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Valentina Calista

24 marzo 2020

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(Ladolfi Editore, 2019)

 

Mi accosto sempre con un timore reverenziale alla tastiera quando mi accingo a stendere una prefazione. Eppure, dopo tanti anni di esperienza, la sensazione non solo non si attenua, ma addirittura cresce con la consapevolezza che mi viene consegnato qualcosa di prezioso, di intimo, di misterioso, di sacer, nel senso che appartiene agli dèi e che non

può essere violato dal contatto umano, come l’homo sacer che non può essere toccato dalla comunità.

E di vera sacralità oso parlare nel momento in cui incomincio a entrare in questa raccolta di poesie, atteggiamento diverso da quello che provo durante la lettura, per il fatto che in questo secondo caso mi sento profanus e cioè “davanti al tempio” e quindi al di fuori del pomerium.

Come superare questo terror di fronte al numen, al mana della poesia? In primo luogo, con l’umiltà di chi sa che la potenza di un essere umano che si esprime in versi non potrà mai essere racchiusa in concetti, quindi con il desiderio di sottomettersi al testo in vista di una vera e propria “fusione di orizzonti”, anche se i limiti mai coincideranno e infine con il desiderio di offrire un contributo personale all’esplorazione di un mondo senza fine.

 

La raccolta di Valentina Calista inizia con un titolo dal sapore sentimentale, Cuori, ma immediatamente l’impressione viene spazzata via dal testo in prosa in cui prevale una precisa concretezza («Mia madre ha un cuore di sughero», «Mio padre ha un cuore di vetro», «Mio fratello ha un cuore di pane», «Io ho il cuore di paglia»). Il mistero si infittisce perché le metafore superano il linguaggio comune e aprono scenari densi di interrogativi: il nome del padre e della madre diventa realtà non in una parola, non in un ruolo, ma in gesti di un amore che è presenza e assenza contemporaneamente, perché popolata di sogni.

 

Ma l’esistenza non si lascia sottomettere dai desideri umani e immediatamente l’io lirico avverte la presenza inspiegabile del dolore; la protesta assume una dimensione biblica con accenti molto vigorosi: «Perisca il giorno in cui nacqui», che sfociano in un’elegia priva di speranza:

 

La neve non ti ha amato, non ti ha dato candore.

Non ti ha esposto al sole. È stato il fango, sporco

denaro. Ti ha divorato le mani, il cuore e il sogno.

 

Ci addentriamo, quindi, nella notte (Tra l’alba e il sogno), notte interiore, notte oscura, come quella dei mistici, in cui Dio appare lontano, privo di senso, insensibile alla sofferenza dell’uomo, ma al fondo di questo tunnel l’io lirico (Tra i vespri e l’alba) scorge

ben presto la bellezza della natura, apre il cuore alla vita: «Qui, la malinconia è preludio alla bellezza» e l’essere riprende una propria “consistenza” nell’esserci, nell’essere nel mondo («Mi pare di intuire, perfino. / Perfino che siamo»). La notte sconfinata allarga l’anima e produce una sensazione di benessere e la poetessa riesce ad apprezzare le “piccole cose” della vita quotidiana e a gioirne ritrovando in questo modo il senso dell’esistere: «Se la felicità fosse un gatto / acciambellato nel suo cesto-casa».

 

Questo rapporto con le realtà minime non si presenta solo come barriera contro l’assurdo, ma anche come superamento «d’inesistenze-inconsistenze», e calma e dona serenità. E allora ogni aspetto assume una dimensione “sacra” («La primavera mi aspetta, preghiera / mi aspetta il sapore del pane, la sera») sottolineata da uno stile francescano («terra / nostra sorella»), nel significato di cui abbiamo parlato, nonostante la presenza del limite che sempre incombe sull’esistenza («L’alba piove macerie e inaugura il lutto»), nonostante la debolezza di una luce che non sconfigge totalmente il buio («una qualche luce dentro un qualche buio»).
Di fronte a tale mistero e all’immensità del creato, in questo «disfare e rifare» del tempo non possono non sorgere domande da “pastore” leopardiano: «io sono chi?».

Solo la dimensione religiosa dell’io lirico riesce ad aprire uno spiraglio:

 

Così docile si fa il mondo,

intrecci di ciò che è destino

fortuna o, meglio, trame nascoste di Dio.

[…]

(dalla prefazione di Giulio Greco)

 

 

CUORI

 

 

Mia madre ha un cuore di sughero. Quando lo getta a mare, il suo dolore galleggia, non sprofonda come il mio. Sta lì, ondeggiante come una boa, fermo, attaccato a una corda di sangue che penetra l’abisso.È convinto che l’esistenza proceda solo nel suo nero perimetro. Intanto, i gabbiani lo insultano. Gli ricordano che Dio ha inventato le ali. Mio padre ha un cuore di vetro. Se i miei occhi lo attraversano, vedo l’altra parte del mondo, quella dove so che sono al sicuro, quella dove so che posso andare libera. Non ci sono parole, sole direzioni tracciate da sguardi, lacrime nascoste nelle tasche della vita. Mio fratello ha un cuore di pane. Glielo hanno divorato a morsi, profondi. Ancora non sa che il pane non finisce mai, nemmeno in tempi di carestia. Ha le mani in pasta e vorrebbe cambiare il suo mestiere per non morire. Forse morirà, il suo dolore. Allora sarà libero di vivere. Io ho il cuore di paglia. Quando il vento mi picchia, prende fuoco. Nulla lo arresta. Qui, da sempre manca l’acqua. Eppure, ho un vaso colmo d’esistenza dal quale non escono più echi. Solamente vita, e ancora vita e poi, altra vita immensa che aspetta la vita. Querce d’amore.

 

 

Nei nomi del padre e della madre

 

Nei nomi del padre e della madre,

nella notte in cui mi spostavo dall’etere

all’utero. Lì, l’amore racchiuso nel pensiero.

Avanti a tutti voi, diritta come abete,

nuda, sabbia di deserto io, voi miraggio.

Madre che sei madre nel nome e nella pancia,

Padre che sei padre nel nome e nel cognome,

pensieri amorosi scolorano senza presenza

senza il dare vostro e il mio ricevere: il nome

assenza.

 

 

 

Piccola madre

 

Dai tuoi capelli intrecciati di paglia

non sgorgano sogni di madre

– piccola madre che scuoti il dolore –

hai mai mostrato le tue trincee ai tagli del sole?

 

 

 

La domenica di Giobbe

                                                 A R., dal tuo stesso sangue

 

Un’altra domenica, sola e uguale.

Ti chiamo. L’eco del tuo nome

è tuono tra pareti sole di un luogo solo.

 

Anche tu solo, destinato

a riconoscere il tuo nome tra tanti

in fila lungo mura ad aspettare

fugaci chiamate d’amore.

 

Le nostri voci si annusano,

il sangue ci lega le mani

gli sguardi, anche quando l’assenza

vive negli occhi o nei tuoi vecchi ricci d’oro.

 

Un altro autunno inchioda alla croce

il dolore. «Dopo, Giobbe aprì la bocca

e maledisse il suo giorno».

 

Soli vediamo – tu ed io – respiriamo,

soli sentiamo le grida di Giobbe

scagliarsi dal cuore morsicato.

Ripeti te stesso nel tempo tiranno.

 

«Perisca il giorno in cui nacqui

e la notte in cui si disse: “È stato concepito un

uomo!”. Quel giorno sia tenebra,

non lo ricerchi Dio dall’alto,

né brilli mai su di esso la luce».

 

La neve non ti ha amato, non ti ha dato candore.

Non ti ha esposto al sole. È stato il fango, sporco

denaro. Ti ha divorato le mani, il cuore e il sogno.

 

«Così, al posto del cibo entra il mio gemito,

e i miei ruggiti sgorgano come acqua,

perché ciò che temo mi accade

e quel che mi spaventa mi raggiunge».

 

 

 

 

 

 

TRA I VESPRI E L’ALBA

 

 

Luce, sola luce. Notte, sola notte

 

Luce

sola luce.

Notte

sola notte.

Mi chino sul giorno,

mi chino sulla notte,

bevo da questo mondo senza mani

per accogliere. Bevo, dalle radici

degli alberi, dalle foglie.

Scendo dal dirupo dell’eremo,

il sole filtra ore d’oro nel fogliame.

Solitudine beata, solitudine che amo

che mi ama. Silenzio degli altissimi,

delle parole indicibili dell’universo,

dei sospiri di Dio che aspetta un cenno,

dei miei passi sulla terra assopita nel Nulla.

 

 

 

A ogni alba

 

A ogni alba il cuscino ricorda

la presenza della tua vita intersecata

alla mia. È custodire la grazia.

Parliamo la notte, non abbiamo

più tempo d’essere ma siamo

sempre tutti i giorni essenza.

Siamo, poiché un respiro non è lieve:

intuisco la scia dell’anima passante,

il suo calpestare le foglie già morte.

Intuisco la scia dell’anima passata.

Da quella futura ho ricevuto un abbaglio,

una profezia lunga tutta la vita.

Siamo.

Particelle scomposte, ricomposte

dopo una lotta di reazioni universali,

dopo un digiuno chiamato a correggerci,

un disastro imploso nei corpi, fuori

e dentro gli spazi del nostro pensare.

Mi pare di intuire, perfino.

Perfino che siamo.

 

 

 

Ultimo imbrunire

 

Possibile che la notte sia un miracolo

in cui le distese del buio s‘illuminano

di abbagli esplosi in una distesa di eterno?

L’orizzonte non esiste in questa selva,

poche nubi fuggono all’ultimo imbrunire

in un dove lontano che non ci è dato sapere.

Nero, più nero del vuoto è l’orizzonte,

muri e tegole a decidere il limite.

Salva, alla vista d’una moltitudine di luce.

Valentina Calista

16 giugno 2014

 

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 Inediti 

 

1)
Bevete pure la vita
con ghiaccio e gin
e riflettete il viso
nei vuoti bicchieri
non sapendo più nulla
del vostro nome.

2)
Guardare le vetrine, assistere al vortice
umano oscillare tra i due poli della strada
e osservare nell’intatto minuto la miseria.

So di avere quanto basta nella borsa e qui
un fazzoletto pronto all’uso di un eventuale
addio, ma è certo che lo userò per il naso.

Passeggiamo io e te, in ogni angolo di strada
a cercare disperatamente bellezza, quella
che non vuole denaro alle sue celebrazioni.

È così che lo scoiattolo ci viene a salutare,
si lascia guardare nell’impacciata simpatia
e ridiamo del nulla, la nostra semplice presenza.

Solo perché c’è un qui, ed ora, e un futuro
che sfugge all’uomo, solo perché sei tu
che intenerisci le mie angustie rivelazioni.

Questa è la freccia che cattura il tempo eterno
appeso al muro delle nostre case già cambiate,
freccia che restaura le speranze nei cassetti.

Guardare le vetrine, assistere al vortice
umano oscillare tra i due poli della strada
e osservare nell’intatto minuto la miseria.

Non parliamo di denaro io e te, non di avere,
ma dell’avida sconfitta umana, quella precedente
l’assuefazione all’amaro nel cuore oramai sfinito.

3)
Vedo solo il sorridere della follia
in queste quotidiane disinvolture.
Le strade sono specchi d’abisso:
piace sciogliersi, come fango nei fiumi.
Guardo la roccia della mia memoria
scavare nel difficile spessore di ieri,
non sono poi tutti bravi a fare i conti.
Non è la matematica l’espressione del
ricordo, l’umana volontà di fissare
un secondo passato nell’attimo presente
già sfuggito. Nelle mani ci sono dita
da contare per non perdersi nel buio.

4)

Ammainare lo sguardo
aldilà di una stanza,
fuori tendere la mano
sfiorando le curve del vento
e ricordarsi del proprio nome
per non dimenticare l’origine.

5)

In questa lunghezza
chiamata tempo
vi è un’interruzione
chiamata vita.

Esplosione di riti,
ciclici disegni
portano il pensiero
alla percorrenza
dell’esistere.

Se c’è un’interruzione
è la vita.
Dall’etere all’utero,
dall’utero all’umano.

Le bocche della gioia
celebrano festività
ad ogni punto
interposto
tra gli eventi e la vita.

In questa lunghezza
chiamata eterno
c’è un’interruzione
chiamata vita.

6)

Inevitabilmente dobbiamo aspettare
quel giorno in cui qualche cosa parte,
ed è vuoto nel nostro perimetro umano.
Il tempo decanta l’assenza. Null’altro.
Della morte è solo l’amore la salvezza.

Affollati in grani di bruna terra i pensieri
Si danno alla luce, le allodole cantano,
lo scorrere furibondo del tempo alato
impressiona le aiuole della memoria.
Nulla. Dalla morte l’amore ci salva.

7)

La figura del terrore
è non
poter toccare
le singole
parole.

Solo udire, udire,
ascoltare,
ma mai toccare
le voglie
delle destinazioni.

Solo udire
i dettami delle leggi
abbandonando
gli spostamenti
degl’incantevoli umori
primitivi.

Questa è la figura del terrore.

Non riconoscerti nel viso,
nei perimetri delle distanze,
dentro lunghi umori
tracciati sopra i miei.

Ora sono due
le distanze, unite
per sovrapporre i vuoti
e renderli meno vuoti.

Unite a riprenderci le mani,
strette a soffocare, immobili,
fino a toccare quell’ultimo
avanzo di vuoto.

Restituiamoci il totale.

8)

Dal tuo viso la pioggia
mi racconta di Settembre,
del suo plumbeo intercedere
e delle nostre mani fredde.

Siamo state quasi eterne
quando il sole ci chiamava
nel suo schianto sulle rocce
e tra le crepe degli ulivi.

L’umido dei capelli
scompone i miei pensieri
e mi rivolgo alla tua voce
per risanare questa crepa.

Ho le mani distaccate
dalle solite tranquillità.
Il nido di prima è vortice
alla quotidiana avventura.

9)

La porta si apre
sul fiume di un giorno
triste.

E la tua mano avvinghiata
all’oro della maniglia
cerca risposta nel lampo.

La domanda è la morte
suonante cavernose trombe
su quest’isola lenta. Plumbeo
il cielo raccoglie le nostre anime.

In caduta libera, finissima acqua
esalta l’imperfezione del tuo viso
saturo di rughe e di perché,
come mai, ora io, noi. Tutti.

È così che un confondersi
d’acqua sulle tue guance
cancella anche l’ultimo
dei miei baci.

10)

Freddo, intercedere dell’inverno,
marciapiedi di desolazione e umidità,
io nell’Immane presenza ascolto:

le supremazie del vento decollano
atterrando tra fronde già verdi e bagnate,
nei prati speranze furibonde trottolano,
io nell’Immane presenza prego:

che sia possibile incrociare le nostre mani
per difendere i petti con gli scudi,
possibilmente senza disprezzare l’umano,
ed io nell’Immane presenza penso:

che siamo carne sacra di vapori d’anima,
costellazioni simultanee di preludi vitali,
eternamente danzanti sulle tracce di un Bene,
io nell’Immane Presenza accetto:

l’esistenza, tutta nella circonferenza universale.

Quanta piccolezza nelle nostre viltà, giornaliere
presenze nell’imbuto delle umane tristezze.

 

 

 

Valentina Calista è nata a Roma il 22 giugno 1983. Attualmente è PhD Scholar in Italian Studies alla University of Reading (UK) che la vede impegnata in un progetto di ricerca sul discorso biblico e mistico nella poesia italiana contemporanea con focus sulla poesia di David Maria Turoldo e Alda Merini. Gestisce il suo blog personale dove pubblica i suoi testi (valentinacalista.wordpress.com).

Premio Palmaria giovane, poesia inedita 3°posto (2006), Premio Claudia Fioroni, poesia inedita 1°posto (2003), Premio Gianfranco Rossi per la giovane letteratura, segnalazione di merito (2011).

Il 9 novembre 2013 è stata intervistata dal giornalista Sergio Nava della trasmissione radiofonica Giovani Talenti del Sole24ore. L’intervista dal titolo Giovane dottoranda a Reading lontana dai baroni è disponibile su sito internet della trasmissione.

Sempre del 2013 è la plaquette “OLTRETUTTO”, Edizioni PulcinoElefante.
Ha pubblicato nel giugno 2012 la sua opera prima di poesia “LA VERTIGINE DELL’ANDATURA” (Edizioni Ensemble, Roma), della quale ha curato la prefazione lo scrittore Giuseppe Aloe, Finalista Premio Strega 2012.

Ha partecipato a PARCOPOESIA 2008.

Allieva dell’insegnante, scrittrice e poetessa (Premio Montale 2001) Paola Malavasi , scomparsa nel 2005.
Nel 2007 ha incontrato e conosciuto Alda Merini.
Ha pubblicato un saggio critico:
Alda Merini, quell’incessante bisogno di Dio, OTTO/NOVECENTO, Rivista quadrimestrale di critica e storia letteraria, anno XXXIV, n°1 gennaio-aprile 2010, Milano.
Ha pubblicato l’intervista ad Alda Merini:
Alda Merini: non potete rinchiudere i poeti, Stilos, anno IX, n°5, 6 marzo 2007, Catania.

Sue poesie sono apparse in L’eco del Vento (Pagine, Roma, 2006) e in riviste online quali La poesia e Lo Spirito, La recherche, Lo Specchio (La Stampa) con commento di Maurizio Cucchi.
Si è laureata all’Università della Tuscia nel 2008 con la tesi Dalle trame del buio. Alda Merini tra follia e salvezza .
Ha conseguito la laurea specialistica all’Università della Tuscia nel maggio 2012 con la tesi David Maria Turoldo: <<Paola, il fiore dell’anima>>. Dall’impegno sociale alla mistica: “O sensi miei…”, analisi di un’opera compendiaria.
E’ cantautrice, suona la chitarra e compone le sue canzoni.