L’azzurro che bussa alle finestre
di Paolo Polvani
Collana Versante ripido
Il mistero, ma anche il fascino, che si nascondono dentro ogni libro di poesia consistono nell’essere consapevoli che l’autore ci viene incontro con le sue pagine, ci tende la mano che tiene il suo lavoro, e sembra dirci: “piacere di fare questo incontro con te, io sono ciò che tu scoprirai nel mio libro“, e poi soggiunge “… ma non sono solamente quello, per conoscermi meglio dovrai attendere anche il prossimo libro“.
Per me ogni volta succede così: ogni libro di poesia che mi cade sotto gli occhi mi racconta la storia del suo autore, la sua vita, le sue passioni e le sue delusioni o le amarezze, e questo di Polvani, dedicato all’azzurro, inteso non solo come colore ma più come sentimento, stato d’animo, mi ha mostrato un lato differente dell’autore che conoscevo come poeta di poesie civili, impegnate, socio-politiche, rivelando con questa raccolta un’altra sfaccettatura di sé, forse simile a quella che indusse anche il cantautore Paolo Conte a inserire nel corpo della sua canzone Azzurro questi versi “…quelle domeniche da solo/… neanche un prete per chiacchierar“.
Credo di poter essere quasi certo che Paolo non abbia avuto la nostalgia di un prete per fare due chiacchiere, però questo libro ci dice quali sono i temi che spesso attraversano la sua esistenza di uomo che vive e anche scrive poesie, e i temi sono diversi, spaziano dalla domanda su dove risieda la gioia, le ragioni della insoddisfazione di sé, la vigliaccheria per l’omissione di certe minime attenzioni al prossimo, l’angoscia della morte, la passione e l’attenzione verso l’altro sesso ed il coinvolgimento della fantasia che ogni avvenimento piacevole o di sofferenza comporta sempre.
Il tutto è raccontato senza pesantezza, e lo prova l’esordio con la prima poesia che ci viene presentata “Si chiama azzurro“, come se Polvani volesse trasmetterci la felicità di un giorno in cui la vita lo ha pervaso d’amore, di voglia di esistere, di passione, sentimenti che lo hanno indotto a scrivere: “ l’azzurro che inchioda i gabbiani /… assottiglia le vibrisse… / l’azzurro che lenisce… / l’azzurro che sfinisce /.
Ma se ci riflettiamo bene, questo colore non è forse quello fondamentale della pittura impressionista ?
Se partiamo da Pizarro, tocchiamo Sisley con i loro cieli primaverili ed approdiamo agli azzurri delle marine di Honfleur ritratte da Monet ci accorgiamo che questo colore rappresenta il trionfo della vitalità nella natura, e anche Polvani lo sottolinea quando scrive: “…la tracotanza dell’azzurro/al vento gonfio di capelli //; subito però appare un’ombra in questa poesia quasi per dar ragione a quanto scriveva allora Paoul Cezanne: “ mettete prima le ombre e poi il resto uscirà da solo“, ed infatti, prosegue Polvani: “...come si chiama questo sproloquio delle credenziali, /l’ affacciarsi di marzo e un mare di scompigli/ smania di vivere protesa sul bianco della pagina / sul nuovo alfabeto di fittissime foglie, come si chiama // questa ruvida insoddisfazione che ti offusca e ti / afferra, ti trascina allo specchio “//.
Noi che leggiamo non siamo ovviamente il prete che cercava Paolo Conte nella sua canzone, però ascoltiamo con affetto e quasi con la stessa attenzione di colui che raccoglie una confessione, la sua “smania di vivere“ e lo seguiamo in quel “trascinarsi allo specchio“ per cercare di capire come mai in un giorno così pieno di azzurro si faccia sentire nella sua (ma forse anche nostra) anima quella “ruvida insoddisfazione“, e perché egli scriva in altra poesia a pag. 13 “l’azzurro è un artiglio che non lascia scampo/ ti divora i sogni, è una minaccia e un lampo, /la tentazione di un azzardo, una pazzia /.
Il trionfo dell’azzurro nella poesia di Polvani non vuole essere un grido tipo euforico ma superficiale tipo “la Vispa Teresa“, e ,come certe marine di Monet non ci raccontano tutto di lui, ci basterà riflettere su un altro quadro in cui è pieno inverno innevato e appare, a fare contrasto con tutto quel bianco, un uccello nero poggiato su di una staccionata a destra nel quadro, per renderci conto che anche in una giornata splendida di azzurro si possono affacciare le domande di pag. 15:
“sai dove abita la gioia? Dove/ trova riparo? Dove fa la sua cuccia?/
e la risposta egli ce la dà nel verso successivo ove troviamo
“a chiunque tremerebbero le gambe/ quando accende la luce/ il tuo sorriso. Ci sono le voci/ e il passo lieve dei gatti, ci sono/ le antiche strade, le passate lacrime./ E’ un abbraccio nel quale riposare //.
Tuttavia, prima di andare a scoprire “dove abita la gioia“ per il nostro autore, mi piace camminare ancora un poco accanto a lui nell’itinerario che tocca, – com’è giusto che sia in una poesia non superficiale, – il problema che sta alla base di tante nostre domande, è cioè quello condensato nel titolo di un altro quadro famoso di Gauguin:
“D’où venons-nous? Que sommes-nous? Où allons-nous?“
Polvani non sfugge alle ombre necessarie ai quadri e pure alla vita, come diceva Cezanne, e infatti scrive versi angosciati per la celebrazione della morte della maestra Mariella:
…// adesso non è vero che riposi, l’assillo/ delle cartilagini ti affanna, le crepe/ nelle palpebre, lo sgomento delle unghie nel vedersi/ crescere nel vuoto, l’ansia improvvisa dei capelli,/ e il tormento, tutta quella solitudine che grida“
E’ raro poter leggere con tanta nitidezza, che fa pensare ad alcuni passi dei racconti di Edgar Allan Poe, l’angoscia che la morte suscita sempre in tutti, e lo si capisce meglio in questa poesia di pag. 34 dal titolo Magia, in cui egli augura alla persona deceduta
…”alzati/ dal letto, esci dall’ospedale, percorri a ritroso/ le stagioni, richiama il fumo dalla ciminiera, ricomponi/ ogni frammento d’osso, riprendi i tuoi vestiti, esci/ dalle fiamme e cammina dentro il mese di aprile/, muovi ancora i passi, allenati per i nuovi/ sorrisi, articola un piccolo discorso, sgranchisci/ la mandibola, prova a parlare, guardaci ancora/ una volta negli occhi, chiamaci per nome, cancella/ quella scritta: morta l’otto di aprile //
Non c’è nella poetica di Polvani alcuna speranza di riscatto ultraterreno di fronte alla morte, e i versi di Paradisiamoci qua lo dicono con chiarezza:
“Io non so lo e non lo sai tu come sarà, ma il tuo invito/ di rivederci in Paradiso cara io lo declino, bada non è/ un rifiuto, semmai un rinvio.“
e prosegue nella stessa poesia rievocando la concretezza della quotidianità di alcuni atti della vita :
“Ti ricordi che abbiamo mangiato un gelato al mascarpone?“
per domandarsi subito:
“pensi che potremo rifarlo in paradiso? Che potrò comprarti quelle sciarpette colorate?
L’agnosticismo dell’autore si conclude poi nella poesia dal titolo strano ma eloquente
“eurostar s’infila dentro una galleria e qualcuno s’interroga sull’esistenza di Dio“
ove leggiamo ”... e il fragore affonda tutti nel guscio tondo della galleria, nel fondo/ della marea nera, paura bru bru e tun tun e rimbalza/ sui binari il seguente assillo: esiste dio? Ma nessuno lo sa e ci viene/ da ridere e ci si chiede dove va questo treno immaginario? Va/ dove vanno tutti i treni immaginari: nella pancia di dio/ ma anche dio è immaginario e s’infila dentro una pancia immaginaria//
Sono versi che rimandano ad altri di Giorgio Caproni nella poesia “Congedo del viaggiatore cerimonioso“ sullo stesso tema, e quasi con la stessa ambientazione sopra di un treno in movimento, ove troviamo:
.../ ed anche a lei, sacerdote, /congedo, che mi ha chiesto se io /(scherzava) ho avuto in dote/ di creder al vero Dio /…
Se allora la visione del nostro autore è strettamente connessa e legata al “qui ed ora“, alla mancanza di una visione ultraterrena è lecito domandarsi da dove egli tragga la forza per sentirsi esaltato da tutto l’azzurro di cui abbiamo parlato poc’anzi, e quale sia l’aggancio che lo trattiene e lo lega in modo così vitale all’esistenza.
A me sembra di poter affermare che la risposta sia collocata nella corporeità del concreto, in modo speciale in quel concreto che è quasi sempre rappresentato dall’incontro con l’altro sesso, tangibile in molti versi di questo lavoro.
Ma non sempre questo aggancio con “l’altra metà della mela” si rivela appagante, e infatti egli scrive a pag. 8 di sentirsi:
“… incatenato/ alla chimera del possesso, all’idea che sia il sesso che ci salva/ e ci riscatta“,
ma contemporaneamente (invocando per sé stesso quel salto qualitativo nel sentimento che gli possa permettere di non “incespicare, barcollare, ed essere“ sgominato nell’orgoglio“):
chiude la poesia in questo modo
“… chiederò ai tuoi santi un consulto, una dritta/ per amarti davvero, per amarti di più, amarti oltre ogni sconfitta“.
E come ogni uomo che si scopra debole e fragile nei confronti delle promesse non rispettate, il nostro autore è capace di auto-da-fé, di promesse che si augura di poter rispettare, – anche contraddicendo quanto affermato in precedenza a proposito di un ipotetico paradiso – quando scrive a pag. 28: “guarda cara, per te io vincerò/ la legge gravitazionale, infrangerò/ la norma, perché già lo so,/ lo avverto, ne sono certo, continuerò/ ad amarti anche da quell’altro luogo,/ di cui non saprei indicarti valide/ e attendibili coordinate: un laggiù, un lassù, chissà, ma che sia per di là/ o per di qua non ha grande rilevanza,/ io so che il mio amore per te si espanderà/ come un oceano, dilagherà come una pioggia/ di fine ottobre//
Se di questo poeta sento di condividere la passione per la vita e per le sue creature, se lo leggo sempre con ammirazione e rispetto verso la sua capacità di far suo il dolore che spesso incontra nel cammino della vita, se ho stima per la sua intransigenza di intellettuale e per lo sdegno verso la faciloneria nella quale la stagione sociale in cui siamo immersi tutti sembra travolgerci, vorrei prendere congedo da questo suo lavoro trascrivendo per intero i versi di questa brevissima poesia che esprime la sofferenza per un dolore arrecato ad una donna, ma al tempo stesso nei due versi del finale lascia trapelare tutta la natura di chi è poeta che intuisce la contraddizione ed il dualismo tra ciò che egli vorrebbe essere e ciò che invece lo incatena alla sua indole di scrittore.
In cambio del tuo pianto :
-quanta disperazione si è data appuntamento e ora/
ti assilla e assedia e ti difende/
la convulsa grammatica del pianto./
E’ lì che ti raggiungo, dentro i singhiozzi./
Un pianto di donna che mi chiama a un lampo/
d’immaginazione, a un fervore fecondo.//
Quel “lampo d’immaginazione” e “quel fervore fecondo “ sono la condanna del poeta (ma non solo sua) alla disanima continua attorno a sé stesso, sugli altri e sul dolore che causa le lacrime in chi ci ama, ed egli, come le figure che popolano la poesia “le mie amiche sono felici ? “, può concludere:
Ridono così bene, e non ti negano parole di velluto.
Io non so se le mie amiche sono felici
Neppure io che scrivo lo so.
Luigi Paraboschi
18.1.2019