Il simbolismo che permea Tropaion, la cui prima sezione non a caso s’intitola Una battaglia non vista, attinge a un immaginario militare: «I miei soldati/ hanno pugnali saldi/ e pettorali sporchi»; «Lungo le coste/ un vento spinge i fuochi delle torri»; «Tra le nostre opposte trincee/impigliato nel filo spinato/ un cavallo/ senza padroni»; «Volgerà alla fine/ anche questa battaglia/ non vista»… Ma a quale battaglia si fa accenno? Raffaela Fazio ci offre un suggeri mento già all’inizio della raccolta, citando alcuni autori classici. L’autrice si riferisce sia alla dinamica insita nella natura dell’esistenza ˗ il “polemos” eracliteo, per cui la vita è una continua lotta tra gli opposti˗, sia al conflitto interiore che l’individuo sperimenta, spesso in maniera celata, tra pulsioni contrastanti.
Questa “tensione”, per quanto a volte dolorosa, rimane vitale. La scrittura di Raffaela Fazio la evoca costantemente. Se ne trova una traccia evidente, ad esempio, nella seconda poesia del libro, in cui gli amanti vengono ritratti come coloro che eternamente si rincorrono: «la natura ha bisogno di tensione/ tra destini votati/a una disperata cerimonia». La cerimonia, ogni cerimonia ˗ schema, sistema, verità ˗ ri- chiede infatti una lotta, per evitare la cristallizzazione della vita, poiché siamo «distanti, diversi:/ disuguale la capienza del respiro/ nell’odore controvento».
La vita è lotta, ma anche possibilità di trasformare la lotta in vittoria. Da qui il titolo del libro, Tropaion. In parte, la vittoria consiste già nella capacità di rivolgere uno sguardo diverso alle cose. Nel brano lucreziano del De rerum natura citato all’inizio, ci viene detto che, vista dall’alto, una battaglia potrebbe assumere l’aspetto della stasi e, insieme, del fulgore. Si tratta, secondo l’autrice, di fissare nello sguardo ciò che fisso non è, di dare eternità al movimento, metamorfosi per eccellenza. Questo pur sapendo che è «Difficile disporsi/ all’eternità». Le “cose” osservate sono guardate partendo da un “tempo” preciso, che è anche un tempo interiore. In Tropaion, aleggia spesso il senso del passato. Qualcosa è successo prima e il presente serve a rivederlo (come quando si scruta, appunto, una battaglia dall’alto), a emendarlo, a rimediare: «Ma oggi finalmente/non sei dove io sono:/è tempo di condono/e il chiavistello è tolto». La differenza di stato tra un tempo e l’altro, ciò che è cambiato tra il prima e l’adesso e ciò che ancora può mutare, è la frattura di conoscenza che la poesia ama attraversare: «La memoria/ ci guida fino all’alba/ poi rallenta./ Il tempo degli eventi/ la distanzia.// E la sua narrazione/ è un desiderio/ a cui si torna/ senza mai arrivare// come mai si arriva/ a un luogo dell’infanzia».
Un aspetto determinante della tensione di questa poesia, a cui si accennava, è dunque il desiderio che spinge alla conoscenza, a partire da un’esitazione di fronte al già visto, una pausa prima della definizione. Ciò che sottende tale processo è la chiara percezione del mistero di tutto. E del mistero dell’io. Neppure gli occhi altri possono arrivare a un chiarimento definitivo, come mostra l’interrogazione tambureggiante di certe poesie, ad esempio «Se mi conosci, mi chiedo come è stato». Elemento che emerge anche nei versi dedicati dalla madre ai figli. Sembra quasi di essere di fronte a un rifiuto lucidamente scelto di affermare qualcosa di perentorio. Il fatto è che il nostro sguardo assomiglia (questo sembra il suggerimento) a quello di Dante alla fine della Commedia, dove vede ma non riesce a trattenere se non qualcosa di vago: «Vedere/ non meno dell’invisibile/ (nel fuoco/la sabbia farsi vetro)// e ricordare/ senza guardarsi indietro». Ciò che conta, in ultima analisi, è quella specie di elevazione dello sguardo alla quale l’autrice ci chiama in continuazione, e che consiste nella sua particolare maniera di inseguire un’immagine, senza mai circoscriverla. Come a lasciarci il passo, perché ˗ Leopardi docet ˗ è nel vago la poesia; potremmo dire, nel rigore della libertà con cui questa poesia ci accompagna.[…]
(dalla prefazione di Gianfranco Lauretano)
*
I miei soldati
hanno pugnali saldi
e pettorali sporchi.
Sui tuoi nel sonno
è facile vittoria.
Ma nessuno torna.
Restano là, dentro al silenzio
indistinti, confusi con i vinti:
lo stesso volto.
Ombra che si getta su altra ombra
e l’ama perché affine.
Un solo esercito che aspetta
di essere sepolto
al mattino nella mente
o in fondo al corpo
finché il tempo
ne fa bianco corredo:
memoria di altra vita
nella notte
ancora in piedi
– armata in terracotta.
*
Nel gioco si accende la fuga
e nel bosco la caccia:
ogni cosa pare si rinnovi
non dal tepore della tana
ma per l’accelerarsi
di battiti, di appelli.
La natura ha bisogno di tensione
tra destini votati
a una disperata cerimonia.
In eterno si rincorrono gli amanti
nel giardino d’inverno.
Distanti, diversi:
disuguale la capienza del respiro
nell’odore controvento.
È passione. Ma fa male.
Nel carniere ha l’assoluto
di cui ha perso
tutto il sangue, la speranza.
*
Lo senti? C’è un fiato
selvatico, furioso dietro l’arte
di cui si copre
anche il più piccolo segreto
nell’attimo in cui infine
vuole essere tradito.
Eppure scuotendosi rivela
solo ciò che lo nasconde:
si gonfia l’erba alta
e non si apre
– soffio dopo soffio
si crede il proprio moto, il vento
confonde
l’innocenza del sussulto
con il celato accanimento.
*
Malfermo, un istante
è stato distanziato
dal branco delle ore.
È docile, stanco
come chi ha una forma
tra cespugli radi a filo di memoria.
Sarà facile preda.
Ma quando anche il rancore
con lui avrà finito
non sarò io a fare
della sua carcassa
raro cimelio
o gabbia di me stessa.
La ferita
Nel ripulirle i bordi
aspetteremo
che a forza di guardarla
riveli un tratto familiare
e che al mattino
il male si raccolga
come vegliando
un cadavere supino, forestiero
con indosso l’uniforme del nemico
tra le spighe scure, chine
accanto al fosso.
*
Forse sei
l’eco scarna della segreta
sotto il livello del giorno
sei il gesto che si allunga
verso il ricordo
e ne fa solo sua la forma
perché ha raccolto
il buio intorno.
Ma oggi finalmente
non sei dove io sono:
è tempo di condono
e il chiavistello è tolto.
La vita parla
Ogni notte ti asciugo la fronte.
Raccolgo di te
quello che si era sparso.
Ma tu non volermi
diversa.
Stringi forte il mio corpo di ore
lungo il recinto di edera e mirto.
Su me spunta fedele
anche colei che credi mi sia ostile
e invece è solo morte.
*
Volgerà alla fine
anche questa battaglia
non vista
con la naturalezza
dei fossili, dei clasti
a riposo
nel chiuso dei versanti.
In ciascuno
la ressa
di vite, di detriti, la fatica
sarà scasso
per il tempo a venire
– un lascito migliore.
Imago et umbra sumus: la battaglia invisibile di Raffaela Fazio
Nell’accezione primigenia, la parola greca tropaion indica la pratica comune presso i guerrieri greci di riportare in patria le spoglie del nemico e le sue armi, come commemorazione della vittoria. La stessa fun-zione aveva il monumento a forma di albero sulla cui struttura veniva esposta l’armatura del nemico. Universalmente si considera il trofeo come un ringraziamento rituale alle divinità che permettevano la vittoria, ma un passo di Tucidide sembra suggerire che in realtà il trofeo fosse un modo per celebrare proprio il nemico ucciso in battaglia: lo potremmo forse interpretare, modernamente, come in un estremo saluto, un omaggio alla memoria della grandezza dell’avversario; o forse, più atavicamente, come una celebrazione dello sforzo che era stato necessario per sconfiggerlo. Un’altra caratteristica non secondaria del trofeo consiste nel fatto che, presso i Greci, il tropaion venisse costruito direttamente sul campo di battaglia, per evocare immediatamente la benevolenza degli Dei sui vincitori, a differenza dei Romani, che preferivano esporlo a Roma al ritorno dalla campagna militare, principalmente per ragioni di prestigio politico.
Sul piano simbolico il trofeo possiede quindi, in un certo senso, una doppia funzione enfatica: celebra una morte, quella dello sconfitto, di colui che, nella battaglia (e quindi, per estensione, in qualsiasi tipo di battaglia) è uscito spogliato dei suoi possedimenti e dell’onore; e celebra una vita, quella del vittorioso, del sopravvissuto, di colui che, in definitiva, rimane a esercitare il suo compito precipuo commemorativo, compresa l’evocazione della potenza della sorte a futuro monito delle genti, in funzione non solo simbolica, ma in qualche modo, esperienziale. Di quale battaglia stiamo parlando, quindi? Poeticamente, innanzitutto della contesa d’amore, combattuta su quel campo di battaglia che è la contrapposizione dualistica fra un io e un tu. In questo senso, essa è coincidente con qualsiasi altra battaglia da vincere o da perdere, con qualsiasi altra krisis, con qualsiasi altro dolore o ferita da curare e da cui uscire se non proprio indenni, quanto meno ancora vivi.
Tra le diverse accezioni in cui si può intendere la battaglia che origina il tropaion, quella relativa alla metafora dell’amante miles è già classica. Viene subito in mente Ovidio con il suo «Militat omnis amans, et habet sua castra Cupido». Ogni amante è un soldato, secondo il vecchio adagio: ma non solo. Se ogni amante è un miles, gli amanti possono vincere o perdere una battaglia o la guerra d’amore intera; gli innamorati, in definitiva, possono essere anche pensati come vittime di guerra, schiavi o trofei essi stessi, secondo il topos grecolatino di cui sopra; basti pensare ancora al poeta di Sulmona che altrove quasi si scusa di non riuscire a scrivere poesia epica, poco adatta alle sue corde: «Arma gravi numero violentaque bella parabam /edere…»3, eppure, sopraggiunge sul più bello Cupido, il quale, si badi bene, altri non è che un arciere, ovvero, nemmeno a farlo apposta, anch’egli un giovane guerriero: «questus eram, pharetra cum protinus ille soluta / legit in exitium spicu- la facta meum…» […]
(dalla postfazione di Sonia Caporossi)
Raffaela Fazio, nata ad Arezzo nel 1971, vive a Roma, dove lavora come traduttrice, dopo aver trascorso dieci anni in vari paesi europei. Laureata in lingue e politiche europee all’Università di Grenoble, si è poi specializzata presso la Scuola di Interpreti e Traduttori di Ginevra. In seguito, ha conseguito un Diploma in Scienze Religiose e un Master in Beni Culturali alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. Nel campo dell’iconografia, ha pubblicato “Face of Faith. A Short Guide to Early Christian Images” (2011). È autrice di vari libri di poesia. Tra gli ultimi: “L’arte di cadere” (Biblioteca dei Leoni, 2015) con prefazione di Paolo Ruffilli; “Ti slegherai le trecce” (Coazinzola Press, 2017); “L’ultimo quarto del giorno” (La Vita Felice, 2018) con prefazione di Francesco Dalessandro; “Midbar” (Raffaelli Editore, 2019) con prefazione di Massimo Morasso. “Tropaion” (Puntoacapo Editrice, 2020) con prefazione di Gianfranco Lauretano e postfazione di Sonia Caporossi. Si è occupata della traduzione di Rainer Maria Rilke, le cui poesie d’amore sono state raccolte in “Silenzio e Tempesta” (Marco Saya Edizioni, 2019).