

LO SPETTRO DEL VISIBILE
di Patrizia Sardisco
edizioni Cofine – Roma
recensione di Luigi Paraboschi
Quando ci si accinge a trattare qualunque argomento usualmente si afferma che “bisogna pur trovare uno spunto per iniziare“ e io ho scelto i versi che seguono per trovare la chiave interpretativa che mi fosse utile.
“Ma dico/ quale lingua?/ Non ha una lingua /a strappo// la chiusa scatoletta/ rossa e polposa in succo/ ci vuole un apriscatole/ un affilato arnese/ di parole/ per arrivare al cuore//.
Ho riflettuto più volte su ogni verso di tutto questo lavoro e mi sono convinto che l’apriscatole del quale l’autrice avverte il bisogno sia la parola intesa nel senso più ampio, quasi la stessa che San Giovanni apostolo pone all’inizio del suo Vangelo ove scrive “all’inizio fu il Verbo“.
Qui assistiamo veramente al trionfo dell’uso della parola; pochi autori sono in grado di costringere il lettore come fa Sardisco a indugiare sul significato dei numerosi aggettivi, verbi e sostantivi raramente diffusi nel linguaggio usuale, al punto da farci tornare indietro nella lettura, ricercare ogni significato non chiaro e d’improvviso vedere aprirsi la luce sul senso pieno di quanto stiamo leggendo.
Il primo verbo che mi ha attratto è stato “campire“ perché inusuale in poesia e lo si riscontra più frequente in pittura.
L’ho trovato nella prima poesia d’apertura ove si legge:
“dal sogno della voce migrarono/ particole di luce/ a campire la vacuità del bianco/ lo spazio fantasmatico/ di una impossibile nominazione“
Dice lo Zingarelli che con “campire” si intende: “dipingere un quadro a fondo/ stendere il colore in maniera uniforme, e – pur conoscendo il significato di quel verbo – mi è parso si aprisse uno scorcio dentro i versi e ho pensato che se avessi fatto riferimento alla pittura forse avrei trovato qualche illuminazione che mi fornisse una interpretazione abbastanza vicina alle intenzioni della poetessa.
Ma a quale genere di pittura avrei potuto avvicinarmi trovandomi di fronte ad una raccolta di grande difficoltà di disvelamento come questa?
Non potevo leggerla utilizzando gli stessi schemi critici che avrei potuto usare di fronte a un testo poetico dell’800 letterario e neppure della prima metà del ‘900; dovevo per forza trovare quell’apriscatole di cui fa cenno l’autrice, e a quel punto mi è parso che se dovevo “campire“ la tela di Sardisco avrei dovuto usare un rimando pittorico ad una tecnica più moderna che mi aiutasse durante la lettura.
Ho pensato al pittore americano Jackson Pollock, che ha inventato la forma più nuova del suo tempo, il “dripping“.
Partendo da una tela vergine, stesa sul pavimento, egli, utilizzando qualsiasi strumento – che solo rare volte era rappresentato dal tradizionale pennello, sostituito spesso con lunghi e sottili pezzi di legno o anche stendendo il colore sulla tela direttamente dal tubetto, oppure sgocciolando le tinte dal barattolo,- stendeva sul lino bianco una rete sovrapposta di vari passaggi di tinte che alla fine forniscono all’osservatore un reticolato dentro il quale chi guarda riesce a sperimentare dentro di sé una emozione che gli permette di assimilare interiormente il quadro.
La tela di Sardisco è rappresentata dal semplice foglio bianco dal quale essa parte per tentare una coraggiosa analisi interiore che la conduce all’interno di quell’ IO che nella letteratura moderna è partito da Joice con l’ Ulisse che ha sconvolto tutti i canoni narrativi e poetici del 900.
Con questa predisposizione all’analisi interiore, il visibile appare come qualcosa di interiorizzato in modo così profondo da essere chiamato “spettro“ (per definizione invisibile), che però la poesia tenta in molti modi di rendere “visibile“, perché, scrive l’autrice:
… l’uomo dentro il guinzaglio/ trova dentro un bisogno/ l’evasione“
e tale bisogno nasce da una forte necessità espressiva:
“… dove la sete occupa uno spazio/ proliferano i rami / per simmetria alla opposizioni radicali…/”
La sete come bisogno di conoscenza fa crescere i rami che dovrebbero dare slancio e aperture per bilanciare le opposizioni alle radici interiori, e in altra successiva leggiamo :
“nessuno scrive un rigo se ha altro da mangiare …“
Da queste poche parole stralciate da differenti poesie ci possiamo rendere conto che il colore base, quello sul quale l’autrice costituisce la campitura è steso, e lo potremmo definire come la
“necessità di esprimersi dovuta alla condizione umana di essere trattenuti da un guinzaglio che impedisce all’anima di alimentarsi“.
Questa prima stesura di colore è fondamentale, è la base che sarà il fondo del quadro/poesia che si costruirà verso dopo verso, parola dopo parola attorno a quell’ IO accennato poc’anzi, un IO che:
… si disponeva al centro dei corpuscoli/ mediava tra voce e sottrazioni/ sfibrato da un principio di realtà/ aveva scelto di non sporcare i panni/ per non doverli poi lavare //
E’ un ego dibattuto, che vorrebbe gridare ma che è soffocato dalle paure di sporcare i panni e teme di doverli lavare, dato che non può farlo perché troppi sono i condizionamenti, è anche grande la sfiducia in se stessa:
… ”ogni denominazione dell’intorno/ è l’audacia/ di non gettare troppo in basso l’occhio“
Ci si rende conto durante la lettura che l’IO si dibatte sommerso da una marea di pressioni esterne ad esso ed anche interiori, vorrebbe emergere ma non può farlo con libertà, e questa impotenza a essere compreso genera frustrazione nella poetessa, come scrive anche A.M. Curci nella sua prefazione “… ricorre il divario lacerante tra l’urlo di invocazione… e l’impossibilità di emettere la voce “e prosegue più avanti sempre la Curci… ”sottrarre vigore alla barriera che rende l’urlo strozzato, sporgersi a invocare” e crea una poesia che in certi punti assume il sembiante di esame scientifico e quindi per nulla sentimentale, sul quale prevale spesso un angosciante domandarsi e dibattersi tra la volontà e il potere, come leggiamo:
… ”gli asindoti hanno un fascino inconcludente/ tensioni d’arco e fughe all’infinito/ da un desiderio amodale di tangenza/ gli orridi ci attraggono negli scoscendimenti della gola“
e aggiunge in un’altra
“ll residuo non cessa/ di emettere segnali// amputare la mano dopo il tiro/ continuare a saperne/la posizione di sensazioni tattili// del dolore sottratto/ resta la sottrazione, l’assenza di visione/ la bruciatura plastica sull’orlo/ l’urlo fantasma che sutura il foro//.
Si esce dalla lettura di questa raccolta con la stessa sensazione di stordimento che ci lascia la visione di un quadro astratto il cui significato completo ci sfugge per l’impossibilità di penetrare fino in fondo l’anima dell’autore.
A questo punto mi sembra possibile inserire un altro accostamento pittorico che ci possa aiutare a comprendere meglio la poesia di Sardisco, e mi soffermo sul quadro famosissimo di Magritte dal titolo “cecì n’est pas une pipe”, titolo nel quale il pittore sembra aver compiuto un errore grammaticale dicendo “cecì“ al posto di “celle-ci“ al femminile, pensando alla pipa, ma la sua intenzione è quella di depistare l’osservatore obbligando a comprendere che quel “ceci“ è usato al maschile in quanto egli sta parlando del quadro e non della pipa.
E anche Sardisco scrive:
“… la mente è epifenomeno di luce/ in metamorfosi// eppure apprende presto a ruminare il buio/ nell’onda urente degli inchiostri/ inchiodata a se stessa ma chirale“
Ove “chirale” è da intendersi come qualcosa non sovrapponibile alla propria immagine speculare, compiendo in tal modo lo stesso percorso di Magritte.
Usualmente chi scrive parla anche involontariamente di sé e anche la nostra autrice lo fa con pudore e cela la sua incertezza/timore/paura dietro il velo di parole acute e sapienti che costituiscono la bellezza della sua scrittura.
Non si tratta di un lavoro di facile lettura, occorrono pazienza, attenzione e diversi passaggi tra i versi ma proprio per queste difficoltà che si incontrano ci si sente pieni di ammirazione per gli sforzi di chi ha fatto del suo meglio per metterci sotto gli occhi tutta la sofferenza ed il conflitto del vivere mai completamente espressi perché :
“…le grammatiche/ giocano entro limiti finiti/ segmentano lo spettro del visibile/ in unità di campo tendenzialmente rigide //
Luigi Paraboschi
3 maggio 2021
dalla sezione Lo spettro del visibile
*
fare della reticenza fiato
dell’astensione morso segno
usurare
la lingua torcerla al verso
darsi la direzione tra i picchi delle onde
decidere tagliare
la frequenza coattiva la catena
scantonare forse
forse cantare
dalla sezione Aprèslude
*
Chiedi a una rosa
se è colta pronunciata
o se è recisa.
*
Sia detto che la rosa
non sbavava
per travasarsi in rosso
in un decanter
rubra dentro al suo cono
emergente incidente
era e danzava iperurania e sparsa
chiusa ma in sé esclamata
né sbocci né sboccature
non traboccava
restava, non rosa
rosa.
Patrizia Sardisco è nata a Monreale dove tuttora vive. Laureata in Psicologia, specializzata in Didattica Speciale, lavora in un liceo di Palermo. Scrive in lingua italiana e in dialetto siciliano (parlata monrealese). Vincitrice e finalista in diversi concorsi a carattere nazionale, nel 2016 pubblica, per i tipi di Plumelia, la silloge in dialetto “Crivu”, vincitrice del Premio Internazionale Città di Marineo e menzionata al Premio Di Liegro di Roma. Nel 2018 si aggiudica il Premio Montano nella sezione “Una prosa breve”; con la silloge inedita in dialetto “ferri vruricati” guadagna il secondo posto del XV Premio Ischitella – Giannone e, nello stesso anno, per le Edizioni Cofine, dà alle stampe la sua prima pubblicazione in lingua italiana, “eu-nuca”, prefazione a cura di Anna Maria Curci, finalista al Premio Bologna in lettere 2019 e vincitrice della sezione opere edite del Premio Città di Chiaramonte Gulfi 2019. Ancora nel 2018, la raccolta “Autism Spectrum” vince la quarta edizione del Premio Arcipelago Itaca, indetto dalla Casa editrice omonima che, con postfazione a firma di Anna Maria Curci, ne cura la pubblicazione nell’aprile del 2019. Autism Spectrum è tra le Opere edite segnalate al Premio Bologna in lettere 2020. Del 2021 è la raccolta “Lo spettro del visibile”, Edizioni Cofine, prefazione di Anna Maria Curci.