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Paolo Ricciardi

21 marzo 2016

NUOVA VIA CRUCIS IN METROPOLITANA

   nuova via crucis in metropolitanadon paolo

 

 

 

  1. Emily Dickinson.

E’ un libretto di 36 pagine, più le 4 di copertina, non di più, note comprese, dove si annidano  – come ama dire Fabrizio Centofanti –   sempre delle verità nascoste, o delle vere e proprie perle, tipo L’”io credo, io spero, io amo”  di don Mario Torregrossa, l’omelia sulla Madonna di San Bernardo (“seguendo lei non puoi smarrirti”), o i versi di Emily Dickinson: “Come se il mare separandosi/svelasse un altro mare,/ questo un altro, ed i tre/ solo il presagio fossero/ d’un infinito di mari/ non visitati da riva / – il mare stesso al mare fosse riva – / questo è  l’eternità” . A prima vista ti dà l’idea del classico opuscolo “devozionale”  che ha preso il posto dei santini di una volta. Lo prendi, lo sfogli, lo leggi, così, un po’ per curiosità, e per passare un po’ di tempo lungo il tragitto , che percorri ogni giorno,  sulla Roma-Lido , una vera e propria “Via Crucis. E invece no. Se tu lo leggi sul serio, questo libretto, non trovi magari l’America del Karl Rossman kafkiano, che hanno dirottato (teatralmente) anche su questi itinerari, ma puoi trovare le chiavi per entrare in altri spazi, in altri lidi, in altri cuori, in altri mondi, chissà, magari le “chiavi del tuo paradiso”. Sto parlando della “NUOVA VIA CRUCIS IN METROPOLITANA” di don Paolo Ricciardi, il parroco di San Carlo da Sezze, fermata Acilia, zona sud di Roma, linea B della metro, che porta al mare, che, mescolato al sole, è forse l’eternità. Lo disse perfino uno come  Rimbaud, quando vide il mare per la prima volta.

  1. Carmelo Bene

Questa Via Crucis, Paolo Ricciardi  l’ha dedicata a Papa Francesco, “pellegrino verso le periferie del mondo, nel terzo anniversario della sua elezione”, ma anche a tutte le comunità parrocchiali in cui è stato, e – soprattutto –a tutti coloro che viaggiano  sulla linea B. Allora gli ho detto, Don Paolo, andiamoci insieme sulla metro, con un gruppo di ragazzi, e leggiamola questa via Crucis, fermata per fermata, dalla prima stazione (Gesù è condannato a morte, guarda caso proprio al “Colosseo”), fino alla Resurrezione ( Stella Polare); sorride, un po’ ironico e un po’ perplesso. Gli dico, a suo tempo l’ha fatto uno come Carmelo Bene, mi risponde, Lo so. Anche quella era una sorta di via Crucis, una processione laica, ma ci si sentiva tutti un po’ cretini noi spettatori. Tutti dietro ad un pifferaio magico, con la voce da. tamburo-flauto, e una fascia sulla fronte, alla McEnroe. Ma noi non recitiamo, dico. Noi leggiamo a voce alta le “tue”  stazioni, a partire dal Colosseo: “ L’impero di Roma s’intreccia/a quel lembo di terra lontana/in cui visse quel giovane Uomo/ Pilato si trova … a rappresentare il mondo di sempre/ prestato al potere/ e s’incontra con Chi, Onnipotente, scegli di amare/  L’uomo, ogni uomo,   passato, presente, futuro, / condanna il Dio della Vita…alla morte …/ Ma il cuore in rovina si vuole destare/ e ricerca, incosciente,/ una vita che sappia di Eterno”.

  1. Dino Campana

Ricordo anch’io, quella volta, i segni del cerone sotto gli occhi bovini  del grande Istrione, e un microfono, con una luce di fosforo addosso. Leggeva i Canti Orfici di Campana, che gli si adattavano benissimo, con la sua visività enfatica, le sue allucinazioni, la fantasia onirica,  che amplifica e trasfigura, e, soprattutto,  con quella componente fonico-musicale, ossessivamente ripetuta, che si fa voce ingorgo ed eco di flauti. Quei versi erano come il frullare di ali di un uccello tenuto in gabbia per quasi tutta una vita, un uccello incapace di volare… Ora siamo alla Piramide, alla terza stazione, a Gesù che cade per la prima volta. “E’ un crocevia /di macchine, moto, persone, /povera gente/ di tutte le razze.” . Forse la parola che ora tu ascolti, al di là delle interferenze, al di là delle distorsioni volute di quella voce eidetica, che assume in sé, oltre ai significati e ai significanti, anche il più vasto repertorio della gestualità,  tu – onestamente – non riesci a capire quasi più niente dei versi o della prosa di  Campana, se non un vago suono musicale, un’eco  . Quello che ti rimane è un’esitazione tra un suono e un senso .

 

  1. Nanni Moretti

Siamo alla quarta stazione, alla Garbatella, prediletta, da Nanni Moretti, (L’unica cosa  che mi  piace fare è guardare le case  e devo dire che il quartiere di Roma che più m’è piaciuto è la Garbatella, perché c’è vita autentica), dove Gesù incontra la Madre. “ Mi immagino ancora le mamme/che chiamano i figli dall’alto,/mani dischiuse e finestre, odori di cibo,/ di pane, di pizza, di panni distesi,/ la semplice vita di gente che vuol camminare/ malgrado le prove:/ Atti d’amore minimi o immensi/convivono insieme con atti violenti, /piccoli o infami di vita “malata”/ Garbatella è il nome di ogni paese del mondo. /E in ogni paese del mondo/Gesù incontra sua madre”…. La voce di Carmelo si fa eclisse, s’oscura, poi traccia figure sonore, traiettorie, sponde di biliardo, medium tra il corpo dell’attore e lo sguardo dello spettatore. Il suo teatro accerchia quel punto fosforico che Artaud chiamava la Parola prima delle parole. Ormai nessuno di noi capisce più nulla di ciò che dice l’attore, e ci siamo perfino dimenticati di chi siano i versi che sta recitando . Ma siamo sicuri, poi, che siano versi?

  1. Acilia

Intanto noi andiamo avanti. Siamo a Marconi, dove la Veronica asciuga il Volto di Gesù: “…una donna ./ Emerge, tra tanti, col panno,/ nel gesto d’amore/ d’imprimere un soffio al Signore…//Di togliergli il sangue,/le spine,/ le lacrime, tante, / versate sul viso e sul cuore”.  Proseguiamo fino a Tor di Valle, dove Gesù incontra le donne di Gerusalemme.  “ La stazione ippica che “ richiama i cavalli, i fantini, /la gente  che ha vinto e perduto le scommesse/ A questo incrocio di corse-rotaia e galoppo – / Gesù va sempre più piano/ Era entrato trionfante,/ma in groppa a un asino lento,/nel segno di un umile regno//…Le donne che sono qui dentro, in questo vagone,/mi sembrano piene di vuoti./Mancanze di tempo, d’amore, di affetti….”Siamo arrivati ad Acilia, undicesima stazione, dove Gesù è Crocifisso: “Acilia, Palocco, Axa, Infernetto/,sono tante realtà diverse ed  uguali,/ cosparse di verde, con strade bucate, vicoli, viali/ realtà popolari e villette con cani guardiani/ E impianti sportivi, industrie, mercati…/Gesù  è crocifisso tra tutto il trambusto/ di questi quartieri svuotati di giorno/ e pieni soltanto di tramonto/ La croce si innalza per dare valore a questo viavai, / dar senso e colore al buio dell’uomo/ e riempirlo di nuovo d’amore”.

  1. La parola

Leggere, per Bene,  questo nostalgico dell’impossibile, è un modo per dimenticare, leggere è una forma dell’oblio; in fondo scrivere e leggere sono stretti in un unico gesto di sparizione. E’ una cosa bella scrivere, diciamo noialtri  scriba per vocazione  o dannazione, però sarebbe meraviglioso che ogni tanto qualcuno riuscisse a leggere davvero una nostra pagina, una soltanto di tutte quelle migliaia e migliaia che scrivi, sarebbe bello vedere qualcuno che prende in mano, ad esempio, questo libretto di Paolo Ricciardi  e pronunciasse a voce alta  la parola che coglie a Ostia Antica, dove Gesù muore in croce .Qui s’aggirava Agostino, “vicino a sua madre, discorreva di cose di Dio / E mentre parlava il discorso portava a passare / dai sensi terreni alla gioia dell’Essere stesso, / il Creatore del cielo, del sole, le stelle//…Quello sguardo di madre e di figlio mi tornano ora, / in questo momento in cui guardo la croce/ e lì sotto Maria.” L’istante in cui tu la pronunci la parola diventa viva, ma è come una fiamma che arde, che brucia; non puoi trattenere la pagina in cui è scritta, il foglio rapidamente si dissolve, sparisce, e tu non ricordi  più quello che c’era scritto, quello che tu stesso avevi scritto col tuo sangue. Ma in fondo era solo una vaga traccia sulla sabbia, un’ impressione, un’ombra, una scia di un ricordo, la sensazione  di scrivere  una poesia, o almeno un verso degno di questo nome .

  1. Poesia è rifare il mondo.

Siamo arrivati alla quattordicesima stazione, in cui Gesù è posto nel sepolcro. “ Il viaggio, che è quasi finito, /mi trova ferito da tanto silenzio/ Quante volte ho veduto morire persone,/ richiudere bare, veder lacrimare/ E sapere Gesù nel sepolcro, e così non vederlo, / è il dramma di chi, sconsolato,/ pensa soltanto che tutto è finito. Siamo alla  Stella Polare, alla Resurrezione . “Eccomi, sono arrivato. /Scendo alla “Stella Polare”, /ripieno di volti, di storie, persone/ Ogni giorno la via della Croce/ incrocia la via dolorosa dell’uomo. / E a ognuno vorrei dare coraggio, / infondere forza, / perché non c’è croce/ che non porti alla Vita/ come la foce si apre nel Mare”.E ci rimane la sua voce, pacata, umile, modesta, ( ringrazio mio fratello, scrittore, che mi ha rivisto e corretto il testo in alcuni punti), ma non priva di ironia, ricca di sentimento e calore umano (“ringrazio chi mi ha insegnato a viaggiare osservando fuori dal finestrino e dentro il cuore degli uomini”) , la sua è una voce diversa, un suono che accade, un sussurro che grida e diventa il tutto, il resto è niente. E’ una scia, un’onda di risacca, un’eco, il mistero delle piccole cose che si fanno poesia, bellezza, rinascita.  “Manda signore ancora profeti,  uomini certi di Dio,  uomini  dal cuore in fiamme / E tu a parlare dai loro roveti sulle macerie delle nostre parole/  A dire ai poveri di sperare ancora / Anche le cose sono parole, scrigni di sillabe divine, dimora dell’essere / E voi, scribi del mistero, poeti di cui un solo verso fessura sull’infinito come il costato aperto di Cristo/ ci ricordate ad ogni istante che / Poesia è rifare il mondo”.

Mentre ci accingiamo a scendere dalla metro percepiamo lo sguardo dei passeggeri volto su di noi, e vi scorgiamo qualcosa di  “benevolmente pietoso”.

Roma, 17 marzo 2016

Augusto Benemeglio

 

 

Augusto Benemeglio

30 giugno 2015

qui/ nella pianura di rame
e del sole nero
il vento del deserto /non ha canti
e la musica è lamento

ogni porta si chiude /sul tramonto

è l’ora dello sguardo
fissato contro il muro
poi si rientra nella stalla

la speranza è la notte

altro qui

Augusto Benemeglio

22 giugno 2013

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Da “SALENTO ANTICO” (*)

Resta il grido dei poeti

Ho letto questo poemetto con i sensi all’erta e con il cervello desto. Conosciamo Augusto Benemeglio come critico raffinato e colto, generoso e mai ritroso, in grado di tenerci a riflettere su un verso come fosse voce quasi oracolare. Ora mi giungono fra le mani i versi di un poemetto dedicato alla sua terra d’elezione, il Salento, terra odorosa e antica, terra di fatica che secerne la bellezza dalla materia con cui è andata facendosi nel tempo.
La prima parte del poema è dedicata al paesaggio geografico, psicologico e antropologico ed è tutto declinato sul versante sensuale; lo sguardo, la visione, sono insufficienti a dire la varietà e la complessità di quella terra dove il vento non canta ma geme, dove il deserto ha tinto di rosso la pianura e perfino il sole ha sembianze scure, quasi malevoli, comunque eccessive.
La solitudine ferisce lo sguardo, la speranza si conosce sperduta eppure non resa. Ma la vita ha la densità e le sfumature di una tavolozza ardita.
La seconda strofa è, infatti, uno splendido quadretto che allarga la visuale e mostra i particolari e gli usuali: è poesia pura, allo stato sorgivo e quanto il dolore e la fatica abbiano inciso non è mai posto sottotraccia, ma si rivelano con una sovrabbondanza di colori, una tavolozza intera si dispiega ai sensi e dai colori indoviniamo odori e sapori:

“./ e i vasi di geranio
e la salsa rosso-cupa
delle feste comandate
il gorgoglio dei mosti
e l’odore acre delle vinacce”

Pochi versi hanno saputo dire una pienezza sensuosa e realistica con scarsi selezionati elementi.
Ma il Salento ha una esuberanza di bellezze che vanno dagli oliveti al mare con gioielli di città incastonate; così è Lecce nei suoi arzigogoli barocchi, nelle sue cartapeste, nello sguardo che è attratto e si smarrisce in larghi e in vicoli, in chiacchiere di cerusici e commercianti, per una vita di vicinanza o, meglio, di comunanza, perché

“ecco i fanciulli che nascono dicendo
– ahi!
e il sangue delle lune borboniche
che sgorga melenso
e s’interra negli scantinati”

Dunque accanto alla bellezza coabita la sofferenza, la miseria, una diffusa barbarie che non si espone smaccata ma vibra anche nelle polemiche degli intellettuali .
E’ dalla quinta strofa , introdotte le persone, il luogo d’elezione delle “chiacchiere” che la riflessione di Benemeglio procede spedita verso i contrafforti di un tempo storico meschino e miserevole.
Ecco il grido del poeta:

chi di noi ha tradito?
ripete la città / ripete
ogni sera/ a questa stessa ora
sulle pietre rosse
nel suo delirio circolare

tutti abbiamo tradito/tutti
certamente/ ripete l’eco
delle sculture d’aria

Ma è grido inascoltato perché sono spariti gli spiriti capaci di intendere, sono ridotte a rovine maschi e castelli, sono morti i profeti e l’aria accoglie defunte immagini di orgoglio e potenza.
Perché e per chi ancora gridare e sollevare i lamenti per le morali e gli onori perduti?
La voce di Benemeglio diventa aspra, accusatoria e centra la piaga:

“dobbiamo rendere i giorni abitabili
e allora diciamo
che la città ci ha traditi
la città è femmina / è mutevole
e così poniamo fine
alle nostre polemiche
senza capo né coda
e continuiamo a disonorare
questa sacra pietra/
questa stele oltraggiata
questo nome coperto di sputi.”

Credo che il poeta qui non si limiti a indicare il Salento come luogo di maleficio; credo che la sua voce si erga con tanta forza per denuncia estesa ai tempi, ai luoghi della penisola italiana; questi tempie questi luoghi che hanno modi di donne discinte, senza onore, senza alcuna dignità. In questo deserto di morte morali, solo la parola che sa procedere verso l’oltranza è ancora di speranza, se non ancora di salvezza:

“ci rimane quel grido dei poeti
che forse può ancora salvarci.”

Narda Fattori

                     

                     

I

qui/ nella pianura di rame
e del sole nero
il vento del deserto /non ha canti
e la musica è lamento

ogni porta si chiude /sul tramonto

è l’ora dello sguardo
fissato contro il muro
poi si rientra nella stalla

la speranza è la notte

II

all’alba i mari striati di verde
gonfi di storia dimenticata
e i castelli diruti
e le torri di vedetta
le campagne bruciate
gli ulivi laminati d’argento
inerpicati /sulle rocce delle serre
come guerrieri polverosi

e i caseddhri di pietra grigia-chiara
ornati dal basilico
i canti griki dei carrettieri/ e quelli neri
delle raccoglitrici delle ulive
i canti rossi delle vendemmiatrici
e i canti gialli
delle raccoglitrici di tabacco
in una teoria di terrazze/e corti
con i mignani/ e i vasi di geranio
e la salsa rosso-cupa
delle feste comandate
il gorgoglio dei mosti
e l’odore acre delle vinacce

III

oh! /la salacità
dei barbieri cerusici-cartapestai
di lecce
le annose polemiche /ai tavoli di caffè
l’ultima poesia di sinisgalli
l’ultima stroncatura di bodini
l’ultimo saluto alla stazione
sul treno-diligenza
che partiva (vuoto) /soltanto per te

ecco i fanciulli che nascono dicendo
– ahi!
e il sangue delle lune borboniche
che sgorga melenso
e s’interra negli scantinati
la vecchia dal mento di creta
che scende i gradini della cattedrale
e le lame gialle e viola che feriscono
il cielo a occidente

IV

le danze dei satiri /e delle loro sorelle
l’ora immobile / del dio della luce
le invisibili cicale
e i labirinti di pietra e miele
dove si cela l’oscuro enigma

ecco il demone meridiano
che urla in una città di fantasmi
ecco i tasselli colorati /di prete pantaleone
i sipari d’ombra
e il sommesso eco di onde
che s’infrangono sui bastioni

ecco tutte le nostre macerie
che ci portiamo dentro
nei night di roma
tra memorie di filetti di cavallo
e vino rosé
di nostra signora dei turchi

noi abbiamo abitato l’anarchia
e tuttora vi bruciamo dentro

empi e miscredenti
saremo arsi sulla piazza
come giordano bruno e giulio cesare vanini
o dannati come bodini pagano e verri
ruggeri toma e carmelo bene

intanto continuiamo a bruciare
nel tempo immobile
ora che abbiamo passato l’età
degli enfants prodige
e rimaniamo solo prodige
con la barba brizzolata
e la panza che avanza

             

 V
             
chi di noi ha tradito?
ripete la città / ripete
ogni sera/ a questa stessa ora
sulle pietre rosse
nel suo delirio circolare

tutti abbiamo tradito/tutti
certamente/ ripete l’eco
delle sculture d’aria

tutti/ perché volevamo
una città immutabile
una città morta
e senza più dei
quella stessa città d’aria e di vetro
che avevamo lasciato tanti anni fa
con le quattro colonne intatte
e i venditori di droghe
(quelli che venivano da smirne
lungo la via della seta,
non quelli dei campi di papaveri)
con gli artigiani nelle strade
e le forge in bottega
col circolo culturale
ridicolo e muffito
e l’università tutta da ridere
una università di carta

ma dobbiamo difenderci pure
in qualche modo
dobbiamo rendere i giorni abitabili
e allora diciamo
che la città ci ha traditi
la città è femmina / è mutevole
e così poniamo fine
alle nostre polemiche
senza capo né coda
e continuiamo a disonorare
questa sacra pietra/
questa stele oltraggiata
questo nome coperto di sputi.

               

VI

                 
noi siamo il risultato raro
di prodigi contaminati
che ci hanno resi
cittadini del mondo
perché non abbiamo più baricentro
siamo un moto perpetuo
e passiamo/ dal fico al melanzano
dal roseto al baobab
dall’albero delle mosche
all’albero del pane
dal bambù al cactus
con naturalezza assoluta
quasi con pervicace predisposizione

noi siamo sempre nella via di mezzo/
nella pausa / tra principio e fine

abbiamo uno starace / segretario del partito
(era di qui/ scherzi della storia/ e del destino)
e la carezza del duce/ – ohibò- dove la metti?

              

VII
               

sì, lo sappiamo, / il sud è/ la terra del rimorso
per noi artisti scrittori
giornalisti scienziati
per noi scriba parassiti
pennivendoli e altro ancora

il sud è la terra dei minori
sempre in attesa di essere
riconosciuti più grandi
ma bisognerà/ pur riscriverla la storia
prima o poi
bisognerà far capire/ che la nostra
è una fatica immane/ a rimanere quaggiù e
a gridare nel deserto
in attesa che ti taglino la testa
per le grazie di una salomé

scusate, ma uno
si deve pur incazzare
se pietro micca è sui libri di testo
perché saltò in aria
facendo il suo dovere di soldato
e ottocento martiri otrantini
che si fecero decapitare/impalare/squartare
resistendo ai turchi e all’islam
stanno a malapena/ dietro i sipari
di memorie locali
o no?

      

VIII

              
è che siamo
uno a ottocento tra sud e nord
questa è la giusta proporzione
sia nella storia che nell’economia
sia nella scienza
che nella civica educazione
e anche nel successo sportivo
e nel mercato / nel mercatino
e nell’espansione del pensiero
(i nostri profeti veggenti
cercano ancora gli occhiali)
e nel valore tout court
della latitudine e pelle
abbiamo perduto tutto
e in tutti i campi
          

IX

         
ci rimane forse la poesia
che è la lingua dell’allegoria
che copre i misteri della natura
e le più sublimi
concezioni della morale
con un pudico velo
ci rimane dunque
la lingua dei fanciulli
e degli dei
il segreto magico
la sua forza e l’incanto

ci rimane la
poiein-poiesis-phohe
(la bocca la voce il linguaggio)
e ish
(il soffio del dio sconosciuto)

ci rimane il grido dei poeti
sulla pagina ancora non scritta
sulla pietra e sul metallo
sulla tela ,
tra le formule fisiche e chimiche
fra la gente
nel mondo che s’incontra
in ogni città libera da bandiere

ci rimane quel grido dei poeti
che forse può ancora salvarci.

Gallipoli, 1992

• 1° Premio assoluto – Silloge inedita al Concorso Nazionale di Poesia
• “Penisola Sorrentina”, 1996.

Augusto Benemeglio è poeta scrittore recensore drammaturgo regista, giornalista, anchor man… Diarista, a suo dire,  che registra tutto il vissuto e il sogno, che è la parte più importante, “scriba” a trecento sessanta gradi  (sua definizione), per vocazione, forse, o dannazione…  e dice ancora: “Per deliziare, commuovere, emozionare, sconcertare, sbalordire quattro gatti e provocare, annoiare, far incazzare, farsi destestare, dalla maggior parte di persone, sempre inseguendo i sentieri dell’utopia, o dell’idiozia, fate voi, certo di tutti i fallimenti e delle sconfitte  (e degli spernacchiamenti) che sarebbero venuti (e sono venuti a pioggia), ma anche con la vaga speranza che quattro gatti della mia stessa matrice sarebbero stati solidali con me, se non altro per compatimento, per umana pietà.

Cura le pagine culturali della Rivista cartacea “Espresso Sud” di Lecce, di cui è  stato vice direttore; è  stato conduttore e, per molti anni, opinionista del network  “Teleonda” Gallipoli.
Attualmente è responsabile del Gruppo Recital 2010 del Teatro D. Torregrossa.

Ha scritto più di una trentina di libri, ma tre sono quelli che reputa possano essere utili:
Ipotesi Cancro,   Ritratti,   Ultimo tramonto in Sudafrica.