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Silvia Secco

15 dicembre 2018

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Lettura di Luigi Paraboschi

 Se le parole che un poeta usa con maggior frequenza sono le spie che ci aiutano a comprenderlo, ciò che in buona parte serve per identificare il nucleo del suo “ sentire “,- visto che  in questa raccolta la Secco usa i sostantivi “ Neve “ “ Pane “ , “Sete e Fame “  con molta frequenza-, non posso non  domandarmi quale sia la parte di sé che essa maggiormente tende a valorizzare, se il corpo o lo spirito, ma propendo a superare la fisicità dei sostantivi elencati per lasciarmi sedurre da un’altra spia del suo essere persona, gli esergo che essa antepone alle varie parti del suo lavoro.

Si sceglie un “esergo” per  fare una introduzione al lavoro che si intende sottoporre al lettore, ed anche per rendere omaggio a qualche autore importante per la nostra formazione, e la nostra autrice  ne evidenzia alcuni  che elenco per aiutare ad inquadrare i vari temi che essa svolge

il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome
e per citarle bisognava indicarle col dito. (Gabriel Garcia Marquez)
Tutto ciò che con ogni amore e afrore di paese
doveva difenderti (Andrea Zanzotto)
della città importanti io mi ricordo Milano (Ivano Fossati)

Se è vero che scriveva Marquez che “ le cose bisogna indicarle col dito “ a me sembra che già dal lavoro precedente “Canti di Cicale “  Secco avesse lasciato capire che il titolo del lavoro attuale fosse già in cantiere quando da allora  indicava al lettore che: Interni al mio ventricolo sinistro/maturano segreti di amarene
e  infatti questi sono i frutti che lei si decide a cogliere ora, quando scrive  del lavoro di cui sto parlando:
io qualche decina di amarene/mi covo nel grembo. Per voi preparo/un pane in dono, minuscolo ed agro.

Ma  aveva anche dichiarato da prima:
All’amore/occorre tacere, come alla neve cadere./Occorre accarezzare, se brucia soffiare. /Placare se serve, lenire.

Le amarene che Silvia ci offre sono talvolta acidule, com’è nella loro natura, e lasciano in bocca un sapore brusco, e quindi il lettore dovrà cercare di addolcirsela girovagando tra i numerosi passaggi morbidi di questo libro.

Il dolore del cuore prorompe dentro la riflessione che essa conduce parlando di  fatti di cronaca recenti, episodi di violenza su bambini e bambine accaduti nel sud del nostro Paese, fatti che hanno turbato le coscienze di tutti per la loro drammatica evoluzione.

E l’urlo di dolore non prorompe ma si tocca con mano perché la poetica di questa autrice è sì tutta giocata con parole che esprimono  fatti e avvenimenti tragici, ma  lo fa sempre con il pudore e la riservatezza che la delicatezza degli argomenti richiede, come in questa  dedicata alla bimba napoletana  di pochi anni, abusata e poi gettata dal terrazzo di casa,  una storia horror raccapricciante.
Leggiamo  questo testo per intero:

le bamboline salgono le scale/dei palazzi con le ginocchia sbucciate,/le ciabattine. Portano nomi come/caramelle. Suonano alle amiche/per giocare sulle terrazze sgombre/delle antenne, a unire i puntini dei nei/nella forma del lupo. Indossano/magliette preferite con le ali /contano i loro anni, fino a sei. Poi /si chiudono la bocca con le mani/gridano la faccia dei padri. Fanno il salto, volano giù otto piani.

Si legga attentamente e con pazienza i versi di questa che segue, si analizzi la delicatezza delle espressioni usate, il pudore dei gesti, la riservatezza nel raccontare i fatti, ma anche la precisione quasi pittorica di quella sofferenza fisica derivante dal dolore per la violenza subita.

Nove anni, piedini nei sandali /e i malleoli uniti, ti dondoli / nel piccolo male d’ossicine. /Nove anni e spingi pianto e groppo /giù, ginocchio contro ginocchio/ giù, più forte un malenorme/ giù dal bruciore dell’occhio/giù nel cavo della pancia che è un tondo/ liquido mondo bambino. /Nove anni e stringi che non si spanda/- sopra il cesto del bucato dove siedi /nemmeno tocchi terra con i piedi -/Fingi di farfalle nelle ragnatele /e mani senza dolo da tenere /magari solo per attraversare.

Come non avvertire tutto il dolore che c’è in quel “ malenorme” nel cavo della pancia, come non vedere quello stringersi delle gambe affinché quel dolore non fuoriesca dal corpo, come non rendere concreto sotto i nostri occhi il disagio di quel muovere i piedi che non arrivano a terra ?

Le bamboline salgono le scale /dei palazzi con le ginocchia sbucciate, / le ciabattine. Portano nomi come /caramelle. Suonano alle amiche /per giocare sulle terrazze sgombre /delle antenne, a unire i puntini dei nei /nella forma del lupo. Indossano /magliette preferite con le ali /contano i loro anni, fino a sei. Poi /si chiudono la bocca con le mani /gridano la faccia dei padri. Fanno il salto, volano giù otto piani. 

Le possiamo vedere queste “ bamboline “ con le loro magliette da pochi soldi, le ciabattine strascicate ai piedi e la drammaticità dei versi finali ci fa comprendere meglio il significato dell’esergo ricavato da Zanzotto: Tutto ciò che con ogni amore e afrore di paese /doveva difenderti .

Non c’è protezione né salvezza neppure gli odori di casa, niente difende il cavo della pancia di quelle bimbe, nulla le protegge dai lupi che si aggirano attorno al cesto del bucato sul quale siedono dondolando i piedini.

Ma teniamo presente anche la “neve” che, come ho ricordato all’inizio, è una costante frequente nel versi della Secco, e non occorre possedere troppi studi di psicologia per intuire che  vuole rappresentare uno slancio inconscio verso una serenità ed una pulizia interiore della quale l’autrice sente la necessità, come in questi

Insegnami il coraggio dei papaveri/ai margini di strada, l’ilarità/di certe spighe, a spasso con le folate./Fammi capace di gentilezza/- l’erba sul piede nudo, l’attitudine del sasso/a tacere le erosioni, la pazienza che hanno i pesci/coi costumi dei bagnanti – dammi la fede del frutto/che maturerà come ne ha la neve, in altitudine/a maggio inoltrato.

Questi versi sono una invocazione quasi trascendente ( la trascendenza non appare mai troppo evidente in questa raccolta, ma la si sente, la si tocca anche se non è nominata ),si avverte un bisogno di “ gentilezza “, la necessità di essere spontanea come i papaveri sul ciglio dei fossi, la rassegnazione del sasso che ignora le erosioni del tempo e delle intemperie, e la fede nei risultati che verranno.

 Ancora  la poesia

Impareremo dalle cime la vertigine,/la libertà dal gatto di morire solo. Avremo pietà/- come la terra per il fieno, all’ora della falce -/un biancoridere di scogli davanti al mare./Impareremo a eliminare dalla calce, dalla brace/a trattenere. Avremo sete e avremo fame:/la sete di chiarore della rosa/l’urgenza degli uccelli di cantare./Avremo comprensione nelle mani,/la stessa fame d’ossa degli anni, dei cani.// 

e sottolineo questo bisogno di “ trascendente “ che sarà finalmente soddisfatto un giorno quando avremo imparato dalle cime la vertigine, quando la nostra fame di ossa che hanno i cani sarà saziata, per evidenziare meglio come in Secco vi sia un  tormento  esistenziale così ben espresso da questo esergo di apertura al libro:

 “Tu sentissi come come mi urla il cuore questa litania. /Mi urla come un bambino “.

Ma quando avremo imparato la libertà del gatto di morire solo “ allora sapremo farci concavi per diventare capaci di raccogliere il dolore

…Essere pozzanghere, per similitudine /di condivise profondità, voragini e spaccature/ loro, come le persone. /A raccogliere gocce fuse alle gocce noi /ci diciamo luogo, raduno di piccole cose cadute.

……………. perché scrive più avanti   il nostro destino è  che “ Mai saremo promesse alla quiete “.
Eppure un luogo esiste sembra dire l’autrice per raggiungere quella quiete desiderata, occorre ricercarlo anche :

……….. Dentro la città, dentro le righe/fra le lastre delle pavimentazioni,/ci fioriscono le mani, e sono fili/d’erba nuovi e sono vivi: quadrifogli/che si fanno avvicinare/……….…..ci rassomigliano per illusione…..

L’illusione scompare dentro la scoperta della personale “ pavimentazione “ , quella interiore che è capace di non farsi soffocare e lascia crescere così quadrifogli, anzi genera quei filari di rose che i contadini fanno sbocciare agli inizi di ogni filare di viti, ed è la scoperta di possedere radici ciò che dà all’autrice di “ appartenere ad una patria “ 

Vien vardàre, mi hai detto. Il filare/finisce sul fiore, ognuna delle tue/rose è sana. E nel minuscolo tondo/del chicco/ancora non succo né acino/e nel ventaglio della foglia e nello/slargo del palmo della tua mano/e ovunque fra il passo e l’erba, io mi fiuto/un buono di pelle che è il nostro odore/e dove mi trovo, figlia. Appartengo/a una patria.

Quell’espressione dialettale con cadenza veneta che appare all’inizio è un invito che qualcuna di famiglia, la madre presumibilmente,  le rivolge quasi come  incoraggiamento a soffermare lo sguardo sul tondo di quel chicco d’uva che sta crescendo,- nuova vita-, e la induce a scoprire quell’odore di buona pelle che è la certificazione di origine, l’identificazione con qualcuno che fa parte di noi, è il coronamento di quell’espressione trovata poc’anzi che diceva:

………dammi la fede del frutto/che maturerà come ne ha la neve, in altitudine/a maggio inoltrato.

 e anche di quest’altro verso che  dice parlando delle pozzanghere   :……….Concedere ai bambini di entrarci, di saltare/nudi, con la felicità dei loro gridi.

Una volta trovate la radici delle rose del vigneto, è facile ritrovare anche quelle del proprio destino di donne legate alla stessa pelle, allo stesso colore del suo tessuto, alle stesse linee del destino, come leggiamo:

 Senti come fa rumore, una foglia/sulla strada sopra il letto delle foglie/sopra l’anulare/- l’oro della fede/che dopo appartiene a mia madre -/Senti com’è uguale anche la grana della pelle/a ripensarla, e uguale è il colore/di sua madre, di mia madre e di me/mano a mano, con gli anni che disegnano/le linee, questo destino che ci scrive/una separazione.

La parte più amara di questa raccolta è l’ultima, quella che si fa precedere da quell’esergo iniziale:

Bocca sulla bocca ti ho mentito/l’inutilità di questa frode
Prima, nel lungo tempo anteriore, non ho fatto/ che levare -una lettera alla volta del tuo nome/ quando lo chiamavo, ed era già in tutte le parole/ nelle canzoni di Fossati della bocca e del vapore/ vasto, come un città -Milano, io mi ricordo: lascivo la casa allora, disadorna e  feroce/ e bianca di latte e coperta di lenzuoli, come accade/ dopo la lotta e la rivoluzione/. Ma tu mi hai scritto che saresti arrivato alle otto./ Hai scritto alle otto, arrivare. Hai scritto/- immaginata mia primavera- arrivare:/ mia nuovo curva lunare, virgola d’esplicitazione,/ stato di quiete mio. Arrivare//

Secco esce con queste ultime poesie dalla dimensione del dolore particolare ed assume veste di persona che si interroga sul proprio destino, ma anche su quello di coloro che verranno, si domanda  che ne sarà degli anni:

Quanto, quanto avremo/ perduti i prati che non torneranno, non i prati/. Non rimarrà prato alcuno/ Non più gemmeranno i tralci, si seccheranno/ e germi nelle cavità dei legni li marciranno/ e nessuno, né rami né foglie, neppure gli acini/ ripareranno dalla crudeltà del bianco:/ gemere vuoto di luogo disabitato, abbaglio di bianco/ sul bianco del muro

Decisamente l’andamento di questo lavoro della Secco è ineccepibile come svolgimento;  ci prende per mano, l’appoggia al suo grembo a ci lascia togliere i frutti amari che esso raccoglie; parte dal dolore che trasuda da ogni poro del nostro vivere, passando attraverso la sofferenza del proprio vissuto privato

A noi dicono, invece, ce ne sarà per degli anni./Che ci faremo anziani, e alla cura non basterà la neve. /Ma allora come faranno i figli. Come le madri ,/ il bestiame, il torrente o la piena, le vigne /e il grano, oppure il piano a sopportare /nostalgie di tre sillabe – alcun orizzonte, /trincee in luogo di alture, cicatrici incapaci/a guarire – e noi incapaci, a spaesaggire.

E quella crasi “ spaesaggire “ ci fa  approdare  a una conclusione avvilente, disillusa e sconfortante servendosi di un linguaggio anticonvenzionale, privo di retorica, scarnificato all’eccesso, sfrondato da ogni tentazione sentimentale anche nella parte del proprio privato affettivo, ma temo che queste amarene non saranno le ultime che dovremo aspettarci di questa giovane autrice già al terzo libro di poesie.

 

 

 

Silvia Secco

31 ottobre 2018

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È un libro di transiti da un tempo anteriore a un’esperienza tutta viva del presente, questo di Silvia Secco. Ed è anche un libro che, a partire da una consapevolezza collettiva della specie (declinata al femminile), giunge a mettere a fuoco la vicenda esistenziale, appunto narrata in presa diretta, di un Io sensibile. Tuttavia, a differenza di altre esperienze poetiche che inscenano un rapporto di inesausta metamorfosi fra l’umano e il grande scenario del mondo e dei suoi fenomeni, il tempo lineare della psicologia e quello circolare di ciò che chiamiamo Natura (la terra e i suoi frutti, le stagioni e la fenomenologia del cosmo), queste Amarene non si abbandonano mai a una facile soluzione di identità antropomorfica e di correlazione oggettiva d’ascendenza ancora simbolista. Piuttosto, ogni contatto e ogni possibile configurazione di rappresentabilità che provi a intrecciare l’esperienza umana e la molteplicità ciclica dei moti naturali richiede un processo di dolorosissima rigenerazione e di rinascita. Le grandi metafore attorno alle quali si compie la meccanica profonda di questo bellissimo libro a fondamento liturgico – senza mai essere, si badi, confessionale – sono quelle del concepimento, del dolore ad esso connesso e poi del parto e della neve, che funzionano a diversi livelli di metaforicità e di costruzione progressiva del senso. Resta solo da mettere in rilievo l’originalità di un simile lavoro, difficilmente confrontabile con poetiche espresse da una medesima generazione: piuttosto con certi esiti dello Zanzotto più libero da giochi di significante o da echi lacaniani, quello di Dietro il paesaggio o di Vocativo, per intendersi. D’altra parte, agli appassionati e ai lettori di poesia d’ambiente bolognese era nota da tempo la crescita costante di Silvia Secco. Questo libro, per compattezza tematico-stilistica e per intensità intonativa, la consacra ai livelli più alti della poesia di oggi.

Alberto Bertoni

 Testi dall’ultima sezione:

L’alba.
Balla l’erba di gioia
come un mare.
_ _ _

Dentro la mia piccola casa di ringhiera,
la mattina, quando non ci sono, entra sempre
la luce. Si muovono le gatte, parlano fra loro
il linguaggio bianco degli angeli minori,
marcano l’aria coi rumorini croccanti del cibo
e delle fusa – sottili legnetti spezzati –
Fuori, sul ballatoio, respirano piano le piante
che ho portato – appese alle inferriate si riposano
nel freddo – si asciugano i lenzuoli. È questa
la mia tregua: parla per ore al telefono di notte.
Ore ed ore all’orecchio nella notte delle città,
mentre l’orecchio lo sente battere forte, il cuore
Somiglia tanto alla pace, da farla sembrare una cosa.
E io che la tocco, la annuso, dico che questa è la tana,
ventre di mia gestazione. A primavera,
a primavera tutto si schiude. Io mi preparo.

_ _ _

Dentro l’ingombro minimo del nodo
di tutte le amarezze, le carezze mancate alle mani
dormi amore mio il tacere dei morti,
la parola in punta di lingua quando non viene.
_ _ _

Dentro di me si corica il maestrale
quando vieni, dorme come un bambino
dall’uno all’altro colmarsi dei satelliti
– la luna e Io – del sistema solare.
Si fa guardare immobile, ammansito,
che alla fine tacciono in me l’aspro e l’amaro.
Vieni, sempre di notte qui nell’ora dei frutti
(io solo due parole temo). Tu fammi un prodigio
di quiete: calmami più forte il cuore.

_ _ _

Dentro la notte mi nuotano i pesci,
parlano con me senza emettere suono
antichissime storie degli abissi, epoche
che gli uomini, animali e foglie
abitavano le acque – liquidi nei liquidi –
e le dita, e perfettamente le labbra
di tutte le bocche e di tutte le mani
che si erano unite nel tempo anteriore
si riconoscevano di nuovo.

Io ti aspettavo, con gli occhi che hai
mutevoli – d’acqua e d’altro, come mio padre –
Ti ho pensato a lungo prima,
similitudine interna di pace.
Luna compiuta sopra la casa.
_ _ _

Prima, nel lungo tempo anteriore, non ho fatto
che levare – una lettera alla volta del tuo nome
quando lo chiamavo, ed era già in tutte le parole,
nelle canzoni di Fossati della bocca e del vapore
vasto, come una città – Milano, io mi ricordo:
lasciavo la casa allora, disadorna e feroce
e bianca di latte e coperta di lenzuoli, come accade
dopo la lotta e dopo la rivoluzione.
Ma tu mi hai scritto che saresti arrivato alle otto.
Hai scritto alle otto, arrivare. Hai scritto
– inimmaginata mia primavera – arrivare:
mia nuova curva lunare, virgola d’esplicitazione,
stato di quiete mio. Arrivare.
_ _ _

Pensa a ciò che non resiste, i boccioli
il desiderio e la pazienza, l’umano
vivere. Questa maestà di magnolia
del giardino a breve si vestirà da sposa.
La guarderemo bianca – seta, e lieve
ronzio delle api – e non la toccheremo.
_ _ _

La notte lasciamo aperti gli scuri
per la luna quando si fa guardare,
per un sogno di pettirossi guardiani
sopra il davanzale. Siamo protetti,
addormentati, dai sussulti primordiali
che generano foglie, i loro sinuosi
movimenti in ascensione nelle acque
del pianeta. Vegliano sul nostro sonno
anche gli esseri dell’aria – come il tempo,
gli antenati – Noi diamo al prodigio un nome
preciso.
_ _ _

Le parole del mattino ripetute all’orecchio
io ti amo, ripetute al mattino all’orecchio del sonno
nell’ultimo anfratto del sonno, deposte nel cavo
grembo di ogni equilibrio e di ogni memoria. Le parole
io ti amo del mattino mandate a memoria, ripetute
e ripetute, depositate come un monile d’argento
nel cavo – delle nostre mani abbandonate, dell’orecchio –
nel sonnolento cavo della logica, nel tempo
ancora cavo del mattino, dentro – minimo embrione
d’argento, ciondolo di profezia e fortuna – Io,
io ti amo, le parole ripetute nel tempo, le antiche parole
madre e padre del tempo, ripetute al mattino all’orecchio
nel sonno del tempo, nelle profonde cavità senza suono.

SILVIA SECCO
– 25 novembre 1978 – nasce a Sandrigo, in provincia di Vicenza. Dopo la maturità artistica, da Breganze (VI), si trasferisce a Bologna dove vive. Attualmente lavora a Milano. Scrive in italiano e in dialetto alto-vicentino. Sue poesie sono state premiate o segnalate in alcuni concorsi nazionali. Alcuni testi poetici compaiono nelle antologie dei premi, in riviste, o sono pubblicati in rete. Alcuni testi, inoltre, sono contenuti in antologie collettive (Sotto il cielo di Lampedusa, annegati da respingimento – Rayuela Edizioni -, Muovimenti, segnali da un mondo viandante – Terra D’Ulivi Edizioni – Poesia di strada 1998 – 2017 – Seri Editore -, La pacchia è strafinita – Versante Ripido con KDP Amazon -).
In prosa ha curato la presentazione di alcune esposizioni fotografiche ed artistiche, in particolare per la pittrice Martina dalla Stella (www.martinadallastella.com); suoi articoli e recensioni ad altri autori si trovano nella rivista Le Voci Della Luna e nella fanzine on line per la diffusione della poesia Versante Ripido (www.versanteripido.it), diretta da Claudia Zironi, Paolo Polvani ed Emanuela Rambaldi, con la quale collabora dal 2015. Grazie al Premio Franco Fortini, nel 2014 ha pubblicato con la casa editrice CFR di Gianmario Lucini la sua raccolta poetica d’esordio: L’equilibrio della foglia in caduta (prefazione di Francesco Sassetto e nota di lettura di Enio Sartori), la quale ha ricevuto il secondo premio per la poesia edita al concorso San Domenichino Città Di Massa. Ha fatto parte dello staff organizzativo del Festival Bologna In Lettere, diretto da Enzo Campi, e del gruppo poetico bolognese Gruppo 77, diretto da Alessandro Dall’Olio. Realizza artigianalmente le piccole edizioni artistiche EDIZIONIFOLLI. A luglio 2016, con Samuele Editore, pubblica il suo secondo libro di poesia Canti di cicale (prefazione di Alessandro Dall’Olio), le cui presentazioni sono state proposte nella forma di recital-spettacolo in collaborazione con il giovane musicista e cantautore Alessandro Baro. Assieme alla redazione di Versante Ripido, ora anche associazione culturale, da settembre 2016, è impegnata nella organizzazione e proposta della rassegna poetica IGiovedìDiVersi, giunta, nel 2018, alla seconda edizione. Assieme alla poetessa Claudia Zironi e a Martina Dalla Stella, nel 2018 ha pubblicato il libro Ursprüngliches Leben: poesia e pittura in dialogo (EDIZIONIFOLLI con KDP Amazon), dal quale è tratto il recital omonimo proposto dalle due poetesse e accompagnato dalla musica dei giovanissimi musicisti “amici della poesia” come Alessandro Baro, Emma Gustafson, Elisa Misolidio, Giacomo Gamberucci, Fiore Stavole, Rocco Del Pozzo.

Ursprunglichen Leben

5 luglio 2018

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 poesia e pittura in dialogo
Martina Dalla Stella, Silvia Secco e Claudia Zironi

 

Due donne, anzi tre sì, tre amiche che celebrano il fatto di essere tali con un libro che quando  lo si chiude non si sa  se ti abbia toccato più Claudia per la concretezza che le fa scrivere “ non basta dare il nome / alla rose, Silvia, esse/ devono avere consistenza/ e aspetto al cospetto/del pensiero, la rosa sta nel nome/ esistendo pensata quando/ nome e rosa insieme/ si sostanziano, quando/ anche la rosa a te pensa //, oppure Silvia che vuole sottolineare la sua fragilità qui : “  Occorre dire alla rosa che è rossa/Chiamare ROSA la rosa. L’intera/ rosa. E la rosa sfogliata, il petalo chiuso nel libro/ una memoria del tatto, l’odore/ scampato al gelo, lo stele reciso/ all’altezza del nodo. Non termina/ mai l’essere rosa l’ultimo lembo/ rimasto a sfioritura e non è rosa/ già il seme della rosa ? Vedi, cose/ così come questa mutano/ se ne muti una sola consonante,/ e una c fa comune il nome proprio./ Nella distrazione la rosa smette “// o anche la pittrice Martina che nei suoi quadri stende talvolta velature sottili come ragnatele, come quando ritrae gli “ alchechengi “, o sa rendere tutta la tensione dell’attesa quando dipinge una lunga fila di uccelli sopra un filo nel quadro “ aspettando per migrare “, ed aggiunge a titolo esplicativo di un sé timorosamente nascosto “ anch’io così “.

 

Tre donne giovani che dichiarano fin dall’inizio, dall’esergo del loro lavoro,- citando un verso del poeta Frost che dice- “ due strade divergevano in un bosco ed io-/ io presi la meno battuta/ e questo ha fatto tutta la differenza//  che sanno ove vogliono dirigersi e lo fanno bene questo viaggio poetico che ci parla del loro modo di porsi nel mondo in cui vivono e viviamo.

 

Parlano di sé, dei propri desideri, delle loro passioni, anche le più dolenti come fa Silvia in questa sua : “ Senti come vengo a chiedere. Come/ti chiamo : mani e nome. Che sai/ montare alta, marea e piena, allagare/. Guarda come mi riduci: fradicia e/ bellissima, come mai sono stata./ Toccami lì dov’è la ferita e lì/ entra/, slabbra e straziami che sai/ dei brividi in agguato sulle scale/ dei lividi che poi dovrò coprire/ quando te ne andrai e dovrò sorriderne./ Scavami e trova. Le dita di chi ama/ si sfiorano sul libri e sotto i tavoli/ e tu lo sai che sono scalza e nuda/ davanti a te come davanti al mare//, ma anche Claudia si metta a nudo in questa sofferente : “  L’acqua cade sempre su altra/ acqua, seppure in altra forma/ e non si chiede il tempo// Sarò prima di te ombra, quando/ starai seduto davanti a casa/in attesa del tramonto. Ti coprirò/ i piedi come capelli, le ginocchia/ come accucciandomi. Porterò/ una nuvola di pioggia dall’oriente/umida e calda di monsone, profumata/ di zenzero e vaniglia. Risalirò / le cosce tue/ alle venti e trenta della sera.// Saprà poi l’acqua come amarti.//.

 

Ma non è il loro soltanto un canto autocelebrativo, dentro il loro scrivere è anche forte l’attenzione al decadimento della nostra umanità, l’ esserci ridotti come pietre su cui, scrive Claudia “ si era evoluta una ben strana razza “ che “ non poteva volare “ ed era “ dall’intelligenza non ben orientata “ in un tempo in cui “ ciascuno si credeva migliore degli altri“, e conclude la Zironi “ il nostro silenzio li annientò. A nome di tutte le pietre/ ancora oggi ce ne dispiace “. Ma pure la Secco non nutre molta fiducia nel nostro futuro quando scrive : “ Le anziane madri -le mani sul ventre/ che ha custodito- hanno nozione/ del tempo. Ci cantano all’orecchio/ che ne avremo, da morte, per riposare/ la quiete concessa finalmente/ la coerenza dell’ultima parola/ fissata nell’eternità, quando saremo pietre/ purissimi diamanti, e non avremo pietà/ di nessuno. Allora, senza gli occhi, senza l’opinione/ saremo trasparenti esseri di perfezione./ Sceglieranno per noi i fiori delle spose. Poi/ dopo le cerimonie, ci dimenticheranno .//

 

E saremo dimenticati anche noi umani, pietre inutili e aride per colpa dell’indifferenza al male che contraddistingue questa nostra storia recente, piena di sofferenza urlata ma inascoltata, ricca soltanto del nostro silenzio colpevole nei confronti dei tanti che ci chiedono accoglienza.

Ecco cosa scrive Claudia : “ tutti in fila/come bambini/.Tutti in fila/ come a scuola/. Fate i bravi soldatini !/ Mettetevi i fila per la marcia/. Alla fermata/ ben educati/ tutti quanti formate la fila/. Tutti in fila sulla banchina/ uomini e sogni/ nei sacchi di plastica “,  e aggiunge Silvia sulla stessa pagina :
“ dove il mare arriva siamo in tredici/ fradici a guardare tredici paia/ di piedi nel fuoruscire dai sacchi/ sacchi di sogni e di sale/ sabbia nei tredici sacchi/ sabbia e sale e l’acqua in luogo dell’aria/ a riempire i polmoni. E i piedi/ tredici paia : / trattati somatici adatti alla platea / dei telegiornali. Tredici paia/ uguali in tutto e per tutto al mio paio/ da lontano da dove li guardiamo/ scordarsi dei passi, annerire./ Degli ultimi tredici passi/ chi ci verrà a dire ? E dei nomi ? / Tredici nomi gridati, pianti/ pensati, gridati nomi affidati/ a un dio in tutto e per tutto uguale/ al mio: come lui sordo, dove il mare/ giunge ed aggiunge al tredici al totale.//

 

Ci si allontana da questo libro con il piacere di aver fatto ancora una volta un incontro fortunato con queste due poetesse che in molte  altre occasioni hanno già dimostrato tutta la loro bravura, ma resta un poco di amaro in bocca per la sottile vena di tristezza che sta alla base di quasi tutti i  loro pezzi, ed anche gli oli di Marina Della Stella ci lanciano unghiate dolorose tutte condensate in un volto di madre  ritratto superbamente alla maniera della migliore pittura espressionista.

 

Non mi resta che aggiungere il mio apprezzamento per la veste tipografica del libro, originale per la sua dimensione orizzontale anziché verticale come comunemente si fanno i libri, per i colori che sembrano aderenti in modo perfetto ai quadri, e per il gusto nella scelta delle poesie messe in lista.

Luigi Paraboschi 26.6.2018

 

 

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Silvia Secco e Claudia Zironi condividono da anni la rappresentazione delle loro singolarità artistiche. Il recente progetto di poesia in dialogo, Ursprunglichen Leben, è scaturito da esperienze di recital comuni che si sono tenuti nel 2017 a Messina e a Ercolano e nel 2018 a Vicenza. Le poesie di Claudia e Silvia dialogano tra di loro in sequenze multivoce, ripetizioni, silenzi, toccando temi filosofici, civili e amorosi. I versi sono accompagnati e scanditi dalle esecuzioni musicali di giovani artisti. Durante il recital viene coinvolto anche il senso della vista, mediante la proiezione dei dipinti di Martina Dalla Stella, con la quale le poete da tempo collaborano, che si unisce al “dialogo” in modo assolutamente pregnante. Dal progetto del recital è nato un “libretto di sala”, questo vero e proprio piccolo libro d’arte, firmato Edizionifolli, che raccoglie i testi di Silvia e Claudia ed è illustrato a colori con i dipinti di Martina.