(Ladolfi Editore, 2019)
Mi accosto sempre con un timore reverenziale alla tastiera quando mi accingo a stendere una prefazione. Eppure, dopo tanti anni di esperienza, la sensazione non solo non si attenua, ma addirittura cresce con la consapevolezza che mi viene consegnato qualcosa di prezioso, di intimo, di misterioso, di sacer, nel senso che appartiene agli dèi e che non
può essere violato dal contatto umano, come l’homo sacer che non può essere toccato dalla comunità.
E di vera sacralità oso parlare nel momento in cui incomincio a entrare in questa raccolta di poesie, atteggiamento diverso da quello che provo durante la lettura, per il fatto che in questo secondo caso mi sento profanus e cioè “davanti al tempio” e quindi al di fuori del pomerium.
Come superare questo terror di fronte al numen, al mana della poesia? In primo luogo, con l’umiltà di chi sa che la potenza di un essere umano che si esprime in versi non potrà mai essere racchiusa in concetti, quindi con il desiderio di sottomettersi al testo in vista di una vera e propria “fusione di orizzonti”, anche se i limiti mai coincideranno e infine con il desiderio di offrire un contributo personale all’esplorazione di un mondo senza fine.
La raccolta di Valentina Calista inizia con un titolo dal sapore sentimentale, Cuori, ma immediatamente l’impressione viene spazzata via dal testo in prosa in cui prevale una precisa concretezza («Mia madre ha un cuore di sughero», «Mio padre ha un cuore di vetro», «Mio fratello ha un cuore di pane», «Io ho il cuore di paglia»). Il mistero si infittisce perché le metafore superano il linguaggio comune e aprono scenari densi di interrogativi: il nome del padre e della madre diventa realtà non in una parola, non in un ruolo, ma in gesti di un amore che è presenza e assenza contemporaneamente, perché popolata di sogni.
Ma l’esistenza non si lascia sottomettere dai desideri umani e immediatamente l’io lirico avverte la presenza inspiegabile del dolore; la protesta assume una dimensione biblica con accenti molto vigorosi: «Perisca il giorno in cui nacqui», che sfociano in un’elegia priva di speranza:
La neve non ti ha amato, non ti ha dato candore.
Non ti ha esposto al sole. È stato il fango, sporco
denaro. Ti ha divorato le mani, il cuore e il sogno.
Ci addentriamo, quindi, nella notte (Tra l’alba e il sogno), notte interiore, notte oscura, come quella dei mistici, in cui Dio appare lontano, privo di senso, insensibile alla sofferenza dell’uomo, ma al fondo di questo tunnel l’io lirico (Tra i vespri e l’alba) scorge
ben presto la bellezza della natura, apre il cuore alla vita: «Qui, la malinconia è preludio alla bellezza» e l’essere riprende una propria “consistenza” nell’esserci, nell’essere nel mondo («Mi pare di intuire, perfino. / Perfino che siamo»). La notte sconfinata allarga l’anima e produce una sensazione di benessere e la poetessa riesce ad apprezzare le “piccole cose” della vita quotidiana e a gioirne ritrovando in questo modo il senso dell’esistere: «Se la felicità fosse un gatto / acciambellato nel suo cesto-casa».
Questo rapporto con le realtà minime non si presenta solo come barriera contro l’assurdo, ma anche come superamento «d’inesistenze-inconsistenze», e calma e dona serenità. E allora ogni aspetto assume una dimensione “sacra” («La primavera mi aspetta, preghiera / mi aspetta il sapore del pane, la sera») sottolineata da uno stile francescano («terra / nostra sorella»), nel significato di cui abbiamo parlato, nonostante la presenza del limite che sempre incombe sull’esistenza («L’alba piove macerie e inaugura il lutto»), nonostante la debolezza di una luce che non sconfigge totalmente il buio («una qualche luce dentro un qualche buio»).
Di fronte a tale mistero e all’immensità del creato, in questo «disfare e rifare» del tempo non possono non sorgere domande da “pastore” leopardiano: «io sono chi?».
Solo la dimensione religiosa dell’io lirico riesce ad aprire uno spiraglio:
Così docile si fa il mondo,
intrecci di ciò che è destino
fortuna o, meglio, trame nascoste di Dio.
[…]
(dalla prefazione di Giulio Greco)
CUORI
Mia madre ha un cuore di sughero. Quando lo getta a mare, il suo dolore galleggia, non sprofonda come il mio. Sta lì, ondeggiante come una boa, fermo, attaccato a una corda di sangue che penetra l’abisso.È convinto che l’esistenza proceda solo nel suo nero perimetro. Intanto, i gabbiani lo insultano. Gli ricordano che Dio ha inventato le ali. Mio padre ha un cuore di vetro. Se i miei occhi lo attraversano, vedo l’altra parte del mondo, quella dove so che sono al sicuro, quella dove so che posso andare libera. Non ci sono parole, sole direzioni tracciate da sguardi, lacrime nascoste nelle tasche della vita. Mio fratello ha un cuore di pane. Glielo hanno divorato a morsi, profondi. Ancora non sa che il pane non finisce mai, nemmeno in tempi di carestia. Ha le mani in pasta e vorrebbe cambiare il suo mestiere per non morire. Forse morirà, il suo dolore. Allora sarà libero di vivere. Io ho il cuore di paglia. Quando il vento mi picchia, prende fuoco. Nulla lo arresta. Qui, da sempre manca l’acqua. Eppure, ho un vaso colmo d’esistenza dal quale non escono più echi. Solamente vita, e ancora vita e poi, altra vita immensa che aspetta la vita. Querce d’amore.
Nei nomi del padre e della madre
Nei nomi del padre e della madre,
nella notte in cui mi spostavo dall’etere
all’utero. Lì, l’amore racchiuso nel pensiero.
Avanti a tutti voi, diritta come abete,
nuda, sabbia di deserto io, voi miraggio.
Madre che sei madre nel nome e nella pancia,
Padre che sei padre nel nome e nel cognome,
pensieri amorosi scolorano senza presenza
senza il dare vostro e il mio ricevere: il nome
assenza.
Piccola madre
Dai tuoi capelli intrecciati di paglia
non sgorgano sogni di madre
– piccola madre che scuoti il dolore –
hai mai mostrato le tue trincee ai tagli del sole?
La domenica di Giobbe
A R., dal tuo stesso sangue
Un’altra domenica, sola e uguale.
Ti chiamo. L’eco del tuo nome
è tuono tra pareti sole di un luogo solo.
Anche tu solo, destinato
a riconoscere il tuo nome tra tanti
in fila lungo mura ad aspettare
fugaci chiamate d’amore.
Le nostri voci si annusano,
il sangue ci lega le mani
gli sguardi, anche quando l’assenza
vive negli occhi o nei tuoi vecchi ricci d’oro.
Un altro autunno inchioda alla croce
il dolore. «Dopo, Giobbe aprì la bocca
e maledisse il suo giorno».
Soli vediamo – tu ed io – respiriamo,
soli sentiamo le grida di Giobbe
scagliarsi dal cuore morsicato.
Ripeti te stesso nel tempo tiranno.
«Perisca il giorno in cui nacqui
e la notte in cui si disse: “È stato concepito un
uomo!”. Quel giorno sia tenebra,
non lo ricerchi Dio dall’alto,
né brilli mai su di esso la luce».
La neve non ti ha amato, non ti ha dato candore.
Non ti ha esposto al sole. È stato il fango, sporco
denaro. Ti ha divorato le mani, il cuore e il sogno.
«Così, al posto del cibo entra il mio gemito,
e i miei ruggiti sgorgano come acqua,
perché ciò che temo mi accade
e quel che mi spaventa mi raggiunge».
TRA I VESPRI E L’ALBA
Luce, sola luce. Notte, sola notte
Luce
sola luce.
Notte
sola notte.
Mi chino sul giorno,
mi chino sulla notte,
bevo da questo mondo senza mani
per accogliere. Bevo, dalle radici
degli alberi, dalle foglie.
Scendo dal dirupo dell’eremo,
il sole filtra ore d’oro nel fogliame.
Solitudine beata, solitudine che amo
che mi ama. Silenzio degli altissimi,
delle parole indicibili dell’universo,
dei sospiri di Dio che aspetta un cenno,
dei miei passi sulla terra assopita nel Nulla.
A ogni alba
A ogni alba il cuscino ricorda
la presenza della tua vita intersecata
alla mia. È custodire la grazia.
Parliamo la notte, non abbiamo
più tempo d’essere ma siamo
sempre tutti i giorni essenza.
Siamo, poiché un respiro non è lieve:
intuisco la scia dell’anima passante,
il suo calpestare le foglie già morte.
Intuisco la scia dell’anima passata.
Da quella futura ho ricevuto un abbaglio,
una profezia lunga tutta la vita.
Siamo.
Particelle scomposte, ricomposte
dopo una lotta di reazioni universali,
dopo un digiuno chiamato a correggerci,
un disastro imploso nei corpi, fuori
e dentro gli spazi del nostro pensare.
Mi pare di intuire, perfino.
Perfino che siamo.
Ultimo imbrunire
Possibile che la notte sia un miracolo
in cui le distese del buio s‘illuminano
di abbagli esplosi in una distesa di eterno?
L’orizzonte non esiste in questa selva,
poche nubi fuggono all’ultimo imbrunire
in un dove lontano che non ci è dato sapere.
Nero, più nero del vuoto è l’orizzonte,
muri e tegole a decidere il limite.
Salva, alla vista d’una moltitudine di luce.