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Paolo Polvani

10 febbraio 2019

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L’azzurro che bussa alle finestre
di Paolo Polvani
Collana Versante ripido

 

 

 

 

 

 

Il mistero, ma anche il fascino, che si nascondono dentro ogni libro di poesia consistono nell’essere consapevoli che l’autore ci viene incontro con le sue pagine, ci tende la mano che tiene il suo lavoro, e sembra dirci: “piacere di fare questo incontro con te, io sono  ciò che tu scoprirai nel mio libro“, e poi soggiunge “… ma non sono solamente quello, per conoscermi meglio dovrai attendere anche il prossimo libro“.

 

Per me ogni volta succede così: ogni libro di poesia che mi cade sotto gli occhi mi racconta la storia del suo autore, la sua vita, le sue passioni e le sue delusioni o le amarezze, e questo di Polvani, dedicato all’azzurro, inteso non solo come colore ma  più come sentimento, stato d’animo, mi ha mostrato un lato differente dell’autore che conoscevo come poeta  di poesie civili, impegnate, socio-politiche, rivelando con questa raccolta un’altra sfaccettatura di sé, forse simile a quella che indusse anche il cantautore Paolo Conte a inserire nel corpo della sua canzone Azzurro questi versi “…quelle domeniche da solo/… neanche un prete per chiacchierar“.

 

Credo di poter essere quasi certo che Paolo non abbia avuto la nostalgia di un prete per fare due chiacchiere, però questo libro  ci dice quali sono i temi che spesso attraversano la sua esistenza di uomo che vive e anche scrive poesie, e i temi sono diversi, spaziano dalla domanda su dove risieda la gioia, le ragioni della insoddisfazione di sé, la vigliaccheria per l’omissione di certe minime attenzioni al prossimo, l’angoscia della morte, la passione e l’attenzione verso l’altro sesso ed il coinvolgimento della fantasia che ogni avvenimento piacevole o di sofferenza comporta sempre.

 

Il tutto è raccontato senza pesantezza, e lo prova l’esordio con la prima poesia che ci viene presentata Si chiama azzurro“, come se Polvani volesse trasmetterci la  felicità di un giorno in cui la vita lo ha pervaso d’amore, di voglia di esistere, di passione, sentimenti che lo hanno indotto a scrivere: “ l’azzurro che inchioda i gabbiani /… assottiglia le vibrisse… / l’azzurro che lenisce… / l’azzurro che sfinisce /.

 

Ma se ci riflettiamo bene, questo colore non è forse quello  fondamentale della pittura impressionista ?

Se partiamo da Pizarro, tocchiamo Sisley  con i loro cieli primaverili ed approdiamo agli azzurri delle  marine di Honfleur ritratte da Monet ci accorgiamo che questo colore rappresenta il trionfo della vitalità nella natura, e anche Polvani lo sottolinea quando scrive: “…la tracotanza dell’azzurro/al vento gonfio di capelli //; subito però  appare un’ombra in questa poesia quasi per dar ragione a quanto scriveva allora Paoul Cezanne: “ mettete prima le ombre e poi il resto uscirà da solo“, ed infatti, prosegue Polvani: “...come si chiama questo sproloquio delle credenziali,  /l’ affacciarsi di marzo e un mare di scompigli/ smania di vivere protesa sul bianco della pagina / sul nuovo alfabeto di fittissime foglie, come si chiama // questa ruvida insoddisfazione che ti offusca e ti / afferra, ti trascina allo specchio “//.

 

Noi  che leggiamo non siamo ovviamente il prete che cercava Paolo Conte nella sua canzone, però ascoltiamo con affetto e quasi con la stessa attenzione di colui che raccoglie una confessione, la sua “smania di vivere“ e lo seguiamo in quel “trascinarsi allo specchio“ per cercare di capire come mai in un giorno così pieno di azzurro si faccia sentire nella sua (ma forse anche nostra) anima quella “ruvida insoddisfazione“, e perché  egli scriva in altra poesia a pag. 13  “l’azzurro è un artiglio che non lascia scampo/ ti divora i sogni, è una minaccia e un lampo, /la tentazione di un azzardo, una pazzia /.

 

Il trionfo dell’azzurro nella poesia di Polvani non vuole essere un grido tipo euforico ma superficiale tipo  “la Vispa Teresa“,  e ,come certe marine di Monet non ci raccontano tutto di lui, ci basterà riflettere su un altro quadro in cui è pieno inverno innevato e appare, a fare contrasto con tutto quel bianco, un uccello nero poggiato su di una staccionata a destra nel  quadro, per renderci conto che anche in una giornata splendida di azzurro si possono  affacciare le domande di pag. 15:

 

“sai dove abita la gioia? Dove/ trova riparo? Dove fa la sua cuccia?/

 

e la risposta egli  ce la dà nel verso successivo ove troviamo

 

“a chiunque tremerebbero le gambe/ quando accende la luce/ il tuo sorriso. Ci sono le voci/ e il passo lieve dei gatti, ci sono/ le antiche strade, le passate lacrime./ E’ un abbraccio nel quale riposare //.

 

Tuttavia, prima di andare a scoprire “dove abita la gioia“ per il nostro autore, mi piace camminare ancora un poco accanto a lui nell’itinerario che tocca, – com’è giusto che sia in una poesia non superficiale, – il problema che sta alla base di tante nostre domande, è cioè quello condensato nel  titolo di un altro quadro famoso di Gauguin:

“D’où venons-nous? Que sommes-nous? Où allons-nous?“

 

Polvani non sfugge alle ombre necessarie ai quadri e pure alla vita, come diceva Cezanne, e infatti scrive versi angosciati per la celebrazione della morte della maestra Mariella:

 

…// adesso non è vero che riposi, l’assillo/ delle cartilagini ti affanna, le crepe/ nelle palpebre, lo sgomento delle unghie nel vedersi/ crescere nel vuoto, l’ansia improvvisa dei capelli,/ e il tormento, tutta quella solitudine che grida“

 

E’ raro poter leggere con tanta nitidezza, che fa pensare ad alcuni passi dei  racconti di Edgar Allan Poe, l’angoscia che la morte suscita sempre in tutti, e lo si capisce meglio in questa poesia di pag. 34 dal titolo Magia, in cui egli augura alla persona deceduta

 

…”alzati/ dal letto, esci dall’ospedale, percorri a ritroso/ le stagioni, richiama il fumo dalla ciminiera, ricomponi/ ogni frammento d’osso, riprendi i tuoi vestiti, esci/ dalle fiamme e cammina dentro il mese di aprile/, muovi ancora  i passi, allenati per i nuovi/ sorrisi, articola un piccolo discorso, sgranchisci/ la mandibola, prova a parlare, guardaci ancora/ una volta negli occhi, chiamaci per nome, cancella/ quella scritta: morta l’otto di aprile //

 

Non c’è nella poetica di Polvani alcuna speranza di riscatto ultraterreno di fronte alla morte, e i versi di Paradisiamoci qua  lo dicono con chiarezza:

 

“Io non so lo e non lo sai tu come sarà, ma il tuo invito/ di rivederci in Paradiso cara io lo declino, bada non è/ un rifiuto, semmai un rinvio.“

 

e prosegue nella stessa poesia rievocando la concretezza della quotidianità di alcuni atti della vita :

Ti ricordi che abbiamo mangiato un gelato al mascarpone?“

per  domandarsi  subito:

pensi che potremo rifarlo in paradiso? Che potrò comprarti quelle sciarpette colorate?

 

L’agnosticismo dell’autore si conclude poi nella poesia dal titolo strano ma eloquente

eurostar s’infila dentro una galleria e qualcuno s’interroga sull’esistenza di Dio“

ove leggiamo ”... e il fragore affonda tutti nel guscio tondo della galleria, nel fondo/ della marea nera, paura bru bru e tun tun e rimbalza/ sui binari il seguente assillo: esiste dio? Ma nessuno lo sa e ci viene/ da ridere e ci si chiede dove va questo treno immaginario? Va/ dove vanno tutti i treni immaginari: nella pancia di dio/ ma anche dio è immaginario e s’infila dentro una pancia immaginaria//

 

Sono versi che rimandano ad altri di Giorgio Caproni  nella poesia “Congedo del viaggiatore cerimonioso“ sullo stesso tema, e quasi con la stessa ambientazione sopra di un treno in movimento, ove troviamo:

.../ ed anche a lei, sacerdote, /congedo, che mi ha chiesto se io /(scherzava) ho avuto in dote/ di creder al vero Dio /…

 

 

Se allora la visione del nostro autore è strettamente connessa e legata al “qui ed ora“, alla mancanza di una visione ultraterrena è lecito domandarsi da dove egli tragga la forza per sentirsi esaltato da tutto l’azzurro di cui abbiamo parlato poc’anzi, e quale sia l’aggancio che lo trattiene e lo lega in modo così vitale all’esistenza.

A me sembra di poter affermare che  la risposta sia collocata nella corporeità del concreto, in modo speciale  in quel concreto che è quasi sempre rappresentato dall’incontro con l’altro sesso,  tangibile in molti versi di questo lavoro.

Ma non sempre questo aggancio con “l’altra metà della mela” si rivela appagante, e infatti egli scrive a pag. 8 di sentirsi:

“… incatenato/ alla chimera del possesso, all’idea che sia il sesso che ci salva/ e ci riscatta“,

ma contemporaneamente (invocando per sé stesso quel salto qualitativo nel sentimento che gli possa permettere di non “incespicare, barcollare, ed essere“ sgominato nell’orgoglio“):

chiude la poesia in questo modo

“… chiederò ai tuoi santi un consulto, una dritta/ per amarti davvero, per amarti di più, amarti oltre ogni sconfitta“.

E come ogni uomo che si scopra debole e fragile nei confronti delle promesse non rispettate, il nostro autore è capace di auto-da-fé, di promesse che si augura di poter rispettare, – anche contraddicendo quanto affermato in precedenza a proposito di un ipotetico paradiso – quando scrive a pag. 28: “guarda cara, per te io vincerò/ la legge gravitazionale, infrangerò/ la norma, perché già lo so,/ lo avverto, ne sono certo, continuerò/ ad amarti anche da quell’altro luogo,/ di cui non saprei indicarti valide/ e attendibili coordinate: un laggiù, un lassù, chissà, ma che sia per di là/ o per di qua non ha grande rilevanza,/ io so che il mio amore per te si espanderà/ come un oceano, dilagherà come una pioggia/ di fine ottobre//

Se di questo poeta sento di condividere la passione per la vita e per le sue creature, se lo leggo sempre con ammirazione e rispetto verso la sua capacità di far suo il dolore che spesso incontra nel cammino della vita,  se ho stima per la sua intransigenza di intellettuale e  per lo sdegno verso la faciloneria nella quale la stagione sociale in cui siamo immersi tutti sembra travolgerci, vorrei prendere congedo da questo suo lavoro trascrivendo per intero i versi di questa brevissima  poesia che  esprime la sofferenza per un dolore arrecato ad una donna, ma al tempo stesso nei due versi del  finale lascia trapelare tutta la natura di chi è poeta che intuisce la contraddizione ed il dualismo tra ciò che egli vorrebbe essere e ciò che invece lo incatena alla sua indole di scrittore.

 

In cambio del tuo pianto :

 

-quanta disperazione si è data appuntamento e ora/

ti assilla e assedia e ti difende/

la convulsa grammatica del pianto./

 

E’ lì che ti raggiungo, dentro i singhiozzi./

Un pianto di donna che mi chiama a un lampo/

d’immaginazione, a un fervore fecondo.//

 

Quel “lampo d’immaginazione” e “quel fervore fecondo “ sono la condanna del poeta (ma non solo sua) alla disanima continua attorno a sé stesso, sugli altri e sul dolore che causa le lacrime in chi ci ama, ed egli, come le figure che popolano la poesia “le mie amiche sono felici ? “, può concludere:

 

 

Ridono così bene, e non ti negano parole di velluto.

Io non so se le mie amiche sono felici

 

Neppure io  che scrivo lo so.

 

 

Luigi Paraboschi

18.1.2019

Paolo Polvani

11 febbraio 2014

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Paolo Polvani, poeta di lungo corso, ha nella sua bisaccia di versi un canto che non si arrende all’amaro degli eventi, volendo con ciò significare che le parole sono collocate l’una accanto all’altra per la comune appartenenza ad un campo semantico, per questo non deflagrano, al contrario dimostrano che la poesia è musica, è il ritmo che ci conduce per la vita ( senza utilizzare nessun neo e nessun post).
Il novecento avanza, si sbarella nel tremila ma le cose da dire restano le stesse e il dettato non muta.
Basta leggere le poesie presentate per capire che il suo mondo di poco è mutato e ancor meno lui stesso. I temi che affronta sono post-it del quotidiano: ritratti di gente comune che si fanno exempla di tante persone.

 La malinconia si fa spessa nel desiderio di fare proprio lo sguardo acqueo del proprio cane; ma è anche fuori di lui, nella vita monotona dell’operaia, nel paesaggio abbrumato dell’inverno.

[…] Nel sangue delle melagrane si dipana un
silenzio e il passo del gatto attraversa
l’obliqua misura dell’ombra.[…]

[…] le consonanti sono chiodi che mostrano
pagine celesti.

Il margine della collina conosce la felicità dei corvi.
La violoncellista conserva il sapore di una festa d’aria.[…]

Polvani ama ciò che non ha un confine netto, ciò che consideriamo di poco conto, scarto.
La più bella poesia di questa breve silloge, a mio parere, è quella titolata “Natale” dove i sogni della giovane badante si schiantano contro la sua stessa origine: deve abdicare alla sua origine rumena, deve dirsi ucraina, perché dei rumeni ci si fida poco.

Narda Fattori

 

Fresca d’inquietudine è la sera

Abitare nello sguardo del vecchio cane,
nella tranquillità del suo pensiero.

Passeggiare nell’ombra di un fogliame amico.
Qui le tenebre giungono con lunghe dita,
fresca d’inquietudine è la sera.

Ascoltare il vento.
Camminare nell’erba alleggerisce, allevia.

Voglio il dono di un vino che scenda lieve, ammorbidisca
il cuore, un vino per il giorno che va, senza un saluto.

Ivana lavora a Modena

Un mattino affondato nel gelo
i singhiozzi del motore, gonfi di lunedì
di nebbia di trattorie di camion
e la fatica dell’alba in mezzo a una luce di biancheria stesa

aggrappato al finestrino l’appennino bianco e assoluto

il freddo e poche orme nella neve, uno sparuto
stormo di uccelli neri, un albero spoglio abbracciato stretto
al gelo dell’aria

Caramelle

Verrò in via delle vigne quattordici a passarti
l’ultima delle mie caramelle, è lì che abita
in forma di zucchero l’orto di tua madre
e si gonfiano di rosso i pomodori nel cerchio
delle alpi e l’insalata
ha il suono familiare di una porta che sbatte.

Gli autunni vengono con passo leggero e io
mi arrampicherò sul tuo accento di montagna,
sulle gutturali che sono rocce aspre, su certe
consonanti che imitano il tumultuoso gorgoglio
dei torrenti. Le tue mani forse mi cercavano,
tentavano un approdo, ma tu lo sai
che il nostro sole è la solitudine
e la promessa di non vederci più
è già nei nostri passi.

L’ho visto il gatto, e quella lunga scia di tristezza.
Ho visto la fabbrica e la fretta dei viaggi.

Le mani si cercavano e ridevi di un riso
notturno e c’era la pioggia e il buio
e il momento era perfetto per perdersi,
per scivolare via come un addio.

Gli armadi

Quali cieli nascondono gli armadi,
quale omaggio ai segreti di ottobre ?

Nel sangue delle melagrane si dipana un
silenzio e il passo del gatto attraversa
l’obliqua misura dell’ombra.

La pancia grave degli armadi
alleggerisce un’attesa enumerando i suoi
doni: l’alito caldo dei cappotti
la lanosa baldanza di giacche
che aspettano il cigolio dell’alba.

La ruggine delle foglie

La violoncellista ci consegna la ruggine delle foglie,
l’inquietudine della grandine e i percorsi
dell’alba, la solitudine
che attraversa la strada.

Disegna curve che delimitano le rotte urbane,
il balbettio dei semafori, le finestre chiuse.

Le ciglia fitte annunciano la bellezza
delle periferie, le cifre necessarie.

Le dite s’inerpicano sulle corde e sono ragni
che tessono una ragnatela sonora che c’imprigiona.

Le note diventano vicissitudine che s’incide
nello sguardo fino al limite del bosco.

Apre sentieri profumati, rocce e vento radioso.
Le sue parole sanno di quarzite e di viole,
le consonanti sono chiodi che mostrano
pagine celesti.

Il margine della collina conosce la felicità dei corvi.
La violoncellista conserva il sapore di una festa d’aria.

Il crollo

Il tema della recita è il cordoglio. In una nuvola
d’incenso il vescovo canta. L’ora del crollo:
dodici e ventidue. La città riscopre
l’ululato delle sirene, il tufo
dei poveri. E’ una mattina giovane.
La sorpresa è il tonfo che germoglia
e i morti che d’improvviso hanno fame,
sussurrano parole indecifrabili.

I fotografi sbatacchiano ai piedi dell’altare.
I flash rincorrono. Le ruspe
arrugginiscono in silenzio.
Un’afasia nel brivido
delle navate, un balbettio sommesso,
ma chi è che farfuglia, perché
non stanno zitti i morti ? vogliono parlare
ma non c’è tempo, si sono udite le promesse,
le minacce a tutti quelli che.

Il vescovo è nella bocca del canto, in una nuvola
d’incenso. Il sindaco ha la fascia.

Di fuori le rondini schiamazzano.
L’autunno è troppo acerbo per partire.
Dal campanile partono i rintocchi.
Il sangue raggrumato. Le foto sui giornali. Tutti
dicono amen.

Ma che hanno ancora da parlare, hanno
le loro bare, il cordoglio,
ma perché
i morti non se ne stanno zitti ?

Natale

Forse è il sorriso la maniera più saggia
di stare al mondo. Lei si chiama Mihaela.
Il suo sorriso non nasce dal rotolarsi
in un letto con un fidanzato, gridando
di gioia, o dall’estenuarsi nelle discoteche
barcollando con un bicchiere in mano,
oppure dal cicaleccio fitto di compagne,
o dallo spiare con commozione una ruga nuova sul volto
della madre, in una casa calda, ed è Natale,
no, lei sorride e fa la badante a una vecchia pazza
che le rinfaccia il suo essere rumena, che hanno dovuto
mentirle, dirle che viene dalla Russia,
perché lei non l’avrebbe presa una rumena, con tutto quello
che si dice in giro. Mihaela sorride, ed è Natale.

Il regalo dei treni

Questo mi regalano i treni: il dilungarsi
delle periferie, grigi monologhi
di capannoni e infine la compattezza
dell’inverno profuso ai finestrini.

Il disegno dei pioppi, in lontananza,
graffia le mani di gennaio,
un volo d’uccelli cerca un equilibrio
dentro il vaniloquio di un cielo esangue.

Lo sguardo delinea i contorni della stagione,
traccia una mappa tra il gelo degli ulivi
e l’adesione dei peschi ai rivoli di un sole
che si nega, ai cristalli di una musica severa.

Scorrono intirizziti i rami, quel che resta
dei fichi, la nudità muta dei mandorli
arresi alla foschia.

Paolo Polvani è nato nel 1951 a Barletta, dove vive. Ha pubblicato i seguenti libri di poesia:
Nuvole balene, ediz. Antico mercato saraceno, Treviso 1998;
La via del pane, ediz.Oceano, Sanremo 1999;
Alfabeto delle pietre, ediz. La fenice, Senigallia, 1999;
Trasporti urbani, ediz. Altrimedia, Matera 2006;
Compagni di viaggio, ediz. Fonema, Perugia 2009;
Gli anni delle donne, e-book, edizioni del Calatino, 2012.
Un inventario della luce, ediz. Helicon 2013.
Sue poesie sono state pubblicate da numerose riviste.
E’ presente nell’antologia Dentro il mutamento, edito dalla casa editrice Fermenti nel 2011 e in numerose antologie tematiche, tra cui Il ricatto del pane, ed. CFR, Rapa nui, ed. CFr, e 100 mila poeti per il cambiamento, Albeggi editore.
Ha vinto diversi premi di poesie. E’ tra i fondatori e redattori della rivista on line Versante ripido, che pubblica alcuni tra i poeti più interessanti del panorama letterario italiano e internazionale.