosa/come un angelo sospeso/una rosa veggente che mi faccia felice”
La poesia è come il cane che lecca la lima, in realtà sta leccando il suo sangue ma gli piace più del dolore, e continua a dissanguarsi; è questo gioco di sangue e scrittura, questa mortale folgorazione fisica e psichica in cui la parola, la lingua, il discorso precipitano, e si manifestano in maniera sonora, una eco che viene da lontano, lontanissimo, un’eidola che si siede sulle nuvole… si chiude il cielo/ed è tutto contenuto/ come dentro a una noce…
Non voglio più vedere nulla, basta questa fine della luce, questa fine della visione, e poi questo farsi grattar via la pelle, questo scorticarsi, questo farsi strappar via la maschera e il volto. Ma forse non c’è nessun volto, sono tutte maschere, un’infinità di maschere composte di strati diversi della stessa maschera, in fondo farsi strappar via questa pelle questo volto è una sorta di sostituzione alla decapitazione più volte chiesta allusa richiesta. Ci sono diversi modi di morire, io vorrei morire finendo nel lago profondo, senza fondo, dei versi, dentro quel luogo astratto e assoluto in cui i tempi e i corpi mutano e si confondono i volti, in questa leggerezza disumana, questa disumana tensione, quella cifra di crudeltà che sta sempre nella verità gridata , in questo spazio profondo , in questo ordine-disordine, in questa assoluta incompletezza e perfezione, in questo solido e contraddittorio, compatto e impalpabile cifrario di parole che mi provoca indicibili emozioni, irripetibili e tragiche, come la lucentezza la levigatezza e l’asprezza del cristallo infranto.
“non dovevano le reni legarmi/come una seppia secca/ asfissiarmi sotto una croce anche se i nerbi/ mi hanno spezzato ogni vena/ anche se tutti i peccati/ preparati dalle streghe dagli eredi di Dio/ mi hanno battuto/ e io continuo a cadere / come il tempio delle mie parole“.
Qui Caccamo ricorda, per alcuni aspetti, il primo Rebora, quello che descrisse il crudo realismo della grande guerra, come pochi altri seppero fare (tra melma e sangue/ tronco senza gambe/ e il tuo lamento ancora,/ pietà di noi rimasti/ a rantolarci e non ha fine l’ora“) , quello che urta contro la prigione del corpo.
Forse anche lui è in attesa di una conversione che plachi il suo agitarsi dell’anima, rendendogli più vivibile quella prigione del nostro corpo che solo la morte, forse, potrà aprire. Ma forse, quel che conta, quel che potrà dare un senso alla nostra vita, è come si muore ( mi viene in mente la morte di Drogo nel “Deserto dei Tartari”) , la dignità con cui si affronta la morte. Ma, – ripete Caccamo – non illudiamoci : “si muore senza ti amo/ con gli occhi serrati da una spina /e si ha fiato sottile/ e non si hanno carezze chiuse in una fronte/ e non è nulla/ e si piega l’aria di uno straziante distacco“.
Roma, 25 marzo 2010 Augusto Benemeglio
*
è insensata la salvezza
perché è identico ogni morto
perché non trema la terra
non sente l’urto di nessuna sepoltura
è tutta carne immobile
senza furia
posata e ricoperta
ci fosse la salvezza
fosse con noi
nel nostro sangue
ribollirebbe
ci farebbe rinvenire
e per Dio pregheremmo
*
è di vapore la notte
è muta
tutto si sottrae
e mi lascia esistente
come fossi una luna
metafisica risorta
non so da quale parte è l’aria
in quale bocca
in che modo respiriamo
io qui mi piego
e piango
come l’unica vittima
interamente chiuso
in questo vuoto
ravvolto in quel cielo
che invano guardo
così senza altezza
stretto al suolo
agonizzante fino ai piedi
come una traccia a terra
*
non dovevano le reni legarmi
come una seppia secca
asfissiarmi sotto una croce
anche se i nerbi
mi hanno spezzato ogni vena
anche se tutti i peccati
preparati dalle streghe
dagli eredi di Dio
mi hanno battuto
e io continuo a cadere
come il tempio delle mie parole
e al pari della misericordia
e così ora questo sacrario pesante
queste spine plasmate
sono la mia professione di risorgente.
Io che avevo spalle ferrate
e vita metafisica
e una scorta di luce.
Mi ragionano gli uccelli sopravvissuti
che ora il cielo è una cisterna
ora che le mie ginocchia sono una vanga
e che sono fermo
orribile pallido senza paradiso
con le bolle dalle narici
molle come un uomo
Mamma tu reggimi il lino
la mia ultima patria
* inediti:
questo è l’esatto danno dell’opera
che siano misurate le nostre azioni
o a viceversa prove di miracoli
fanno sempre parte della terra
dell’inganno beato del male
e così anche dell’unico linguaggio
nelle schiere degli animali
e noi dovendo aspettare il ricalco
la fossa bianca della morte
o come finora ci è stato detto
la sintesi e l’offerta di Dio
noi siamo di quell’amore
che porta solo fiori d’acqua
radici di morfina
*
quel ferro non è un’imboccatura
o come dici un petto materno
ma una gabbia numerata
che lasci scendere
fuori dal resto del mondo
ne può far parte il dolore
o l’accordo all’abbandono
di una creatura diretta nel vuoto
è un occhio nel nulla
quello che poi uccide
come accade agli uomini
o agli esemplari minori
la rinuncia per via dell’amore
è una mente affamata
e pure un sacco per sé stessi
*
perdi ancora sangue
per come ci dicono immobile
mantenuto in una grazia nera
nel momento del declino
come fossi un cadavere regolare
chiuso in quel prospetto intoccabile
in quell’immagine di giovane morto
non fai molta differenza
con le altre cataste di croci
e per quanto siano sacre
la tua vittoria e la tua parte eletta
noi ti inchiodiamo in una trappola
tra due bastoni interi
per farti morire nel fuoco
spostarti nell’inferno
e chissà mai quando ti taglieremo
chissà mai nella sostanza
di ogni singolo capello
trovassimo la presenza dell’origine
la ragione di Dio
o quale altra innocenza
quale altro significato
ma è così che ti approviamo
per quella morte differente
che ancora fa paura
è così che ci offriamo devoti
al tuo impiego nei vangeli
al tuo dolore umano
alla tua paralisi
ai tuoi piedi alle tue mani
e non sapendo nulla della vita
alla tua risurrezione
*
al pari del mio corpo
muovi con lentezza le braccia
come fossi una lampada nell’aria
o ancora più in là l’origine
la luce che ci fa entrambi vivi
eccoti a rifarlo santa croce detergente
a chiamare la mia bocca intatta
a guardare i nostri stessi baci
e a momenti la nascita e la morte
eccoti con il petto brillante
che ci nascono a sette i cieli
come a una fanciulla di gioia
io non sposto la mia mano
e in effetti mi fermo
davanti alle tue ginocchia
come avessi ancora un desiderio
in qualche altro punto dell’intelletto
così ti lodo mio bellissimo amore
per la tua animalità di donna
come non sapessi comprendere altro
né davvero il tuo cuore
tu mi toccherai anche se la fronte
o non di meno le mani
senza che altro accada
con lo stesso movimento di un’armatura
*
Michele Caccamo pubblicazioni: 2003 “Incoronato come le rose” (testo teatrale)
2005 “La stessa vertigine, la stessa bocca” Manni Editori, prefazione di Raffaele La Capria (poesia)
2005 “Il segreto delle fragole” antologia, Lietocolle Editore (poesia)
2006 “Il pomo e la mela” (con Dona Amati) Lietocolle Editore, prefazioni di M. Zizzi e T. Cera Rosco (poesia)
2007 “Chi mi spazierà il mare” Editrice Zona, prefazione di Alda Merini, postfazione di Andrea Camilleri (poesia)
2009 Manual de instrucciones, Madrid (antologia) poesia
2010 Lovesickness – della mia infermità d’amore – Gradiva Publications New York, (poesia) prefazione di M. Grazia Calandrone.Edizione in: Inglese-Italiano
2010 Poesie in un linguaggio di Luce/ Poems in the language of Light/ قصائد بلغ (con Munir Mezyed) Edizioni Kolibris, (poesia) prefazioni di: Alaa Eddin Ramadan, Franz Krausphenaar.Edizione in: Italiano-Inglese- Arabo
2010 Calpestare l’oblio (antologia) poesia
2011 Terradimani (antologia) poesia
2012 Alakhar (antologia), Adonis. Voci dalla Poesia Italiana Contemporanea, – Siria
2013 Dalla sua bocca- riscritture da undici appunti inediti di Alda Merini- (con Maria Grazia Calandrone)
Tradotto in Spagna, Cile, Argentina, Stati Uniti, Medio Oriente e Sud Asia.
Augusto Benemeglio. Uno ” scriba” per vocazione, o dannazione, ma anche un curioso, innamorato della vita e dell’arte in ogni sua manifestazione: poesia, letteratura, teatro, musica, pittura, scultura, cinema, fotografia, architettura, che dopo aver fatto – per vivere – il marinaio, s’è messo in pensione per fare il regista di una compagnia scalcagnata prima di giovani senz’arte né parte, poi di vecchi incalliti sognatori, per raccontare storie incantevoli di vita innaturale. Armato della sua penna d’oro, -regalo di una monaca francescana-, continua a tutt’oggi a far scorrere – da una ferita sempre aperta – il sangue nero dell’inchiostro, che è divenuto ormai un fiume (trenta e passa libri di vario genere e oltre trecento articoli sulla Rivista Espresso Sud)… Tanto peggio per chi vi si immerge o rimane “imbrattato” dalle sue acque.
(La pagina citata, dedicata a Michele Caccamo, compare nel libro di Augusto Benemeglio “Ritratti” 2009 edizioni Terra d’ulivi Associazione culturale)