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Vincenzo Errico

2 settembre 2020

 

 

 

7
senza un titolo
4 aprile 2020

(ciò per cui si può valutare il contenuto di uno scritto, in questo caso)

m’imbarco su un foglio liscio, ignaro di quel che verrà.
Vado a tasto, cerco un appiglio.

E’ tempo di un’apparente calma
– superficie larga e schiacciata in cui raccolgo i fatti della quotidianità
tenuti in caldo, ma raffreddabili per forza prima o poi –
e con tutto quello che prende per le caviglie, le mani o per il collo
con in su la testa, sembra non esserci modo di prezzare il mondo,
svalutandolo a pressione non voluta o nemico da cui guardarsi.

Non piangere o ridere quindi? Magari incupirsi o sorridere,
perdendo un livello che crei un’empatia migliore.

Il possibile s’ingegna poco nella spinta che affratella.
E questo è il punto: non sentire di appartenere al gruppo familiare
largo e stare da soli quel tanto che basta
per non sopportare e non escludere.

 

 

proverbiale
13 dicembre 2019

 

Non proprio come la comparsa in strada –
che dove inizia non si sa – di un camminatore stanco e impolverato
che si avvicina e va oltre un punto di vista, una posizione ferma.
Qui, l’arguzia e il fatto noto o il detto prima
sembrano avere carattere sconosciuto e soprattutto
non sanno dove andare.

Come in tutte le premesse quindi alludo e lascio.
Se ben cominciassi sarei a metà.

 

 

mani avanti
15 settembre 2019

 

Dove la costituzione del corpo, l’abito o l’inclinazione
non lasciano molte possibilità di scelta apparente,
quasi un vizio d’organismo che approssima e non finisce,
un vezzo semplice.

Un territorio senza traccia, a guardare dietro, privo di agitazione
eppure svela qualche tratto di sussulto cardiaco o moto di stomaco,
quando vengono alla mente un fatto, una persona o più d’una.

Ultima serie, ieri notte, ma non dirò
ché a farlo non aiuta il gorgo a salire.

E poi c’è la mancanza d’ardire,
sotto forma di un colloquio a poche frasi,
un porsi fuori che disperde,

l’attitudine alla risposta breve che non piace, ma vorrebbe.
Un dovere umanitario che calma l’ego
e il destinatario.

Non aspetto versi, prendo direzioni plurime.

 

 

da qualche parte
14 agosto 2019

 

Che sia chiaro a me l’osceno
in tutto il suo candore – coprente a tratti –
dei rapporti mossi dal bisogno

anche io nel giro
sono quello che lamento.

Alla fine dell’appetito ci si addormenta
e si scorda d’aver preteso qualcosa,

come quando la dispensa è piena e non esci a far la spesa.

 

 

tamerici comprese
19 gennaio 2019

 

E va bene che cada per le scale,
tra riserve e storie raccontate male,
dove non splende la luce della sequenza di senso.

Cadere,
al posto del solito tram desiderio
tra i quartieri omessi.

Un sospetto frugato nelle tasche
è quello della bella figura,
del meglio che manca a questo sforzo senza fine,
e piove su qualcosa,
tamerici comprese.

Di casa in casa,
panico in calzamaglia
o stupore inchiostrato di blu,
feticcio d’infanzia.

Fa giorno
e tutto si palesa ai piedi di una pagina.

 

 

di guardia
13 maggio 2018

 

Lasciare traccia non è un fatto di prepotente garanzia di qualcosa,
è una questione che si pone chi vive di sospiri alla sveglia, di sbadigli la sera
e nel tormento della volontà di essere felice con qualcosa d’altro.

Difficile sondare e rilevare parole a posto.
Distendo l’arma che porto, non si sa mai, sul pavimento
e scrivo steso sul letto o dentro di esso e quindi storto.
Ho certamente operato, ma un interesse tassato cresce e svela il conto finale,
un non ostentato timore di perdere.

 

 

il nome di tutti
10 luglio 2015

appena sarà finito tutto lo dirò
intanto dovete sapere che le storie
sono vere nell’altrove e dovunque qui

di quella donna in bicicletta
a dare precedenza che non c’è
ferma dalla macchina in retro marcia
almeno la lunghezza di due barche

di quell’altra che cammina passo lento
e a sera torna gambe gonfie
in una casa del comune,
figli lontani una notte
sola

o di quei compagni di lavoro
con fare familiare battute e lingua senza lezzo
sagaci e ironici per vanto,

ma di sequele non farò ventaglio,
i nomi li conosco a occhi chiusi,
gli alibi li scrivo e poi li tolgo
perché difendersi sarà una colpa

 

Vincenzo Errico

17 giugno 2016

IL PROFUMO DELLA COSA

In dietro si torna dove casa è seconda,
pieni di fumo di camino della prima,
di legna d’ulivo che arde a oltranza
e verdura a mazzi che riempie la memoria.

Con me invece porto riserve di farmaci,
per la grande di casa,
referti di tecnici di protesi acustiche
e prescrizioni d’esame.

Per qualche ora lascio un pezzo di famiglia
che domani mi raggiungerà per l’inverno,
per più giorni invece il mio prediletto
che intimorito fa le guide a scuola.

Le bevute con le amiche di benvenuto
non prevedono ancora quelle di benpartito,
ma la rete raccoglie e non disperde
e se perde qualcosa è il profumo della cosa.

 

atro QUI

Vincenzo Errico

21 dicembre 2012

vinc

                        

Che cosa sono le poesie se non cartoline? Come le cartoline parlano di luoghi, anche se spesso immaginari, remoti o soltanto della mente. Come le cartoline eleggono un interlocutore privilegiato, destinatario dei nostri rovelli, paure e confessioni. FUORI SEQUENZA è la più tradizionalmente “cartolina”, Istanbul è percorsa nell’andamento stesso del verso, scattante, incisivo, partecipe di un mondo straordinario, ricco di segni, di vita e di storia. VIENNA invece arriva come città di passaggio, chiusa nel suo cielo e nelle sue glorie, nel freddo delle sue strade senza alberi.

Ho conosciuto Vincenzo grazie al destinatario della prima di queste cartoline, un artista che con le sue performance parla con i luoghi:
http://www.youtube.com/watch?v=1GD64QsDTRs
Conosco anche il Bar delle mutande dove proprio quella sera, dopo il concerto di cui parla la poesia, ho avuto modo di fare quattro chiacchiere con Vincenzo. Mi ritrovo anche in alcune delle storie: portò in macchina,/ dalla Basilicata a Lecce,/ una sposa defunta,/ seduta dietro coi parenti,/.

Tutto questo per dire che considero Vincenzo un compagno di viaggio. Ma sono anche consapevole che di un viaggio molto ci sfugge, soprattutto nel caso di un poeta come Vincenzo, fedele al suo sguardo luminoso e sornione allo stesso tempo. E oltre alla salentinità (Bodini), Vincenzo ci trasporta in un mondo epico e intimo fatto di passioni impetuose che s’imbattono in un sorriso ironico.

Vincenzo utilizza magistralmente la tecnica dello spiazzamento. A un incipit lirico-struggente, come ne IL PROFUMO DELLA COSA: In dietro si torna dove casa è seconda,/ pieni di fumo di camino della prima,/ di legna d’ulivo che arde a oltranza/ e verdura a mazzi che riempie la memoria./
fa seguito una strofa in cui viene ribaltato il registro e il lessico di partenza: Con me invece porto riserve di farmaci,/ per la grande di casa,/ referti di tecnici di protesi acustiche/ e prescrizioni d’esame./
un ribaltamento che serve a creare un certo straniamento, necessario per riportare il mito (l’infanzia) alla sua quotidianità. Procedimento che abbraccia la vita in tutta la sua incompiutezza, riappacifica con un passato fin troppo carico, allontana nostalgie e facili tentazioni/cadute nei luoghi di sempre. Una poesia di sostanza che esorta alla pienezza, “un canto vivo” nonostante i tempi.
      
Abele Longo
    
    

      

Cartoline

ZEN ZERO

Al bar delle mutande ci incontrammo,
non era un richiamo, ma uno sbaglio.
Tu eri sui gradini della chiesa di Alessano,
io al bar a Montesardo.
Contrattempi riequilibrati su altri gradini
a raccontarsi del passato ieri,
di come l’estate abbia sfoggiato il suo teorema
senza i cadaveri degli anni prima.
Poeta delle immagini, dicevi.

Ma l’immagine più efficace
me l’hai passata tu,
quella della volta che tuo padre
portò in macchina, dalla Basilicata a Lecce,
una sposa defunta,
seduta dietro coi parenti,
per il viaggio di ritorno
al paese della giovane signora,
passando pure egregiamente
un controllo della stradale.
Gli anni sessanta dei nostri genitori
e di noi più o meno nati.

Disquisimmo sui dualismi ai quali sei allergico,
concubino delle variabili,
e di come sia meglio fare che parlare.

Mi alzai deciso e ti portai nella chiesa
ripulita troppo, ma dignitosa,
a deliziarci della musica
di quel Girolamo Melcarne,
genius loci, e del seicento
secolo agitato
da noi apprezzato per i prodigi.

I santi, ai lati nelle nicchie,
di statura piccola ma onesta,
guardavano in una direzione inesistente,
quella del soprattutto e dell’ovunque,
mistici.

La madonna con il colpo della strega,
dietro l’altare centrale,
rapiva la mia attenzione
per la fisiognomica paesana
che la eresse a santa contadina
in qualche lontana era volgare.

Una mano usciva da una nicchia,
vista di lato, era per te,
sostenitore del frammento obliquo.

Un’apparizione momentanea
quindi un abbraccio
per il viaggio di ritorno,
una vacanza applaudita
con la mano mancina, la tua
e macchiata di rosso magenta, la mia,
tela di incontri difesi.

     

IL PROFUMO DELLA COSA

In dietro si torna dove casa è seconda,
pieni di fumo di camino della prima,
di legna d’ulivo che arde a oltranza
e verdura a mazzi che riempie la memoria.

Con me invece porto riserve di farmaci,
per la grande di casa,
referti di tecnici di protesi acustiche
e prescrizioni d’esame.

Per qualche ora lascio un pezzo di famiglia
che domani mi raggiungerà per l’inverno,
per più giorni invece il mio prediletto
che intimorito fa le guide a scuola.

Le bevute con le amiche di benvenuto
non prevedono ancora quelle di benpartito,
ma la rete raccoglie e non disperde
e se perde qualcosa è il profumo della cosa.

             

ELICA DI FOGLIE A DOPPIA PUNTA

E mi urla quasi nell’orecchio
la spagnola al telefono
che scambia comunicazioni di servizio.
Su un autobus fermo
mi rannicchio nel giaccone,
smaltendo i postumi
di una visione allo specchio
che mi atterra.

Frivoli sogni,
desideri inchiodati
e una faccia che sembra non ridere.
Inizi d’anno freddi nell’animo
che non so scaldare.

Gli amici spendono
gli ultimi spiccioli
di stentata e augurale distanza,
un tempo si era complici
come innamorati,
ora si è pavidi amanti.

E non alzo il dito
per nessuna direzione
saggia e opportuna
perché dove vado io
c’è una strada che non scarrozza
e non scorazza,
tiene bene la destra
e finisce sul palco
di un teatro da cortile.

Quelle voragini voraginose
o vore vergini,
nel dubbio di qualche g di meno,
mi attraggono, calamita d’angolo impossibile,
e non m’ascendono alla luce festiva
da calendario occidentale,
mentre crolla il mio romano impero
e il bizantino inganno.

L’amore libera le corde degli appesi,
libera gli appesi dalle corde
e non dimostra nulla
alla corte del basilico grande,
di quello piccolo
e della mentuccia infestante.

Chiudo il filo nella tela e passo,
cotone grezzo a più ondine,
senza segno lasciato a dominare
nella mediocrità conosciuta a più riprese
che si quieta – pingue indaco d’assalti –
nello stare o transitare errabondi,
elica di foglie a doppia punta.

                    

FUORI SEQUENZA

E di Istanbul che dire
se la santa sapienza,
velata moschea,
tarda a tenersi perfetta,
coi fumi d’incenso
che più non si vedono
e frammenti di volto
divino riflesso?

La vista si allarga
lungo una riva,
ma certo non chiude sull’altra,
tra minareti a cipresso
e famiglie di cupole quiete.

Colonne spezzate
ai lati di strade,
su marciapiedi erbosi,
al bivacco di vecchi
che giocano a carte,
in ozio speciale.

Le facce del posto,
le parti del luogo
sono molte e lontane,
ma pare di vedere più mondi di fronte.
Il blu dell’acqua non stinge
le terre accostate
da casi cromatici audaci.

E poi altri pilastri
in cisterne giganti,
basiliche piene di fede,
di pesci cresciuti nel buio
e candele votive
al santo del giorno che fu.

Spiare un harem che non c’è
e sentire le voci
che gridano ordini,
sospirano vizi in segreto
e in pubblico dicono virtù.

Un grande bazar identifica
la città incomparabile,
tra angoli netti di strade coperte
che offrono merci
che puoi non comprare.

Sedere in ginocchio
in moschea,
guardando gli uomini
curvi al profeta,
è passare tra anni
di piedi lavati, di fresco,
che camminano
su trame operose,
su parole a conferma
di preghiere canoniche.

         

TIRALA

E poi non fu l’ancóra di allora,
solo il grido del caldo strinse la gola
e le mani misero il nero nei vestiti di ghiaccio,

che volevo dire di più,
di quelle volte che in tasca misi
una pietra pizzuta
e tirarla non fui
capace
a quel vetro di luna.

MONTE DEI CAPPUCCINI

Si sale una scala, l’ultimo dell’anno,
piena di neve ghiaccia
e di quella nuova che cade
fioccosa sui passi di pane,
pagnotte fragranti.

Polpacci verdi di calze lanose,
gli uomini portano a braccio
grossi fucili dorati e a canne mozzate,
pronti a sparare in sequenza
gli auguri alla città sottoposta.

C’è un monte
sul quale mettersi il cappello
e vedere lontano.
C’è un’ora che passa
e una che sorprende,
tra buoni auspici
e saggi ravvedimenti.

Girando a caso, piegare
nel luogo dove dormono in tanti,
da più di due secoli,
e a parte leggere di Paracelso
che giace onorato,
uomo di scienza e di avanguardia.

Cade la neve, l’ultimo dell’anno,
e si preparano cene augurali
per una stagione che porta
incertezze sociali,
o sa di sapere che avanti si va
finché dura e si vive.

Non scorgo in quell’arco buio
il mantello del genio
che fece musica bella,
eppure ogni pietra ricorda
il suo tempo, ricco per i ricchi di corte
e di stento supremo
per i molti del borgo.

Passo così in rassegna la cifra
dei tanti cipressi in fila che siamo.

            

L’AGGRAVANTE

Carico un mulo
per la prossima stazione
– ci sarebbe stato presto
se non fosse per un sacco d’orzo scuro
che sciancò l’animale –
e nell’andare senza parole
una farfalla si posò sulla sua testa
ché la bestia stramazzò.

Lo schianto impenna orecchie,
sveglia come terremoto,
passa, chiude e mostra carte false
in un gioco che non smette,

l’aggravante mi sconcerta
e minaccia l’andatura
a due metri dallo stop.

     

KARMA

Sempre cerco altro
rispetto a quello che vivo,
come uno che negli agi
più non li conosce.

            

VIENNA

Nessuna invasione turca incombe
sulla città dal cielo chiuso
e nelle strade senza alberi.
Guglie fitte s’alzano
tra odori di cucina
per lo stomaco dei viaggiatori.
Leggo Costantinopoli di De Amicis
dopo essere stato nella città incomparabile
che più non esiste.

Cartoline queste mai spedite
da città abitate poco.
L’impero che fu resiste appena
nei fasti di un popolo composto,
un tempo oppressore cattivo nemico
e non per mera espressione ideologica.

               

IN FORMA DI CHIODI

Sono rose queste che sembrano chiodi
sparsi a mucchio sul muro che chiude
e che lascia vedere, giano bifronte,
altre borchie di petali rosso velluto.
Sono spruzzi di acqua a colori
sul bianco che attende una forma.

E’ tempo questo di un canto vivo
di scelte che portano fuori a cercare
il pane certo di quelli che a piedi
lasciano case abituate al saluto.

E sanno di fame le rose grondanti
che sembra si sazi solo con gli occhi.
             

Vincenzo Errico è nato nel 1960 a Collepasso nella provincia di Lecce. Nel 1985 si laurea in giurisprudenza presso l’Università di Urbino. Ha svolto l’attività legale fino al 1991. Nell’ottobre dello stesso anno si trasferisce a Roma, dove lavora presso la segreteria di una scuola pubblica.
Il suo interesse per la letteratura e la poesia prende forma al tempo delle superiori in seguito all’incontro col professore Aurelio D’Andrea, fratello del poeta Ercole Ugo. Consegue la maturità con una tesina sul poeta francese Arthur Rimbaud.
Nel 1993 la rassegna quadrimestrale di cultura Galleria di Caltanissetta, diretta da Mario Petrucciani e Vincenzo Consolo, pubblica tre sue poesie: E poi un grido; Tutto va come a riva; Se chiudere gli occhi portasse.
Nel 1995 la rivista internazionale di letteratura italiana Gradiva (n° 1 vol. 6 State University of New York at Stony Brook), diretta da Luigi Fontanella,  pubblica i versi: Volata poesia delle lacrime.
Nel 1996 la casa editrice salentina Madona Oriente (Melpignano), pubblica il suo primo libro di versi Retrovie, una raccolta a quattro mani, insieme a Giuseppe Farinella.
Nel 2003 vince un poetry slam organizzato dalla rivista bimestrale Origine, diretta da Michele Infante, con la pubblicazione sul n° 1 febbraio 2003 dei versi: Due sborrate, due visioni. 2010 ha un blog dove pubblica i suoi scritti e ospita quelli di altri: www.taccuinoblu.wordpress.com
Nel 2006 la casa editrice Ananke di Torino pubblica un’antologia di poeti contemporanei, curata da Gianluca Polastri, dal titolo Cuori Smascherati, sulla quale appare la poesia: Ti vedo.
Nel 2010, partecipa a Pugliamondo, un’antologia di poeti pugliesi edita da Edizioni Accademia di Terra d’Otranto – Neobar, nella quale compaiono dieci poesie.
Dal 1998 al 2011 cura una rubrica mensile di poesia sulla rivista Aut del Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli di Roma.