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Annamaria Ferramosca

4 aprile 2022

Annamaria Ferramosca – Per segni accesi – G. Ladolfi Editore 2021

Recensione a cura di M. Carmen Lama

I poeti sono in genere persone pacifiche, che sentono prima e più profondamente delle persone comuni le atmosfere che vengono a crearsi nelle relazioni sociali e, più ampiamente, nelle relazioni fra popoli e fra l’uomo e la natura.
Colgono, come si suol dire, i segni dei tempi. A volte anticipano quel che potrebbe accadere, a partire da qualche dettaglio che intravedono e che agli altri sfugge e, sulla base di questa particolare consapevolezza, scrivono poesie che vogliono mettere in guardia, o che vogliono semplicemente segnalare quel che a loro si è palesato attraverso la loro fine sensibilità, attraverso i loro sensi “scoperti”, attraverso quell’esercizio di osservazione meticolosa, di scandaglio, quasi, che avviene in maniera del tutto naturale, quasi che le cose si offrissero al loro sguardo per essere comprese e per far sì che i poeti dessero loro una voce.
C’è, nel porsi dei poeti di fronte alle cose che li interpellano, una sorta di stupore, un atteggiamento quasi di incredulità che in qualche modo chiede loro di verificare, di perdersi nel richiamo delle cose, di dar loro l’ascolto di cui hanno bisogno.

Leggendo più volte la bella e singolare silloge di Annamaria Ferramosca, Per segni accesi, Giuliano Ladolfi editore – febbraio 2021, ho avuto la sensazione netta di trovarmi di fronte a una poetessa il cui sentire è finissimo, la cui attenzione è costantemente vigile, a lei non sfuggono particolari molto significativi che attraversano il tempo che stiamo vivendo e che interessano non il suo solo spazio di vita, ma uno spazio che va oltre i ristretti confini di un paese, o regione, o nazione, per espandersi a livello planetario.

Scritta in tempi non sospetti, (non gli attuali, febbraio/marzo 2022, in cui gli elementi presenti nelle poesie stanno esplodendo in modo esasperato), la silloge coglieva già elementi di tensione, di disfunzione nei rapporti tra popoli (ma anche tra persone della stessa comunità linguistica e sociale), di indisponibilità a farsi carico dei problemi dei meno fortunati, di non accoglienza dell’altro, come se si volesse lasciare a ciascuno la responsabilità di trovarsi a vivere in paesi dove solo la sofferenza è loro pane quotidiano, mentre in realtà non si sceglie il posto in cui ci si trova a vivere, in cui si è nati.

La Ferramosca sembra toccare con mano le situazioni di cui parla, sembra viverle sulla propria pelle, tanta è la solidarietà che si sente vibrare nei suoi versi e l’empatia.
I versi sembrano scorrere su un filo rosso invisibile, che inizia col mettere in scena l’origine della vita, (si fermano i vortici della notte si compie il tempo / l’humus prende forma imita materia d’alba […] dire di un movimento che prima non c’era / e pure si predisponeva / con l’impercettibile forza del germoglio / un tendere misterioso del seme) per proseguire con le varie vicissitudini che in una vita accadono e, con calibrato equilibrio, vengono mostrate, attraverso metafore, miti, dubbi e pressanti domande (domandepietre, a volte), e realtà concrete, le emozioni vissute dai protagonisti, le loro prese di posizione fatte proprie dalla poetessa per dar loro una voce, e che sia la più accorata e la più incisiva voce possibile.

Attraverso le poesie di questa silloge, Annamaria Ferramosca si fa portatrice di valori assoluti, che da tempo sembrano aver perso la loro preminenza nella vita degli uomini e dei popoli e nel loro rapporto con la natura (chiamo mi chiamano / respiro il comune respiro / insieme camminiamo insieme andiamo) – (il villaggio i fuochi le ombre lunghe / i miei vecchi con me porto indicibili / i loro occhi del commiato) – (ora o mai più / è ora di prossimità / insieme aprire la via nel bosco / luminosa assoluta / seguirne i segni chiari sui tronchi / fino al limite dei rami / riconoscere la distanza di rispetto / tra pianta e pianta tra nido e nido) – (cerco armi nella voce un canto / per la bambina che improvvisa una danza / le sue parolecorpo sollevano / onde felici di musica e memoria)… e così via…
I versi si dipanano lungo un asse portante che riguarda la natura, la cui salvaguardia dovrebbe essere intesa non solo per se stessa ma anche a vantaggio della stessa sopravvivenza degli esseri viventi in generale e umani, in particolare, e invece la natura subisce sfruttamenti e violazioni irragionevoli.

Con lo scorrere dei versi su quel sottile filo rosso dell’esistenza, scorre anche un richiamo forte, via via più insistente, più deciso e convincente, alla presa di coscienza della deriva verso cui stiamo portando il nostro mondo e con esso noi stessi (altrimenti // saremo sirene disperate […] solo schiuma d’onde / rumore di risacca) – (tutto il caos che piove dalla fronte / il tremore sgomento dei neuroni) – (mentre torri schiantano e ponti / deserti avanzano s’inabissano rive)…
Insieme a ciò, si fa viva una speranza, che davvero si possa tornare ad una condizione di vita sostenibile, in cui ciascun individuo, ciascun popolo possa trovare il proprio status di “umanità felice” (ci esaltiamo lungo i meridiani / per ogni lingua viva come bella s’accende / quando si contamina / e si esulta / nel riconoscere la madre in ogni terra / e fratelli su ogni terra uguali)…

Questo avanzamento delle poesie verso una speranza che non deluda è colto attraverso l’accrescimento dell’enfasi, quel che in poesia è definito climax ascendente, appunto, e che qui prosegue con intensità sempre maggiore di poesia in poesia, dall’una all’altra delle tre sezioni del libro. Con questa modalità espressiva la poetessa vuole mettere in evidenza una sorta di “grido” della sua anima, affinché le sue parole vengano ascoltate e stimolino riflessioni. E affinché ne conseguano azioni coerenti.

Non sempre si trovano tanta determinazione e tanta partecipazione emotiva in libri di poesie che abbiano un fine di così alto livello, nonostante la conoscenza dei problemi attuali del nostro mondo sia ormai alla portata di tutti.
Inversamente, si potrebbe dire che la Ferramosca abbia colto il bisogno profondo degli esseri umani più consapevoli che tuttavia non possiedono gli strumenti per mettere ordine nella loro confusa percezione e abbia voluto dar loro voce.

Annamaria Ferramosca adegua perfino il suo linguaggio poetico allo scopo che persegue e che vorrebbe conseguire. In questa raccolta poetica prevale infatti la chiarezza espressiva, proprio per riuscire a raggiungere la mente e il cuore di quanti più lettori sia possibile, perché la consapevolezza delle nostre azioni si allarghi come in cerchi concentrici, come accade all’acqua quando vi si lanci dentro un sasso.
Ecco, le poesie sono i sassi, ma sono anche precisi segni, accesi in tutta la loro luminosità, perché quel che si è mostrato alla poetessa come indice di attenzione possa essere visto e sentito anche da chi voglia capire e interpretare la realtà in cui vive, anche se in modo indiretto, leggendo le rappresentazioni che la poetessa porge con l’insieme dei suoi versi poetici.

E, nel caso specifico di questa raccolta, si tratta di poesie pensate, sofferte, vissute. E come tali raggiungono chi le legge.

(4 marzo 2022)

fare tabula rasa dei pensieri
affidarsi al buio
con la sicurezza dei ciechi

sostare ad ogni angolo della notte
afferrare i lumi al baluginare dell’alba
sulla bocca delle sorgenti
nel luccichio delle nascite

verrà l’oceano
verranno le sue vele
saremo nuovi per nuovi continenti


vedere chiare feroci le nostre solitudini
molecole disaggregata ancora
qualcuno strappa i legami covalenti ancora
la vista si oscura

reagire agli urti come fossero incontri
seguire empatiche direzioni automatiche
– voli in stormo come istinti del nido –
accogliere in gioia i suoni multilingue
quando si traducono solo sfiorandosi
e rifondano città
altrimenti

saremo sirene disperate
aggrappate ai fianchi delle navi
a soffiare note strozzate
sui naviganti legati al palo
storditi dal nostro sperdimento
d’essere solo schiuma d’onde
rumore di risacca


quel flauto di Pan suonava
come retrocedendo nel tempo
chi ascoltava ne era trapassato
sentiva di scivolare
in una terra diafana
di boschi di nidi
dove minimi fuochi
accendono desideri

ritornare là nello spazio bianco
dove il primo flauto era nato
e cantava
già prima di nascere


terra domani

mi dici ho visto in sogno il futuro
come da un’astronave guardavo
la terra venire incontro al suo domani

a tratti s’illuminava tra i rami
di lanterne voci onde vivide
da una mappa poetica sonora
(dal brusio emerge ogni voce
E nitida dice con lance di senso)

e i visi i visi di noi futuri
occhi e capelli lucenti
pelle ibrido-bruna

e le note le note
non più distinte ma
divenute paesaggio
bosco che scivola nella città
savana fusa nel villaggio

vedere caprioli in corsa
su autostrade deserte
e lupe venute a partorire
negli hangar silenziosi

sentire feroce il sole ridere
di noi umani confusi reclusi
a schivare corpuscoli armati
ad attendere lentissima
la chiarezza

 

 

Annamaria Ferramosca è nata in Salento e vive a Roma, dove ha lavorato come biologa docente e ricercatrice, ricoprendo al contempo l’incarico di cultrice di Letteratura Italiana per alcuni anni presso l’Università RomaTre. Ha all’attivo collaborazioni e contributi creativi e critici con varie riviste nazionali e internazionali e in rete con vari siti italiani di poesia.
Ha pubblicato in poesia: Andare per salti, Arcipelago Itaca (Premio Arcipelago Itaca, selezione Premio Elio Pagliarani, Premio “Una vita in poesia” al Lorenzo Montano2020, finalista al Premio Guido Gozzano e al Premio Europa in Versi); Other Signs, Other Circles – Selected Poems 1990-2008, volume antologico di percorso edito da Chelsea Editions di New York per la collana Poeti Italiani Contemporanei Tradotti, a cura di Anamaría Crowe Serrano e Riccardo Duranti ( Premio Città di Cattolica); Curve di livello, Marsilio (Premio Astrolabio, finalista ai Premi: Camaiore, LericiPea, Giovanni Pascoli, Lorenzo Montano); Trittici – Il segno e la parola,DotcomPress; Ciclica, La Vita Felice; Paso Doble, coautrice la poetessa irlandese Anamaria Crowe Serrano, Empiria; La Poesia Anima Mundi, monografia a cura di Gianmario Lucini, con i Canti della prossimità, puntoacapo; Porte/Doors, Edizioni del Leone (Premio Internazionale Forum-Den Haag); Il versante vero, Fermenti (Premio Opera Prima Aldo Contini Bonacossi).
Ha curato la versione poetica italiana del libro antologico del poeta rumeno Gheorghe Vidican 3D- Poesie 2003-2013, CFR (Premio Accademia di Romania per la traduzione).
Sue poesie appaiono in numerose antologie e volumi collettanei e sono state tradotte, oltre che in inglese,in rumeno, greco, francese, tedesco, spagnolo, albanese, turco, arabo.

Un’ampia rassegna bibliografica con recensioni critiche è nel sito personale www.annamariaferramosca.it

Elia Belculfinè

14 marzo 2022

Elia Belculfinè – La rosa rosa  – Ed. Rp.libri 2020

(Recensione a cura di M. Carmen Lama)

 

La rosa è materia privilegiata del canto dei poeti per la sua particolare bellezza, il morbido profumo, la forma dei petali sovrapposti che agiscono in funzione della trasformazione lenta e delicata dal bocciolo alla rosa matura, aperta allo sguardo di chi la ama e in qualche modo anche conturbante.

E poi ci sono i molti colori, compresi quelli artificialmente prodotti, che esprimono significati particolari, tutti riferiti a sentimenti di amore e di amicizia.

È forse per tutte queste qualità, ma anche per la simbologia di cui è stata investita, che la rosa è diventata un oggetto poetico tanto altamente considerato.

Simbologia chiaramente sottolineata da Dan Brown nel suo Codice da Vinci, in alternativa alla mela del mito del paradiso terrestre o alla mela d’oro del mito del giardino delle Esperidi da cui tante conseguenze sono scaturite, secondo l’ispirazione di Omero trasposta nell’Iliade.

 

Un poeta che di recente ha preso a simbolo del suo canto una rosa, e nello specifico una rosa rosa, è Elia Belculfinè, con la sua ultima silloge, edita da Rp.libri nel dicembre 2020, dal suggestivo titolo “La rosa rosa”.

In molte poesie del libro la rosa ha parte in causa in vari modi e contesti.

Il  colore rosa sta a ricordare, in generale, un sentimento di affetto che si declina in amicizia, amore puro, innocente, o anche ammirazione e con l’aggiunta di un apprezzamento della raffinatezza ed eleganza attribuite alla persona alla quale le rose rosa sono dedicate.

 

Non so se consapevolmente e in quale misura il poeta Elia abbia scelto questa specifica rosa per voler significare i sentimenti sopra accennati, o almeno alcuni di essi; basti tuttavia essere certi che sia  riuscito a trasferire, nel suo modo peculiare e originale di poetare, questi sentimenti in diverse poesie della silloge.

Ne darà conferma una lettura attenta e partecipe, che sia in grado di andare oltre la superficie delle parole e dei versi e di estrarne il senso profondo che il poeta ha voluto comunicare.

 

La silloge comprende quattro sezioni, la seconda delle quali suddivisa a sua volta in due parti.

Nella prima sezione, Operando nel fuoco, il poeta sembra mettere in scena un paradigma elementare (elementare perché ancestrale!) dove il fuoco emerge, in ultima analisi, nelle sue connotazioni purificatrici, non senza essergli debitori della sofferenza prodotta dalle bruciature per aver osato avvicinarglisi troppo fin quasi a toccarlo.

Il fuoco a cui Elia allude è il fuoco vivo che tormenta il poeta producendo in lui gli spasmi del creare, del fare artistico, dell’essere investito della necessità interiore di scrivere per riuscire a venire fuori, anche se solo momentaneamente, dal dolore, dalla sofferenza, vissuti come DNA dell’anima, cioè come qualcosa che è intrinsecamente connaturato all’essere poeta.

 

È questo un atteggiamento tipico del poeta Elia che, anche in altre poesie edite o inedite, a cominciare dalle sue prime poesie, non manca occasione per sottolineare quanto “il poeta” debba soffrire (perfino le sue stimmate…) prima di potersi considerare tale.

Ritengo sia molto pregevole il fatto che ancora lo ribadisca, anche se in altri modi, forse più “scottanti” perché più consapevoli, in quanto si evidenzia un dato importante: il poeta più maturo non smentisce affatto le sue prime esperienze poetiche, anzi sempre più le rafforza rielaborandole.

A un attento e partecipe lettore, che abbia un minimo di familiarità con il lessico poetico di Elia, non può sfuggire il senso di questo ritornare sul tema del lavoro “sofferto” del poeta. Era già molto chiaro al giovane Elia, ed egli sa che mai potrà liberarsi di questo tormento creativo.

Scrivendone sembra volerlo alleviare.

Ma le sue parole toccano il culmine, quando scrive, ad esempio, in chiusura della sezione che stiamo analizzando: “Uomo scorticato dai graffi dei tuoi artigli / (Scrivi, ti perdi, o sei paziente, simbiosi e fiamma) / Che più di tutti hai patito il solfeggio della carne”.

 

In questa sezione le poesie si servono dei “correlativi oggettivi” (di eliotiana memoria) che all’apparenza mettono insieme immagini lontane, ma tutte sono finalizzate a rendere l’atmosfera di accanita e instancabile ricerca del poeta, che tenta di affinare le parole rendendole taglienti, urticanti, in linea con le fiamme del fuoco sacro..!

 

Le due parti della seconda sezione, Le allegrie del vino, hanno rispettivamente il sottotitolo I passati e I passanti.

Nella prima, cinque poesie dense di calore, sono dedicate a persone che sono passate per l’esistenza e con le quali il poeta intrattiene un dialogo che forse non era mai venuto meno, neanche dopo la loro scomparsa, e che qui tende a fissare il rapporto di reciproca benevolenza, ricordando (di ognuna) dei tratti caratteristici riferiti al loro modo di essere o di fare.

I versi sono incalzanti, come se il poeta attendesse da ogni destinatario dei suoi versi una risposta, un messaggio.

 

Nella mia immaginazione, è come se il poeta volesse prendere forza dalla loro morte, ed è esemplare il fatto che “Al limite di fiamma, non vi è fuoco che intacchi/ il cuore dei poeti”, e anche questo: che “I morti non muoiono mai, sempredesti filari e vortici”, e anche questo: “Dove vanno i morti, con gerle / di fuochi sulla collina?” […] “Accolgono i poeti…”

E come per i morti il poeta prega “l’amore gentile che si fa la pietra col vento” così si può intuire il suo desiderio di essere ad essi accomunato nel suo destino: che il fuoco non intacchi il suo cuore, che il poeta non muoia mai e che sia a sua volta amato.

Anche in queste poesie le parole fanno le immagini e le immagini rafforzano le parole e creano atmosfere alle quali non si resta affatto indifferenti, perché coinvolgono, chiamano in causa anche il lettore.

 

Nella seconda parte, ancora cinque poesie, questa volta dedicate ai passanti. Ma chi sono i passanti? Sono vaghe figure metaforiche che, attraverso passaggi inaspettati e accostamenti audaci di parole, simboleggiano ancora la Poesia: “Maestra che cuce le vele per i pirati” […] “Ma ciò in cui non vuole / infilare l’ago è la sua lingua lacerata / dall’infamia del suo canto, / che in realtà è un cicaleccio nella grondaia” – quest’ultimo verso a voler intendere l’insoddisfazione del poeta, come se l’esito del suo affannoso cercare fosse un semplice “cicaleccio”.. – e così di seguito, nelle altre poesie, dei versi rivelatori: lo “Sgranaossi”, gli “ofidi colloquiali”, “Tu giungi alla riva della coscienza […] dove i poeti guardano a oriente, coi battiti nelle sillabe..”, “Ermete sul trono / che canta ai poeti la sua tristezza”.

 

Il poeta è inchiodato nella sua funzione e la esplica prendendo a prestito dalla vita quelle visioni che circolarmente lo riportano al suo mondo, alla sua ispirazione creativa, al suo meticoloso lavoro nel quale, in definitiva, non è ancora arrivato se non quasi al punto di partenza.

 

La sezione che porta lo stesso titolo del libro, La rosa rosa, si articola in poesie in cui le rose fanno da sfondo all’azione del poeta, alle sue riflessioni sul destino dei morti, sulla loro vita notturna, sul loro rapporto con i loro morti e sull’essere morti, talvolta, anche dei vivi, o sul credere che “l’amore possa vincere sulla morte / eternamente”, o sul chiedersi se non ci sarà fine per i tormenti dei poeti, (“il peso del verso, con la stessa zavorra delle ombre”), per finire con “Un solo pulsante teorema: la fiamma cantare, / il drappo spregiudicato del tuo dramma / nella singola battuta” […] “Nulla resta, che nulla ci ostacola / agli eterni palpiti dell’usignolo” (qui, un velato omaggio all’usignolo di Keats?). E ancora: “Rifiuta la luce, sovente, la stella dei poeti”.

E nell’ultima poesia Elia codifica la dannazione dei poeti e il “temere per il seggio della mia eternità. Sono / o non sono nella schiera dei poeti?” – esponendosi in prima persona.

Ecco fin dove può giungere il tormento! A intaccare continuamente l’identità stessa del poeta.

 

La silloge si chiude con un bellissimo omaggio a una poetessa di grande talento creativo ed espressivo, con la quale il poeta Elia condivide un sentire che va oltre ogni umana troppo umana comprensione. Entrambi si pongono, infatti, a un livello poetico che è di pochi eletti. 

Cristina Bove è la fortunata destinataria delle ultime poesie della sezione I registri di Marcel. (Elia = Marcelin altra dimensione…!)

 

La prima delle poesie a lei dedicate è una bellissima dichiarazione d’amore, tanto forte e solido è il legame non solo poetico ma anche umano fra i due poeti, come da figlio a madre.

La seconda, un formidabile manifesto poetico, artisticamente perfetto, (già da me analizzato in altra sede) che insiste sulla necessità della ricerca continua del poeta. Scritta molti anni fa, denota l’estrema chiarezza di idee in proposito, già nel giovane poeta..

Tra le restanti poesie vorrei segnalare in particolare la penultima, “Le tue parole alle mie mani..” nella quale Elia si rivolge a Cristina elogiando le sue parole perché gli  “aprono strade di canzoni” e la interpella in modo diretto identificandola come “Anima, ginepro di partitura: musica / sorgiva alle tue dita, maestra…

Ecco, il riconoscimento a Cristina non è solo di essere vera poetessa, ma di più… maestra!

Lo scambio fra poeti è senza dubbio fonte di arricchimento reciproco, ma qui Elia si fa un po’ da parte per lasciare più spazio alla sua amica.

Si percepisce un atteggiamento di umiltà di fronte a una poetessa la cui esperienza creativa poliedrica può lasciare a volte interdetti per la semplicità con cui esprime concetti profondi, avvalendosi non solo dei propri vissuti ma anche delle sue ampie conoscenze in molti campi del sapere.

Ma, giunti al termine della lettura de’ La rosa rosa, non si può che essere certi che Elia non è da meno, e che quindi in questa ultima sezione del libro vi è un dialogo fra “grandi poeti”.

 

La consapevolezza che il nostro ancor giovane Elia dimostra riguardo al suo status di poeta e alle difficoltà che questo lavoro comporta è evidenziata in molti modi, con immagini e metafore molto incisive.

Sembra quasi che egli risieda su un sottile crinale delle parole, perennemente in precario equilibrio e debba trovare il modo di non precipitare. E nei continui e necessari assestamenti sia costretto a correre sempre il rischio, perché sa che ne vale la pena. Pertanto le sue azioni sentono vivamente la fatica, ed è solo quando il canto lo sostiene che riesce a trovare un po’ di sollievo dalla sua sofferenza del vivere in quelle condizioni di fragilità e dalla sua sofferta solitudine. È come essere costantemente in prova, e a ogni prova successiva si alzi il livello ed è come ricominciare.

 

Ma il poeta qui prende a prestito dalle rose la bellezza, la raffinatezza e l’eleganza, anche se connotate da effimera fragilità, e tutte queste qualità trasferisce nel suo stile, offrendo a chi legge una sorta di magia, e se stesso come uno dei sortilegi cui fa cenno,  perché l’alchimia delle sue parole è un dato di fatto che si manifesta come “invenzione del proprio linguaggio poetico”.

Nella lucida sintesi introduttiva di Antonio Bux questo linguaggio viene inteso come musica per “una litania senza fine e preternaturale” dove le parole “anche chiariscono quanto sia dolce sentirsi condannati, e forse anche folli, nel destino di diventare cenere”…

Come le rose, e tuttavia con la certezza di essere stati portatori di amore nel senso bidirezionale di dare e ricevere: il poeta ama le cose che canta ed è amato per il suo canto.

 

 (13 febbraio 2022)

 

Dalla sezione Operando nel fuoco

 

Recrudescenza, nella luna, del tuo male.

Alta sul pioppeto umilia,

gettandosi sulle rotaie, un usignolo dentro i versi.

L’eternità ha il furioso dulcamaro delle olanzapine,

col tuo segreto sfigurato, sorella…

Il giorno è d’autunno, un secolo fa.

Mai vedesti ridere tua madre.

Il suicidio delicato del rabdomante –

Leggervi dolore è un’oscenità comune.

Isolarti al fondo, fra le stelle d’acquitrino.

I poeti sono aria. Non versi? Sei tu a dirlo…

Strappato all’orologio l’orpello della meta.

Corollario, cerca il piatto d’ombre, il sangue col rame.

Sia, fitto di agrumeti, Città Radiante, il sole.

Concrezioni di labbra.

Rime nella notte, mai baciate.

 

Dalla sezione Le allegrie del vino

 

La maestra è una sarta magistrale.

Cuce le vele per i pirati.

E i vestiti alle bambole del vicinato

Coi panni da lavoro del marito

a cui non imbastisce un abito o intavola il piatto.

Quando ha finito si beve un vermut

tra amiche. E se ne va al cinema

con le sue miserie.

Ma ciò in cui non vuole

infilare l’ago è la sua lingua lacerata

dall’infamia del suo canto,

che in realtà è un cicaleccio nella grondaia.

 

Dalla sezione La rosa rosa

 

Smagrita, viva. Ti perdi nelle luci,

ulivo, come sfregiato pianto.

Si agitano i poeti, hanno croci,

sì. I poeti della Pasqua, nel torpore di voci

con rose di sutura sulla bocca. Nella calura d’amianto…

Rosa rosae

Rose rosa. Sulle spoglie della notte, i poeti

affondano nella pietraia fino ai denti.

Ma raccolgono il vino cercatore. Le ulne

al viso, si dannano: l’amore canta lemme lemme

le idiopatie latenti – filigrana scarna – alle culle

affannando. Nessuna fine i loro tormenti? Cara M,

il peso del verso, con la stessa zavorra delle ombre.

 

 

Dalla sezione I registri di Marcel

 

Se non confidassi in te, Signore,

e nel desiderio che tu sia al di sopra

di ogni poeta, il mio canto sarebbe

una nota fissa. Nella carne aperta della tua voce

si ravviva il suono degli uomini.

Dolce creatura, quale musa domani

ci tremerà nel seno! Ma un canto

di solo delirio inaridisce presto negli occhi

il rinforzo di voce alla tua sete.

Se il verso è un campo da arare,

se ogni sillaba è semenza faticosa, credi…

Vedrai spuntare in ogni sguardo

il cereale smagliante della tua parola.


Mi chiamo Elia Belculfinè. Sono nato a Caserta il 29 settembre di qualche anno fa. Scrivo poesie da prima di quella data (mi pare altissimo dirlo, ma non mi prendo molto sul serio, a dire il vero).
Abito a Caserta con la mia compagna.
Elia

il blog di Elia Belculfinè

Patrizia Sardisco

23 ottobre 2021

 

 

                                                                                                                                                  

                                                                                                                                                                   

Lo spettro del visibile, di Patrizia Sardisco, ed Cofine 2021

Recensione a cura di M. Carmen Lama

 

 

Non solo della visione e del pensiero ha bisogno il poeta, ma soprattutto della parola, con cui scalfire la lingua, inciderla, plasmarla.

La lingua poetica non esiste di per sé, ma è creata e ri_creata ogni volta dal poeta, a partire, sì, da una visione, da un pensiero, da una suggestione o atmosfera, ma tutto questo è lo sfondo, la pagina bianca che attende l’esatta formulazione del verso più adeguato a rendere rappresentabile (dicibile) la visione, il pensiero…

È come estrarre una luce dal buio dell’anima, qualcosa che si rivela a lampi, a sprazzi, in frammenti da cui iniziare per ricostruire una figura intera.

Il poeta è come un archeologo dell’anima. Deve essere in grado di decriptare quel che gli si presenta come enigma, come codice segreto.

 

“Vola alta, parola” scriveva Mario Luzi, la parola usurata dal parlare comune non può dire in modo efficace il sentire del poeta.

E anche quando, con un lavoro di lima e cesello, una composizione poetica sembra soddisfacente, il poeta nota ancora uno scarto rispetto alla sua intenzionalità espressiva, la comunicazione  non coincide con la sua visione, si approssima ma non la raggiunge mai del tutto.

 

Leggendo il bel libro di Patrizia Sardisco, Lo spettro del visibile (ed. Cofine 2021, con Prefazione di Anna Maria Curci), ho colto proprio un lavorìo interiore dell’autrice, che sembra utilizzare uno scandaglio mentale per scendere sempre più in profondità, nel suo Io inquieto, alla ricerca delle radici aurorali della lingua, per trovare le parole-cose, le parole-affetti, le parole-visioni-atmosfere, che sappiano dire, appunto, che sappiano rappresentare in forma poetica, l’essenza sottile, quasi ineffabile, del suo sentire.

E ogni volta è un doversi impegnare, darsi da fare con determinazione, come cercando in un magma incandescente, fino ad accontentarsi almeno di un percorso di senso, ma con la consapevolezza che forse c’era dell’altro, nel fondo, nel centro, nel cuore -del sentire e della lingua con cui esprimerlo- e che la ricerca dovrà continuare.

 

Molte sono le poesie della silloge nelle quali questa “soddisfazione a metà” emerge quasi con disappunto; alcune invece rivelano una rassegnata consapevolezza, che si presenta quasi come modalità didascalica, come se la poetessa volesse avvertire chi legge che ci sono cose – eventi – situazioni non dicibili una volta per tutte, non in tutti gli aspetti, non con la precisione che ci si potrebbe aspettare e a cui la stessa poetessa aspirava.

 

La bellezza dei componimenti poetici del libro ‘Lo spettro del visibile’ sta soprattutto nei molti e diversi modi di cercare la parola perfetta (o almeno, quasi perfetta..) e in quel tentare di mostrare le diverse facce rifrangenti di un prisma in cui si riflettono i mille colori delle parole, con le loro sfumature-nuances di significati, e nell’assegnare loro il posto più adatto nel verso e nella poesia tutt’intera.

 

E poi anche il lettore si trova come imbrigliato in una sorta di rete i cui nodi sono mobili e ricomponibili, “snodabili”, e si è condotti per nuovi sentieri di senso, per significati insospettabili alla prima lettura.

 

Nella ricca e approfondita Prefazione di Anna Maria Curci e nella interessante Recensione di Luigi Paraboschi (alle quali rimando) sono esplicati diversi spunti per una comprensione più puntuale, con citazioni ed esemplificazioni di versi, di poesie utilizzate e utilizzabili come chiavi interpretative, che hanno attirato anche la mia attenzione (ma che non riporto qui per evitare di ripetere quanto già ben espresso da altri)

 

E credo che questa silloge sia imperdibile, non solo per quanto fin qui evidenziato, ma anche perché lo stile della scrittura poetica di Patrizia Sardisco si avvale di una cultura ampia e di una espressività originale e, pertanto, leggere e approfondire il significato di poesie come queste de’ Lo spettro del visibile è come entrare in mondi nuovi, tutti da esplorare.

 

(M. Carmen Lama, 7.9.2021)

                                    

                                    

                                   

il residuo non cessa
di emettere segnali

amputare la mano dopo il tiro
continuare a saperne
la posizione le sensazioni tattili

del dolore sottratto
resta la sottrazione, l’assenza di visione
la bruciatura plastica sull’orlo
l’urlo fantasma che sutura il foro

                                                    

                                        


                                     

                         

fare della reticenza fiato
dell’astensione morso segno
usurare
la lingua torcerla al verso
darsi la direzione tra i picchi delle onde
decidere tagliare
la frequenza coattiva la catena
scantonare forse
forse cantare

                                   

                                 


                         

sembra vuoto ma è materia mobile

il lume tra tutto questo
andare e il mio restare
muta in sostanza, dico
qui riconosco un guado, ve lo mostro

ma non si guarda, non si sente un ponte
lo si passa

                                

                                   


                          

Chiedi a una rosa
se è colta o pronunciata
o se è recisa.

Sia detto che la rosa
non sbavava
per travasarsi in rosso
in un decanter

rubra dentro al suo cono
emergente incidente
era e danzava iperurania e sparsa
chiusa ma in sé esclamata

né sbocci né sboccature
non traboccava
restava, non rosa
rosa.

 

                               

Anna Maria Curci

20 gennaio 2021

   Luigi Paraboschi recensisce OPERA INCERTA di Anna Maria Curci
ed. l’Arcolaio 2020

La grande poesia (e questa della Curci lo è) possiede la capacità di saper leggere la storia attraverso gli elementi temporali nella quale viene scritta.
Può talvolta accadere che le parole nelle quali ci si imbatte sembrino poco connesse alla logica espressiva che è propria di ciascuno di noi, così il genere di poetica della Curci manifesta tutta la sua ricchezza e profondità solamente dopo una seconda o terza lettura.
Se si legge “Opera Incerta” non tenendo presente lo spessore culturale dell’autrice, se non si presta sufficiente attenzione alla sua capacità di essere ironica con se stessa e di conseguenza anche con chi legge, non si arriva ad afferrare il significato di questi versi di “Atlantina“, dove l’autrice sembra parlare a se stessa, ma nel finale indica con chiarezza quali errori si è indotti a giudicare quando si opera “senza gli occhiali“ necessari per esaminare in profondità ogni cosa.

“ innaffia i tuoi sensi di colpa/ piega la schiena / fustiga le reni// non basta ancora dici/ e gonfi il petto/ però con quello non trascini pesi // pensavi di aver fatto un buon affare/ allo spaccio dei miti senza occhiali/ scambiasti per la bella corridora un ricurvo complesso// 

e la stessa annotazione attorno all’uso discreto dell’ ironia vale anche con questi che chiudono la poesia Controcanti:

“come Parzival al primo tentativo/ ancora pecchi di acuta discrezione./ Il passo indietro nella lista di attesa : altre sportule reclamano attenzione“.

Leggendo la raccolta mi è parso che la tecnica di scrittura sia spesso costruita “per esclusione” cercando di costringere il lettore a fermarsi e a domandarsi le ragioni e i perché Curci lungo il suo cammino poetico ( già iniziato nel libro precedente a questo “Nei giorni perversi “) stia scegliendo di non farsi coinvolgere nel vizio che spesso si riscontra in poesia, quello di dire troppo, e decide di diventare sempre più rarefatta nel manifestarsi.

E’ lo stesso discorso che si può fare parlando di pittura, quando di osservano i lavori di due artisti, Pollock e Rothko, che hanno operato contemporaneamente in America attorno agli anni 40, 50 del scorso secolo. Se Pollock ha manifestato la sua genialità adottando la tecnica dello “sgocciolamento“ del colore sulla tela, sovrapponendolo ed incrociando  fino ad ottenere il risultato voluto, Rothko ha invece operato “per sottrazione“, cioè togliendo quanto più fosse possibile al colore, eliminando ogni elemento figurativo e disponendo man mano sulla tela numerosi strati dello stesso colore in tonalità sempre leggermente differenti per giungere alla fine al risultato di presentarci un quadro composto esclusivamente di quadrati o rettangoli con due o tre colori differenti da quali si evince il lavoro sottostante all’ultimo.

Lo stesso lavoro fa Curci e cercherò con qualche esempio di chiarire meglio servendomi dei versi di questa poesia a pag. 22 intitolata “Avvento“ che trascrivo verticalmente affinché non si perda la sua essenzialità:

Fosse sempre serena come oggi
questa proroga
attesa protratta
gioie minute

in scatole modeste

Dentro soltanto cinque righe l’autrice ha saputo condensare l’attesa che è contenuta nella parola “proroga“ e ha detto di sé e del proprio gioire per l’attesa di un avvenimento che sta per arrivare dopo l’Avvento, usando quel ” in scatole modeste “ che possono racchiudere tante cose, avvenimenti, umori e amori, insomma tutto ciò che fa parte del fatto di possedere un corpo e di conseguenza essere contenitori di emozioni.

Anche con la poesia e non solo con la pittura può succedere che ciò che leggiamo o vediamo ci costringa a leggere e rileggere, come pure osservare e riosservare un quadro, lasciando poi dentro di noi un senso di incapacità a comprendere fino in fondo il pittore o lo scrittore come a me è successo con i versi della poesia a pag. 24 “Stendo al sole“

“Stendo al sole fasce per polsi / con cura, dopo averle lavate. / Tendo la tela rossa/ e i miei pensieri”//

e mi sono sentito smarrito e confuso, incapace di afferrare sino in fondo quanto di astrazione e di concretezza vi sia in quelle “ fasce per polsi “ e in quella “ tenda rossa “.

Scrive Francesca del Moro nella sua acuta e profondissima postfazione che di fronte al lavoro della Curci non si può essere “lettori passivi“ e non posso che concordare con lei. La sua poetica non si può liquidare con un semplice “like“ o un “cuoricino rosso”, occorre entrare nella selva di riferimenti culturali ai quali l’autrice si aggancia, con speciale riguardo ai poeti o autori in prosa da lei incontrati nel lavoro di traduttrice.

Un altro elemento del quale occorre tenere conto è il continuo mettersi in discussione, il dubitare di sé, il timore di non essere all’altezza delle aspettative, come scrive nella VI parte della poesia “Controcanti“:

“Come Parzival al primo tentativo/ ancora pecchi di acuta discrezione/. Il passo indietro nella lista d’attesa:/ altre sportule reclamano l’attenzione “

Curci è colei che sempre si rimette in gioco ; ecco nella stessa poesia alla III strofa:

“… In permanenza oscillo/ tra il balzo all’utopia/ e l’orrore tranquillo“

L’adesione che è quasi immedesimazione a quanto lei traduce, la condivisione ai personaggi o ai testi, che riscontriamo bene nel verso di questa a pag. 37 esprimono l’immediatezza del suo giudizio attorno alla versatilità della Storia:

“Dal pascolo al patibolo è un salto/ dietro le tende cifra la menzogna/ e batte i denti“

e la chiusa è una domanda che essa rivolge sia a sé che a noi che leggiamo e che si può banalizzare chiedendoci se ci si può salvare dal narrare il falso interpretando la storia o semplicemente raccontarla, oppure si finisce sempre col ricorrere ad un linguaggio servile.

Questi sono i versi “c’è via di scampo dal fumo perenne/ o resta il bivio di falso autorizzato/ e prosa da scudieri ?//”

La fierezza della cultura, lo sdegno di fronte ai falsi della letteratura e della critica letteraria si toccano in questa poesia di pag. 38, dedicata a Cristina Campo dentro i quali vibra con forza un giudizio sferzante nel confronti dei molti che–anche in poesia- distribuiscono banalità:

“imperdonabile inattuale resti/ neghi a chi archivio ti vuole dolente/ e lorde liquida cambiali unte,/gabelle d’aria fritta, campionario// di impenitenti solite sconcezze:/ nichilista, utopista, apripista,/ autodafé alimenta per i gonzi/ ghiotti solo d’altrui gozzoviglie/”

Così anche la poesia di pag. 39 ci pone di fronte al sentire di una persona abituata a leggere, a dare un giudizio su ciò che legge e a dubitare sempre dello stesso (le omissioni), a riflettere di conseguenza sulla nostra collettiva incapacità di agire:

“più degli omissis temo le omissioni/ le sommosse mancate contro l’inanità”

Le certezze, i dubbi, la fragilità che ci riguardano sono tutte messe sulla carta dall’autrice, esposte con poca misericordia e commiserazione; Curci è severa con il suo dire, specie durante l’insonnia, come leggiamo a pag. 44 nella prima strofa:

Quando il coltello si aggira tra il consueto/ è troppo tardi per scapole ciarliere: Parole penzoloni, la baldanza/ è farina, cade a pioggia //”

e l’affiorare della paura, sentimento che talvolta attraversa tutti, la lascia sgomenta e sofferente “Potessi ripiegare i giorni addietro, / al mio passato si affiancherebbe morte con il volto scoperto, compagno di picozza e di sentiero. Con altro riso m’incamminerei //”

perché il vivere non è mai una passeggiata e neppure chi ha lo sguardo “rivolto al cielo” si può sentire tranquillo se non aggrappandosi a valori perenni come la cultura, la lettura o la musica, e tutto ciò è elencato nella poesia di pag. 51 dal titolo “Kit di sopravvivenza“, ove troviamo:

“dosi massicce di sopportazione/ sordina a false rivendicazioni/ sguardo rivolto al cielo o a un filo d’erba/ un libro spalancato o uno spartito”

Forse la parte meno criptica di “Opera Incerta“ è quella nella quale appare l’aspetto socio-politico della scrittrice, quando visitando il cimitero acattolico a Roma di fronte alla tomba di Gramsci, si sente toccata dalla presenza-assenza di questo grande pensatore che la induce a scrivere a pag. 62 versi dentro i quali si legge tutta l’amarezza per aver forse scordato o tralasciato il suo pensiero:

“E qui mi fermo sempre/ penso ai tuoi scritti/ al tempo ad altre soste// Anni addietro lasciammo i nostri segni/ scansate foglie/ sospese le parole//”

Anche la guerra rivista nel ricordo della madre, allora ragazza, ”l’ 8 settembre 43 “- che si mise in fuga tra i monti per cercare rifugio, e pure il ricordo dolente di quella bambina assassinata dalle SS a S. Anna di Stazzema nell’ Agosto del 44, e la visita, calvario doloroso, al campo di concentramento di Birkenau di cui sente di dover scrivere:

“Non sediamo sui fiumi a Babilonia,/ ma il nostro pianto è in piedi e scuote il vento“

Non meno importante è l’attenzione al problema delle migrazioni, affrontato nella poesia “Angelos“ di pag. 76 in cui la poetessa immagina di dialogare con un angelo che sotto vesti umane la soccorse assieme al fratello quando un giorno furono sul punto di annegare, ed è la stessa figura che nell’immaginario dialogo afferma:

“Sono migliaia adesso e non per gioco / Tuffarsi per salvare più non basta/: Lo schiaffo arriva:“perché ha detto “mostro“? non più il rassicurante “mare nostro“?/ Parlo per lei per noi che sconteremo/ mani a premere teste giù nell’ acqua/ il lezzo criminale dei proclami/ e la complicità che allaga il male nostro“.

Il libro si chiude con un omaggio affettivo e sentimentale, una poesia che definirei dolce e accattivante, ricca di tenerezza e di devozione, prova tangibile della profondità dell’ affetto figlia/madre, che tocca il cuore del lettore senza abbandonarsi a sentimentalismi banali, che sa commuovere specie in quel “facevi volare nel mattino“ di pag. 88

“non so se sono ancora la bambina/ che facevi volare nel mattino/ nitido e freddo nel sole di dicembre// La casa, poi il mio asilo nido e la tua scuola/ dove trafelata ti mutavi,/ lingua-madre diventava il francese// So che di tanto azzurro mi rimane/ un fiocco, il cielo in testa e ’occhio desto,/ pegno d’incanto, balzo, testimone”.

E quel fiocco dentro il cielo è un tocco pittorico non alla Rothko ma, questa volta, alla maniera luminosa di Claude Monet.

Luigi  Paraboschi

8 gennaio 2021

 

Barcaiola

Siedi sull’altra riva e getti l’amo.
Io traghetto.

Nella scalmiera remo
bisbiglia con cadenza.

Lei, la tua mobile sostanza, smesse
le vesti torbide, mi accoglie.

Quando riprende il volo la speranza,
cocciutamente sai che non è fuga.
ascolta, su, porgi l’orecchio

ascolta, su, porgi l’orecchio
dirama la conversazione
traduci e chiedi, leggi e annota,
discerni e associa sotto il cielo

Dell’Angelo

Restano mute le parole di prima,
la luce stempera il bruno della crosta.

Tace il rancore, e l’ala ripiegata
aspetta l’altra, insieme voleranno.

L’occhio che anticipa e la mano protesa
accolgono il sorriso, dopo tanto.

Controcanti
I
“Bau bau baby” mi viene da cantare,
un ringhio contro il dì, paradossale,
moderata cantabile eversione
(nuovo marcio che avanza è minestrone).

II
E puoi anche negarti,
nel regno delle madri
(non sfugge, la bellezza,
dimora, sosta, danza).

III
Parto indotto o realtà,
questo è solo un dettaglio.
In permanenza oscillo
tra il balzo all’utopia
e l’orrore tranquillo.

IV
E quella goccia non si perde e viaggia
e si trasforma: ogni replica è prima,
indica vie di fuga tra le quinte
o svela il ben celato sul proscenio.

V

Leggo la musica della pazienza,
talvolta inciampo sulle biscrome
e all’improvviso, ecco: cadenza.

VI

Come Parzival al primo tentativo,
ancora pecchi di acuta discrezione.
Il passo indietro nella lista d’attesa:
altre sportule reclamano attenzione.

Sale

Stanza tutta per me è un’espressione
che aggrinza le mie labbra ad un sorriso.
Di rimpianto, tu dici, tu che sai
che l’esclusiva sempre fu preclusa.

Invece l’ho trovata, l’ho inventata
in fogge disadorne eppure piene.
Due reti e un cassettone a soggiornare
con Il trono di legno e La ricerca.

Accolse una poltrona grande e lisa
gli esercizi sgraziati alla chitarra.
Ora è un ramo proteso di ligustro
a guidare lo sguardo, ogni risveglio.

Nelle sale remote puoi entrare
a patto di scostare le cortine
di sfondare i tramezzi in truciolato
di sopportare il peso d’esser sale.

Iris indaco

Tenue e tenace sogno solitario
iris indaco aroma della cerca
ombroso nella prole variopinta
bivio tra sensi desti e l’oltremare.

Ti invoco ancora e già torna la sera.
Distendo le narici rattrappite
da frenesie di smerci afrori spicci.
Aspiro e al fondo guidi l’immersione.

Tu rannicchiati dentro l’anagramma,
cerca lo schermo, cerca il nascondiglio.
Pure ti scoveranno, non badare
alla torma dei cani, avido strazio.

Teresa Valentina Caiati

16 giugno 2020

Foto libro Frange di interferenza

“Frange di interferenza” di Teresa Valentina Caiati (Quaderni di Poesia Eretica Edizioni, 2019) è una pregiata cornice di ricerca poetica, una fusione musicale in uno sfondo sensoriale, metafora di desiderio e di nostalgia, associata al senso di vaga ed indefinita malinconia, contenuta nell’indugio compiacente di sentimenti e passioni comuni, resti emotivi corrispondenti alle tracce lasciate e alle relazioni salvate dal deterioramento interiore. I versi accordano la sovrapposizione di rumore e silenzio, l’incrocio invadente di verità e illusione, misurano l’intonazione delle attitudini umane, l’intensità e l’ampiezza del linguaggio nel suono articolato della poesia. La superficie dell’anima è la memoria decifrata dalla traiettoria esistenziale dello spazio e rivela la sua presenza, nella direzione del tempo e scorre arredando i margini del conflitto intimo. La poetessa rende visibile il principio luminoso del suo percorso aggirando gli ostacoli nella propria esperienza quotidiana, celando il profilo netto dell’ombra che delinea il suo cammino. La percezione profonda di essenze reali distinte, l’osservazione cromatica degli accidenti e delle note, rivelano l’interferenza delle emozioni e la fenditura dei confini in chiaro-scuro della sensibilità. Teresa Valentina Caiati assiste il mutevole ed inaspettato coinvolgimento della realtà elevando l’approfondimento periferico degli eventi con la spontanea ed istintiva melodia della sua centrale interpretazione e avvolgendo la singolare e delicata bellezza dei destinatari che cingono la seduzione gotica ed oscura delle vicende, dei luoghi e delle immagini. La poetessa affronta il destino di una solitudine che è al centro di tutto e attraversa l’impenetrabile cupezza, girovaga ed inquieta, di ogni inesprimibile relazione umana contro l’ineluttabile fissità del cuore smarrito e confuso. La curva impercettibile delle parole oscilla nella volontà intelligente e condiziona le scelte, fa da scudo alle sensazioni. Assorta nella quiete dell’assenza, la visibilità del ricordo non si dissolve ma dilata le intuizioni emotive, come se custodisse il segreto della consistenza e della necessità della vita. La testimonianza umanistica della poetessa è un patrimonio potente e fedele allo stupore, sostenuto da quella brezza, misteriosa ma espressiva, che soffia sull’esasperata consuetudine di ogni esulante condizione, pena che non allontana il perpetuo e spontaneo corso del tempo e destina al richiamo solitario la coscienza reduce. La direzione esclusiva ed imperturbabile dei pensieri sosta su una piccola nicchia sospesa, affatturata nel segreto delle discordanze che regolano la tensione esatta di quanto è trascorso o di quanto è lontano.

 

Rita BompadreCentro di Lettura “Arturo Piatti”

 

 

 

Il talento

 

Il talento

è l’aggettivo superlativo

posto dinnanzi ad un nome.

Tutt’intorno fa stragi e razzie

e senza termini di paragone,

governa, assolato e indisturbato,

nell’impero grammaticale dei sogni.

 

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Noi altri

abbiamo insenature

e promontori sulla schiena

simili alla gobba di Leopardi

per il peso crescente

cui la natura sottopone.

Incompatibilità di sistema.

 

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La bellezza

 

Riconosco la bellezza

quando l’orizzonte s’allontana

e un pensiero gli va in soccorso.

In un istante

sono lì

dove ancora non sono.

 

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Il destino

 

Ogni volta che mi fermo

contemplo il destino

scorrere, imperterrito,

su quella strada parallela

al mio incedere lento.

 

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Le occasioni

 

Le occasioni

sono loculi sempre aperti

in cui dimora

da lontano

l’ansia esitante

di non avere fine.

 

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D’un tratto

 

D’un tratto capii

che solo il ritmo genera l’amore,

così presi a pensarti con la stessa frequenza.

 

Teresa Valentina Caiati nasce a Bari e si diploma in pianoforte e organo. Ricrea, attraverso la musica, il connubio con la poesia, sua profonda passione. Sue composizioni sono state incise ed utilizzate in video e performance artistiche d’avanguardia. Attualmente insegna educazione musicale a Milano.

 

Recensione di Giuseppe Martella a “La simmetria del vuoto”

1 giugno 2020

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Il tratteggio: C. Bove, La simmetria del vuoto, Arcipelago Itaca, 2018.

Nella sua perspicua e illuminante prefazione, Anna Maria Curci propone la parola tedesca schweben, “fluttuare, stare in bilico, esser sospesi”, come chiave di lettura di questo testo e della intera poesia di Cristina Bove. Seguo questo suggerimento e aggiungo altri due termini, sempre di ambito tedesco: Ausdruck: “espressione, frase, detto” ma anche “sguardo e voce”. Da cui Ausdruckweise: “fraseggio”. E poi Abgrund: “abisso, pendio, precipizio, salto nel blu.” Etimologicamente “assenza di fondamento”. Filosoficamente, quest’ultimo termine indica infatti il fondamento nullo del nostro essere al mondo, tra realtà biologica e rappresentazione psicosociale: la terribile simmetria del vuoto. Tra fluttuazione e spro-fondamento dell’esserci si svolge infatti il fraseggio poetico di Cristina Bove.

Una triangolazione fra le costellazioni semantiche di Ausdruck, Schweben e Abgrund (espressione, bilico e abisso) può svelarci il luogo proprio e offrici l’orientamento di fondo della versificazione di Cristina Bove, cioè anche una cartografia del suo dire (Dichtung). C’è infatti nel termine Ausdruck (espressione, manifestazione, frase) un nesso fra sguardo e voce, assente nei suoi corrispettivi italiani, che implica quel cooperare nell’espressione poetica dell’occhio e della mano, che Walter Benjamin già indicava come la virtù precipua dell’antico cantastorie, il suo saper trarre da una tradizione condivisa le formule verbali e le alchimie del verso e della performance, il suo saper catturare e tenere avvinti gli ascoltatori nel giro della frase, nella reciprocità degli sguardi, nella cerchia dell’ascolto, che è la base di ogni circolo ermeneutico. Da qui parte la mia ipotesi: il dettato (Dichtung) di Cristina Bove sta sempre in bilico sull’abisso del proprio esserci. Una ipotesi che coniuga quell’esitazione fra suono e senso che Valery indica come carattere saliente della poesia, con la sua funzione primaria di testimonianza e terapia della finitudine e precarietà dell’essere al mondo insieme ad altri.

Una poesia della soglia, dunque, e del filo: liminale e sorvegliata. Filata sulla sottile ragnatela del carro della regina Maab (in Sogno di una notte di mezza estate) ma anche tessuta con la dedizione e la sapienza con cui Penelope tesse e disfa quella tela che è il sostrato comune del canto di tutti gli aedi dell’Odissea, Ulisse compreso. Una struttura flessibile, leggera e ferrea, come quella di un ponte d’acciaio teso sopra l’abisso. Quando indicherò nella maestria del fraseggio (Ausdruckweise) una sua virtù caratteristica, intenderò anzitutto questo convenire dello sguardo e della voce, questo accennare, nell’intervallo minimo fra pause e battute del verso, a un altrove, a quel fondo da cui emergono tutte le sue nitide figure, nel saper cogliere il tempo giusto (kairòs) perché la grazia (charis) della parola incarnata risulti efficace. Il dettato di Cristina Bove è danza graziosa sull’abisso che si intravede nella luminosa trama (nell’ultrasenso e nell’oltreluce) delle sue figure, nel chiaroscuro impeccabile, dei suoi versi.

Questa espressione dell’esserci come esser tra, frammezzo, sospeso e intrappolato nello stesso atto del dire, di tracciare percorsi e indicare luoghi, e costruire una dimora per abitarla, è forse il senso eminente di questa simmetria del vuoto. I suoi versi intrecciano una danza fra dettaglio e disegno, fra macro e microcosmo, dove risuona, nella squisita e tenace volontà di forma dell’io poetico, l’eco sfinita della risata tragica dell’es stretto “nel labirinto delle sue mutazioni”. (13) In una serie di attributi felicemente variati di un soggetto-fondamento mancante, volatile, spro-fondante appunto in un interminabile salto nel blu – quel colore che pare essere il preferito della nostra autrice, a giudicare dalle composizioni di videoarte che spesso ne accompagnano i versi sul suo blog e su Facebook. E’ un verde-blu iridescente che, attraversando la gamma dei colori, pare sfumare nel diafano da cui ci invia riflessi di figure, sovrimpressioni, fantasmagorie. Ecco: la trasparenza è un’altra caratteristica dei versi di Cristina Bove, nel senso intuitivo del termine (poiché si tratta di figure luminose, leggere, sfumate) ma anche in quello del confine sottile che passa tra riflessione e rifrazione di un raggio di luce. Del punto cruciale in cui un medium qualsiasi, in parte assorbe e in parte riflette il messaggio luminoso. Così come la memoria riflette l’evento rifrangendolo nelle molteplici tangenti delle sue figurazioni inconsce. Quella di Cristina Bove è anche una poesia della trasparenza e della soglia, una esplorazione dei limiti del diafano nel linguaggio: una videoarte del dire.

La sapiente variazione dei suoi versi equivale all’intero gradiente di rifrazione dei corpi al messaggio della luce. In questo senso, anche le figure del suo discorso assumono la valenza di una fantasmagoria in cui trascendenza e immanenza si incontrano come il riflesso e la frattura di una immagine in un punto sulla superficie della rappresentazione. Pertanto le figure in sospensione nei versi di Cristina Bove si possono considerare anche come degli ologrammi, delle produzioni sul foglio di carta di immagini tridimensionali, attraverso il reticolo di diffrazione dei suoi versi. Ologrammi metafisici che coniugano riflessione e rifrazione, trascendenza e immanenza, manifestazione ed essenza del nostro essere al mondo. In una sapiente orchestrazione della “toccata e fuga di se stessi” (44), tra valenze aforistiche e chiusure epigrammatiche, tra sottolineature e motteggi, nonsense e paradossi.

Il lievitare misurato della parola rigenerata (logos egeneto), il fraseggio accurato, l’equilibrio di una versificazione interstiziale in cui la espressione sapiente riunisce la mascherata della vita e quella dell’arte, facendone un bilancio lucido e mirabile, spassionato e implacabile, realistico e visionario, dove nell’umana confessione si può leggere talora in palinsesto una dichiarazione di poetica. (54) Il fraseggio di Cristina Bove si svolge in una fluttuazione caratteristica tra l’espressione linguistica come manifestazione dell’esserci e il suo fondamento nullo, cioè anche tra figura e fondo, linguaggio e silenzio. In questo senso, la sua è una poetica del tratteggio e della sottrazione, dell’adombramento e della sospensione sistematica di ogni (pre)giudizio di esistenza. Una fenomenologia e una ermeneutica della finitezza e dell’impermanenza, a tutti gli effetti, che spesso si esprime per calembours e paradossi, intesi come controlli severi ed esperimenti cruciali sui limiti del nostro linguaggio e della visione del mondo che su di esso si basa. L’insieme di questi giochi linguistici converge graficamente poi verso il punto, da una parte e il trattino basso, dall’altra. La punteggiatura, nella poesia di Cristina Bove in generale, risulta pressoché assente ma tale assenza indica il suo esser tra le righe, il suo essere stata completamente assorbita (sospesa, messa in mora, epochizzata) nel fraseggio e nella versificazione. O se si preferisce nel fondo del suo dettato poetico. Tranne che nell’unico caso, nella presente raccolta, in cui compaiono dei puntini di sospensione (61) a marcare l’irrazionale poetico. O in quello, assolutamente singolare, della poesia dal titolo esplicito, “.mettere un punto” (86), dove il punto appare in posizione anomala, a inizio frase, e messo in correlazione coi trattini bassi  che compaiono nell’ultimo verso del componimento. L’uso del trattino basso è invece estremamente frequente, nell’intera poesia di Cristina Bove, fungendo quasi da supplemento alla punteggiatura rarefatta e indicandone infine lo sprofondamento nell’abisso della dizione. I trattini bassi, vera e propria ossessione grafica della nostra autrice, croce e delizia dei suoi editori, non sono certo un vezzo ma costituiscono il tratto distintivo della sua versificazione, il suo svolgersi al limite dello spro-fondamento del discorso, del riassorbimento delle figure della espressione (Ausdruck) sul fondo (Abgrund) della nuda vita. L’uso del trattino basso, il tratteggio ritmico-semantico che funge da basso continuo della sua versificazione, costituisce inoltre la condensazione grafica di quel fraseggio (Ausdruckweise) e di quella lievitazione del dire (Schweben) che ho indicato all’inizio e che caratterizzano in modo inconfondibile la sua poesia. Mentre il punto anomalo è qui manifestazione grafica della coincidenza delle varie prospettive, o fasci di luce coerente riflessi-rifratti dal s/oggetto della rappresentazione, a costituire quella configurazione ologrammatica del discorso che ne rappresenta un’altra caratteristica saliente. Il punto, infine, qui segna il limite di quella funzione di dis/orientamento al mondo che è propria della poesia in generale, ma che qui assume tutti i connotati di una ascesi della parola e di una sobria composizione del luogo del discorso attraverso un costante esercizio di eliminazione del superfluo, in una pratica della sottrazione che è da attendersi in una poeta che è anche scultrice e il cui alter ego, in una recente raccolta, appare come “Una donna di marmo nell’aiuola”.

*

Per corroborare la linea ermeneutica adottata, sarà ora opportuno fornire alcuni esempi di ordine tematico-strutturale. A partire proprio dalla messa a punto della propria poetica che  Cristina Bove compie nella poesia prima menzionata (“.metter un punto”) e che val la pena citare per intero, per dare una idea dello spessore e della consapevolezza del suo dire: “Per solidificare la parola estinta/_il suo vissuto termina sul foglio_/magari farle un monumento/solo di interpunzioni/dedicarlo ai poeti che non scrivono/           Mi ci metto/perché non ho mai scritto un bel silenzio/perché non ho saputo eliminare/una vita di sillabe/           mi arrendo nel mimare un’esistenza/_tra due trattini stesi_”. (86) Questa lirica è nel contempo un compendio della sua poetica e una convalida di quanto abbiamo osservato: tutta giocata com’è sulla linea d’ombra, sulla lievitazione tra vita e forma, mondo e linguaggio, cose e parole: su quello schweben che abbiamo menzionato all’inizio e che implica anche una sorta di sospensione del giudizio di esistenza  (o epoché trascendentale) del mondo ricevuto, che qui viene messa a tema e in forma, tutta racchiusa fra il punto anomalo dell’inizio e i due trattini stesi alla fine, che insieme sottolineano e sdoppiano, sottendono e mettono in mora, il valore dell’enunciato, cioè della loro stessa verbalizzazione. Questo per dire tutta la sottigliezza, complessità, condensazione, humour, ironia e lucidità di cui è capace Cristina Bove. Che qui in partenza si esercitano sullo statuto stesso della poesia, “la parola estinta” in quanto “il suo vissuto termina sul foglio” e dunque anche il luogo in cui la vita trapassa e si fissa nella parola. E su quello dei poeti, che vengono chiamati in causa con elegante sprezzatura, come coloro che nutrono “una vita di sillabe” ma che non riescono mai a giungere al cuore del reale galleggiando sulla superficie del discorso.  Una sprezzatura che però presto si volge in autoironia poiché lei stessa afferma di non aver mai  “scritto un bel silenzio”.

In questi versi, metricamente calibrati e variati, vien fuori la perfetta congruenza tra la fluttuazione metafisica e il fraseggio poetico, come tratto fondante e distintivo della versificazione di Cristina Bove. E si tratta di una declinazione singolare e memorabile di quello Unter-Schied (differenza-relazione o interferenza fra linguaggio e mondo) che per Heidegger costituisce il sostrato della poesia in quanto tale e che qui nel testo di Cristina Bove si traduce graficamente nell’uso insistito del trattino basso. Si tratta dunque di una messa a punto onto-logica del proprio dire che si esprime poi in un metro e in una sintassi meravigliosamente esatti e variati, in un minidramma della ipostasi della parola scritta che, fra peripezie e riconoscimenti, squisitamente infine si arrende al silenzio che la attende. Per cui questa ironia che non fa sconti, questa umanissima certificazione dei propri limiti, umani e poetici, finisce per tramutarsi infine, in virtù del suo proprio stesso disincanto, in una muta domanda che esprime tutta la pietà del pensiero. E infatti, nel componimento seguente, il tratteggio poetico rivela la trama esistenziale da cui è sotteso: “le questioni mai risolte/tra la vita e la morte” (87). Quella sospensione dei mortali che sanno di “esistere per poco” e null’altro sapendo sospettano di essere solo “sogni/di un dio che ad ogni suo risveglio/ha già dimenticati.” (ibid.)

Ma la fluttuazione ontologica è endemica nella poesia di Cristina Bove, e i suoi tratti ritornano in una molteplicità di profili e intagli come accade, con evidente allusione alle opere di Lucio Fontana, nella poesia “Fontaniana” appunto, dove il taglio della tela di un quadro appare come un “varco tra pensiero e corpo” (83) e pertanto assume la valenza metafisica del frammezzo, “la zona franca aperta sulla tela” fra essenza e apparenza, in quel continuo dialogo fra essere e coscienza che si svolge nei suoi versi, senza che le due parti possano mai veramente scindersi né coincidere, (“_perché il male ci dispensa dall’amalgama_”), (ibid.) come monadi che danzano alla cieca il ballo in maschera dell’esistenza, in bilico sul filo del rasoio, in attesa di una finale messa a punto di cui ignorano il tempo e il luogo. Questa arlecchinata metafisica ha peraltro già avuto un’esposizione magistrale nella splendida “Maestri (s)concertatori” dove “in un emiciclo di ripercussioni”, (44) l’intera sinfonia dell’esserci appare intesa a “lustrare gli occhi spersi di chi sa/che tutto muore/come le note già suonate/nella toccata e fuga di se stessi.”  Su questa stessa pratica della espressione  fenomenologicamente sospesa sul fondamento nullo dei suoi trattini bassi, del fraseggio come correlativo verbale del frammezzo esistenziale tra dettaglio e disegno, nomi e cose, essere e coscienza, si veda per esempio anche l’impeccabile umorismo di “Inquilini e scalatori” dove ci si può esprimere solo “Per interposta ragnatela”, (53) perché “non si trova il modo/di dare un altro nome a ciò che accade”, e ci si trova “intrappolati ai muri e ai versi”, presi in tenzoni futili, quasi dimentichi che “tanto sarà per poco” e che ci tocca “nel frattempo/vivere di miracoli a ritroso/esserci quanto basta”. E dove infine la charis (grazia, dedizione e cura) di ogni dire risulta funzionale a riempire il frattempo che ci divide dall’attimo fatale.

L’equivalenza tra frammezzo esistenziale e fraseggio verbale, viene sviluppata ancora nella lirica che segue, “Considerando il dentro e il fuori”, dove la sinfonia dell’esistenza trova ulteriori accordi nel tenore metapoetico del testo e la commedia umana nuovi scenari, (tra dentro e fuori, tra essere e coscienza), un intero copione di metafore gastronomiche che riconducono l’ispirazione poetica alla sua base organica, mentre la poesia appare ancora una volta come farmaco (rimedio-veleno) contro il male di vivere: “sta quasi per accendersi la festa/si pronuncia l’antitodopoesia da bocca a bocca” per render il “mondo commestibile” e chiudere gli occhi sui “_transiti scatologici_”/di questa mascherata cromosomica/che ci consegna ad un perenne oblio.” Mentre “l’aria che si annida negli alveoli, ad ogni inspirazione/incendia le apparenze e ci consuma/           malgrado innumerevoli varianti, siamo carboni ardenti”. (54) La ironica e spassionata demistificazione dell’arte sfocia infine, nella lirica seguente, in quella della religione, dove “il dio dei fallimenti programmati/in palinsesti onirici” (55) per non farci accorgere “che non esiste porto/né un orizzonte per colare a picco”, viene rappresentato in tutta la sua comica impotenza mentre “è lì che aspetta il sorgere del mondo”.

Su questi incroci prospettici fra realtà e rappresentazione, si producono dunque quelli che ho chiamato gli ologrammi poetici di Cristina Bove, nel senso degli incroci di prospettive o di raggi laser sull’oggetto che appare così traslucido e multidimensionale. Ma anche nel senso di una inclusiva grammatica della creazione che sa mettere insieme dettaglio e disegno, in una fantasmagoria dell’esistenza che è nel contempo lucidissima e visionaria. Questo “Paradigma ologrammatico” (significativo anche in vista delle sue applicazioni all’arte digitale di Cristina) trova d’altronde una esatta definizione nella lirica eponima, dove lo sdoppiamento e la fluttuazione ricorrente fra essere e coscienza, dettaglio e disegno, micro e macrocosmo, trovano una messa a tema e una definizione esplicita: “è che assistiamo/_contemporaneamente_/ad ogni tempo della nostra vita/il vivere e il morire a ogni momento/essere il sognatore ed il suo sogno”  perché “di fronte ad uno schermo/siede il frammento e tutto l’universo” (50): un disegno frattale impeccabile che va ad arricchire l’ologramma poetico-esistenziale, in cui lo sdoppiamento di essere coscienza, reso in una costante variazione aspettuale e prospettica, distillato nell’alambicco di un linguaggio senza fronzoli, genera quella geometrica veggenza che caratterizza la poesia di Cristina Bove: “immagine riflessa _pupille come fori_/negli occhi innumerevoli e diversi/attraversati dalla stessa luce/un solo aspetto/eppure il tutto riversato in esso/nell’illusoria percezione che/ci si veda soltanto un po’ per volta”. (ibid.) E qui si nota chiaramente come l’oscillazione caratteristica del dettato di Cristina Bove, non riguarda soltanto i diversi livelli di realtà ma anche l’ordine temporale dell’accadere, muovendosi tra due tagli verticali (Kairoi), l’attesa dell’evento ineludibile della morte e il ricordo non già della nascita, ma di un evento traumatico, di un tentato suicidio, in una notte “del trentuno agosto/che lei precipitò dalla ringhiera/e poi si addormentò sul marciapiede” (83). Evento che assume però qui i connotati gnostici della metempsicosi, di una caduta dell’anima nella prigione del corpo, segnando l’inizio di quel dialogo fra sé e sé, di quello sdoppiamento, prospettico ed esistenziale, e di quella veggenza  che caratterizzano la poesia di Cristina Bove: “io me ne andai/lasciandola sul posto_ venni al mondo/pagandomi l’accesso dal balcone.”, “Però le ho sempre raccontato tutto/e lei non ha mai smesso di volare/_non si ricorda d’essere atterrata_/:sogna di me piombata sull’asfalto/sagoma disegnata con il gesso/e nel suo sogno lei si crede viva/ed io nel mio fingo d’essere morta”. (ibid.) Questo dialogo fra self and soul, che mi ricorda una splendida poesia di W.B. Yeats, costituisce l’arco teso su tutta la poesia di Cristina Bove, l’arcobaleno iridescente che contiene tutte le sfumature della sua veggenza e i magnifici doni che essa sa offrirci, e che a mio parere fanno di lei uno dei maggiori poeti viventi, ancora in attesa di un pieno e doveroso riconoscimento.

Giuseppe Martella

http://www2.lingue.unibo.it/romanticismoold/membri/Martella/Martella_Giuseppe.htm#top

 

 

Rita Bompadre

15 marzo 2020

Foto libro Nulla di ordinario

 

Il libro di Michal Rusinek “Nulla di ordinario su Wislawa Szymborska” (Adelphi Edizioni) è una memorabile e privilegiata visita alla spontanea ed affabile dimora della poesia, luogo devoto dell’ispirazione e placida permanenza dello stupore e dell’immensità, nell’inattesa meraviglia di  ogni appuntamento persuasivo con la vita. La vita di Wislawa Szymborska si intrattiene in un gradevole colloquio seguendo lo sguardo unico sui suoi versi, ospiti graditi che infondono viva fiducia e compiuta ammirazione. Michal Rusinek, il suo giovane segretario, insegue testimonianze e fedeltà per più di quindici anni accanto ad una fascinazione privata e muove ogni particolare curioso ed inedito, confermando la singolarità degna di memoria che nutre la biografia della poetessa. Le parole, parole di poesia, ripercorrono attraverso l’intensa partecipazione affettiva il contenuto di un’incondizionato amore per il talento, per la capacità intellettuale non comune e rincorrono la vivace tradizione di irresistibili esperienze letterarie, sensibilizzano il desiderio di fermare nel non luogo della scrittura lo “smisurato teatro” dell’esistenza. La luminosa gioia della storia narrata aggira e cattura la sorgente avventurosa dell’animo umano, riconosce lo sguardo felice e carezzevole che si sofferma sugli aneddoti spiritosi e stravaganti legati alla poetessa, sulle sue provvisorie abitudini di traslocare, sulle sue amabili qualità nel cucinare, sulla squisita disponibilità alle cene e alle lotterie, sulla passione per i collage artistici. Le gradite atmosfere della vita quotidiana cedono alla fantasia delle immagini, alla voluta segretezza della complicità, nelle conversazioni e nei comuni interessi, nei suggerimenti letterari e nelle dichiarate risate che hanno caratterizzato il legame distintivo tra Michal Rusinek e Wislawa Szymborska. Leggere Wislawa Szymborska è una scelta e un’opportunità elegante a mantenere il dubbio”stupefacente” per la grande compiacenza del mondo, per proteggere la propria affinità, assecondare la propria esclusività, adottare in ogni intonazione un modo di essere e di comportarsi. La dilatata imponenza del suo linguaggio, convince il rispettoso gioco delle parole con acuta ed ironica filosofia e respira nella struggente inevitabilità la profondità dell’intero ventre della poesia. L’immutato elogio della poetessa da parte di Michal Rusinek descrive un’eccentrica nostalgia dei luoghi e delle persone che accoglie l’ombra di un passato non perduto ma che esibisce la veloce, inafferrabile ostinazione della volontà a ritirarsi nell’inconfondibile senso dell’umorismo. La poetessa assorbe l’aspetto meditativo con la leggerezza raffinata, è delicatamente distante da tutto e dove “ogni parola ha un peso non c’è più nulla di ordinario e normale”. L’amicizia che ha convinto il segretario a seguirla fino alla fine ha lo stesso bisogno di solitudine che imponeva la poetessa nel momento in cui nascevano le sue poesie, per rendere universale il rituale attrattivo di ogni riservata confidenza.

 

Rita Bompadre – Centro di Lettura “Arturo Piatti”

https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/

 

Il giorno dopo – senza di noi

La mattinata si preannuncia fredda e nebbiosa.
In arrivo da ovest
nuvole cariche di pioggia.
Prevista scarsa visibilità.
Fondo stradale scivoloso.

Gradualmente, durante la giornata,
per effetto di un carico d’alta pressione da nord
sono possibili schiarite locali.
Tuttavia con vento forte e d’intensità variabile
potranno verificarsi temporali.

Nel corso della notte
rasserenamento su quasi tutto il paese,
solo a sud-est
non sono escluse precipitazioni.
Temperatura in notevole diminuzione,
pressione atmosferica in aumento.

La giornata seguente
si preannuncia soleggiata
anche se a quelli che sono ancora vivi
continuerà a essere utile l’ombrello.

Wislawa Szymborska

Claudia Zironi

10 dicembre 2018

Lettura di Luigi Paraboschi

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Variazioni sul tema del tempo
poesie di Claudia Zironi

Credo di poter dire, senza timore di essere contraddetto dall’autrice, che il tema del tempo costituisca quasi una costante di tutte le sue raccolte, a cominciare da
Fantasmi, spettri, schermi, e avatar da cui stralcio :
A un certo punto il mondo ha rallentato
…non so bene quando è successo…
il mondo era invecchiato

Che Zironi pensasse che il tempo abbia rallentato e invecchiato il mondo, e il flusso degli anni abbia trasformato e si sia portato via i nostri migliori sentimenti, lo si poteva già intuire e dedurre dal finale di questa altra tratta da Eros e polis ove, forse parlando di sé stessa, preconizzava un destino di morte, di oblio e di sconfitta al quale però siamo inevitabilmente destinati tutti:

Sei nido della rondine /a settembre, destinato /all’abbandono. Servirai /da concime alla terra / dei nuovi ramoscelli /che culleranno uova

Ma in questa ultima raccolta lei affronta ancora e con maggiore impegno e attenzione quasi scientifica il tema temporale, costruendo all’interno di tutto il suo lavoro scansioni letterarie chiamate: Ucronie-Eterocromie-Eucronie-Discronie-Sincronie-Ur-cronie-Diacronie dentro ognuna delle quali inserisce testi a suffragio del tema principale che è
“il tempo“.

In tutti questi “paragrafi“ o “capitoli“ del discorso poetico sono inseriti testi che davvero spiegano il significato dell’intitolazione ad essi assegnata, e ritraggono ciò che sarebbe potuto succedere se un preciso avvenimento storico avesse assunto un andamento differente.

E’ una sorta di “sliding doors“ letterario nel quale Zironi immagina di viaggiare con la fantasia attraverso luoghi geograficamente precisi ( la Finlandia, Stoccolma, Santiago, Il Cile, la Fossa delle Marianne, Istanbul ) per proporci testi a volte leggermente angoscianti per quel senso di solitudine e di lontananza che mi hanno fatto riandare al romanzo “La strada“ di Mc Carthy, per la visione desolata di un mondo sopravvissuto ad un disastro ecologico o nucleare.

Poiché in un testo essa scrive: ”per scrivere di cose profonde/ ho scritto di curiosità geografiche “, non ci resta che seguirla nel divenire poesia di queste “cose profonde“ il cui sviluppo lascia il lettore a volte spiazzato, come in questa:

Avevo- forse ho-qualche parente a Padova/.Ci sarò stata due o tre volte in tutta la mia vita/ ricordo solo la chiesa, la piazza/ ma è uno di quei posti che diceva mia nonna/ suona familiare/ come se ci avessi perduto qualcosa/”

ma lo spiazzamento arriva da questo verso folgorante che chiude il testo “Guarda per me nel fiume“.

La spiegazione di questa volontà di disorientare il lettore mi è apparsa più chiara da questi versi di un’altra:

“Sei mai stato una gazza?/ disposta in fila con altre trenta su un cavo/ nel sottotetto, che guarda/ te che sospiri scacciando l’idea/ di un nuovo amore/. E sei mai stato il tuo letto?/ che accoglie l’insonnia, le mani, il calore/ come fosse il suo corpo/. Sei mai stato il treno che ascolta/ i tuoi nuovi pensieri cosi azzurri/ come fossero raccolti di fresco in un campo/ E sei mai stata l’aria che lei respira? Il pipistrello/ che le vola davanti alla finestra ? Sei mai stato la sua bocca, i suoi occhi/ il suo seno?/ da quando ti conosce//”

Ancora una volta, come nei precedenti lavori, affiora in Zironi uno sguardo sul mondo che pare volere celare una invocazione di aiuto, la volontà disperata di vincere l’inevitabile trascorrere del tempo e di volerlo piegare alle esigenze di un cuore sempre bisognoso d’amore e di contatti umani, malgrado quella che a un lettore frettoloso potrebbe quasi apparire aridità o quanto meno indifferenza.

Se non ci si sofferma sul disincanto racchiuso in questi versi, sul loro nichilismo:

“non è infinito l’universo/ è il nulla-meno qualche cosa, esiste/ per sottrazione al nero/ ma Tu/ sei come il tempo

se non ci si lascia influenzare dal contenuto di questi altri:

“E se un giorno svanissero/ i pensieri la luce non esistesse più/ la percezione/ dello spazio né quella del freddo, non ci fossero/ più nervi ad accogliere il dolore/ nessuna voglia nel ventre, un grande/ silenzio./ Il tempo/ fosse una macina per ossa/ Se un giorno restasse solo questa sensazione/ di non servire a niente//

e si va oltre la prima reazione di sconforto, tornando sui differenti testi di questa raccolta ci si può rendere conto che l’anima di questa artista possiede angoli di sensibilità eccezionali capaci di venire fuori con tutto il loro vigore,e la loro forza espressiva come si può dedurre dal finale di questo testo che segue, malgrado sembri essere stato dettato dallo scetticismo più globale:

“Misurazioni effettuate hanno dimostrato/ che l’ innamoramento sul pianeta Terra/ nell’uomo dura circa tre mesi, nella donna/ un anno, dopo sei anni c’è la sopportazione/ quando va bene,/ poi solo fastidio, la possibilità/ di incontrare l’uomo dei sogni è pari/ a quella di trovare il libro di Urizen/ su una bancarella, arrivata a cinquant’anni/ ogni donna libera dichiara guerra/ all’amore e alla coppia, ogni uomo/ di pari età corre appresso le ventenni…..“

se non fosse che il riscatto dalle parole precedenti e dallo sguardo disilluso che si apre su una realtà abbastanza diffusa viene fuori da questi versi della chiusa che dicono :

…”mi spieghi/ per quale statistico motivo/ mi hai sorriso ?“

Ma l’anima che cerca il sorriso che nasconde l’attrazione, è la stessa anima che la induce a trattenere i sogni nella tasca di un cappotto nel quale ha rintracciato un rettangolino di carta (forse un biglietto d’ingresso a qualche locale) e di conseguenza scrivere: “… quando ho letto ho ricordato/ un piccolo prezzo per un anticipo d’estate/ per il sogno di un’intera vita./ L’ ho rimesso tra i rifiuti/ nella tasca, e la fa ribadire l’ostinazione di voler riattivare un rapporto che sembra esaurito. “Ti cercherò tra le spighe e i papaveri/ imbiancati, nelle tane lasciate vuote/ delle pietre, nonostante il frastuono/ dei gabbiani ti cercherò tra i vescovi/ in conclave, tra le sabbie delle mie parole e/ tra le rose senza nome, tra tutti gli uomini/ mancati nel millesettecento, tra le madri/ che non hanno avuto figli. /Se c’è una possibilità di ritrovarci/ non la lascerò intentata, il giorno / della fine del mondo //

La speranza dell’incontro va al di là del fluire inevitabile del tempo e culmina nello splendore di questa ultima che riporto per intero:

“ci sono cose che capitano./ Accade di nascere comete/ o solo di nascere, come di morire/ cadendo in un fiume/. Capitano strambi incontri/ dove i silenzi non sono/ contemplati, accade di traversare/ il deserto e il mare./ Può capitare di imbattersi/ in un astronauta per strada/ e non saperlo. Può essere/ che quando si aprono le mani/ per sentire il vento freddo/ della notte qualcuno le stringa/ e si parli dell’amore//

Luigi Paraboschi 13.10.2018