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Emiliano Cribari – Luigi Paraboschi

18 marzo 2023

 

Ogni volta che leggo qualcosa di questo autore divenuto ormai amico senza esserci conosciuti che solo attraverso le sue poesie e le foto dei suoi camminamenti sull’Appennino, provo dentro me un senso di affinità di sentimenti e di emozioni che non molti altri autori mi comunicano.

Questo non è un romanzo, non è un libro di viaggio, neppure una raccolta di poesie, è la sintesi che egli ha fatto quasi quotidianamente delle proprie riflessioni durante lo svolgimento del lavoro di libraio errante, come egli sa di essere, che ha messo in un piccolo libretto per regalarle  ai lettori nutrendo la speranza di condivisione.

Qual è esattamente il lavoro di Cribari ? Raccoglie libri usati, in giro per case che si devono traslocare per bisogno di spazio da parte dei proprietari, ovunque egli trovi qualcuno che abbia necessità di sgomberare nuove o vecchie biblioteche.

Li carica sulla vecchia Panda, dopo averli smistati in base a criteri che non mi è dato conoscere, e, giorno dopo giorno si mette in macchina per recarsi sui vari mercatini ambulanti attorno al luogo dove egli vive, aprire il banchetto e attendere i clienti.

L’incertezza che sta sempre alla base del lavoro di questo poeta è ben espressa in questa  riflessione riportata a pag. 101

… non c’è scelta di vita che mi dia serenità. Il mio tormento non deriva da scelte che faccio ma da ciò che io sono.

Penso che un lettore non superficiale, di fronte a questa affermazione, non possa che sentirsi incuriosito ad approfondire l’autore e porgo di seguito quest’altra di pag  36:

“… a cosa serve invecchiare? Io voglio morire al più presto, nel sonno.

 Ne aggiungo un’altra di pag. 30 che ribadisce una vocazione espressa con molta chiarezza nei libri precedenti

…”io voglio essere un uomo dei boschi anche in mezzo ai palazzi”.

Ancora a pag. 74 c’è:  

“… ho bisogno di sentirmi accolto“

e a pag. 67 quest’altra:

“… ho paure lunghe decenni“

Quanto leggiamo è sintomo di fragilità e di sensibilità molto accese che spesso attraversano l’animo anche a molti noi e che solo i più bravi talvolta riescono anche a trasmettere al lettore con  qualche verso di poesia.

C’è una brevissima frase di pag. 46 che riporto:

 “… oggi è tornata a trovarmi B.

Leggendola non ho potuto fare a meno di andare con la memoria a certi passi che si trovano nel diario di Cesare Pavese, ove lui scriveva la stessa sintetica e riservata frase, rifendosi alla famosa Costance, amata tanto a lungo.

Forse sono fuori strada nell’interpretazione degli scritti di Cribari ma il B. appuntato mi ha aperto questo spiraglio di lettura al quale non sono riuscito a sottrarmi e lo collego a un bisogno profondo di vicinanza con qualcuno che  possa condividere quest’altra frase i pag. 39:

“… sono travolto dalla tenerezza“

è così’ intenso il bisogno di vicinanza nell’autore che di fronte ad un signora che rifiuta di accettare il piccolo resto del suo acquisto, che lo induce a scrivere a pag. 40: “ …la donna che ride con gli occhi compra tre libri ma non vuole che le dia il resto: e aggiunge “E come potrei? Tu mi hai reso felice.”

Un’altra persona lo porta a commentare a pag. 31

“…. ha pagato e se ne è andata a passo lento appoggiandosi ad un bastone con il libro sotto un braccio. Avrei potuto piangere.”

Mostrarsi a coloro che egli incontra lungo la strada non è sempre gradevole, c’è di ogni tipo su una piazza del mercato, leggiamo a pag.48

“… mi domando in fondo cosa cercano, le persone, quando cercano“

però  di contro troviamo anche espressioni di serenità, esempio a pag.43  

“… oggi ho incontrato quasi soltanto persone gentili“

e aggiunge a pag. 65:“ essere gentili spalanca le anime“.

 L’amore per la lettura e per i libri lo ha indotto a fare il lavoro scelto sperando che il tempo gli dia ragione quando scrive a pag 45: “… magia dei libri. Che dal nulla s’inventano ponti, invisibili strutture capaci di trasfondere persone.“

Concludo questa mia visita al lavoro di un amico con questa frase che racchiude la più chiara spiegazione attorno al suo amore per la scrittura:
“…la poesia nasce da attese disilluse. Ogni parola è stata prima delusa“

Questa è la mia interpretazione di una vocazione per la poesia simile a quella   di Dino Campana, altro poeta errante sull’Appennino, che si può  condensare in questa frase  di pag. 91 che scelgo  come finale:

“… ho una voglia disperata di camminare per chilometri e chilometri. Tutto a diritto- Da solo“

 luigi paraboschi

                               

                             

                               

Emiliano Cribari

Poeta, fotografo, camminatore.
Dal 1999 ha iniziato a sperimentare nel contesto di svariati ambiti artistici: dalla poesia al teatro, dalla fotografia all’audiovisivo.
Parallelamente, ha maturato alcune esperienze professionali anche nel campo dell’editoria e del giornalismo.
Dal 2015 ha iniziato a sviluppare progetti fotografici di carattere personale, soprattutto su tematiche sociali. Nel 2019, come guida ambientale escursionistica, ha dato vita alle “cammina-te letterarie”, escursioni di gruppo caratterizzate da letture poetiche.
Ha pubblicato La cura degli istanti (Transeuropa, 2019), La vita minima (Ani-maMundi, 2020), Errante (AnimaMundi/emuse, 2022), Mar d’Appennino (Edi-zioni dei Cammini, 2022) e Il valore dell’aria (EC, 2022).
Ha inoltre curato il riadattamento in lingua italiana della raccolta di poesie La saggezza del condan-nato a morte e altre poesie di Mahmud Darwish (emuse, 2022).

Luca Pizzolitto

21 marzo 2022

CROCEVIA DEI CAMMMINI

Ed peQuod 2022

                                

                                       

recensione di Luigi Paraboschi

                                   

                                                    

Due parole in questo lavoro mi hanno affascinato dall’inizio : si trovano nell’ esergo di apertura ove si legge una citazione del poeta francese Bonnefoy che dice :

“ E l’estraneo, l’esilio, in te, in me, si faccia origine “

Le parole sono : estraneo – esilio, e le ho tenute presenti lungo tutto lo sviluppo della raccolta; lentamente mi hanno aperto uno squarcio dentro i versi di Pizzolitto aiutandomi, spero, a inquadrare meglio la figura di questo poeta che nella sua scrittura dimostra ottime qualità di approfondimento nell’animo suo e, di conseguenza, anche in quello dei lettori armati di buona volontà.

La raccolta parla d’amore. Vorrei però dissipare i luoghi comuni molto diffusi attorno a questo sentimento, perché nel nostro caso ci troviamo di fronte a una forza interiore talmente grande da far sì che l’autore si senta, e ci faccia sentire tutto il peso la sua condizione di esiliato e di estraneo, come leggiamo a pag 35 :

“ Io cammino solo e/ spento nel tramonto// il mio cuore è un ceppo/ di legna secca bruciato/ fino all’ultimo centimetro/ di amore possibile-// “

Il libro ha un andamento che assume la veste della confessione pubblica attorno a una storia d’amore finita, o che sta per finire, e il tutto viene esposto al lettore con estrema brevità ( al massimo otto versi in qualche raro pezzo, ma se ne trovano parecchi di una o due brevi strofe ) che rimanda a certi film di Resnais degli anni ‘59-’60 (“ Hiroshima mon amour“ e “ L’anno scorso a Marienbad “ ) .

Come in quei film, si è talmente ridotta la comunicazione-dialogo dei personaggi da arrivare al punto di fare estinguere la storia dell’amore tra un uomo e una donna per non causare ulteriori sofferenze tra di loro.

Infatti l’autore scrive a pag. 20 :

“ Parole che staccano a morsi/ lembi di pelle, parole su carne viva “

E’ il tormento, la tortura psicologica – che forse traggono origini dal “ non detto” nel rapporto a due- ciò che fa sentire il poeta come tagliato fuori dal vivere, mandato in esilio non per colpa di qualcuno, bensì per una sorta di dannazione dovuta all’esistere ove

“ nessuno verrà a dirti/ ciò che manca “ (pag. 40 ).

L’esilio è tradizionalmente la condizione perenne di distacco dalla terra ove si ha avuto origine, ma per terra si può anche intendere una persona con la quale c’è stato :

“ il cedere lento all’ebbrezza/ dei naufragati, un dolce restare/ dentro tutte le cose “ ( pag. 26 )

e l’esiliato è colui che analizza il suo vivere ancora di pag. 40 :

“ E’ come bere, bere tenendo le labbra/ stette alla bottiglia, bere e avere sempre più sete //.

Quando il dolore per una perdita è molto acuto l’anima del sopravvissuto cerca in continuazione il modo per non sentirsi estranea all’esistenza e pag.12 riporto per intero un testo che lo esprime con chiarezza :

“ La terra divisa e lasciata/ alla cenere, ciò che avanza/alla notte è deriva lenta del cuore:/ quale libertà, mi dici, quale libertà/ è questo nostro stare, inquieti,/ inchiodati// nello spazio senza rumore di un istante ? //Qui sulla riva lontana del fuoco,/ ti seguo con lo sguardo,/ mi cerco ancora .//

Tutto il lavoro di Pizzolitto appare come una tela di pittura astratta costruita passo dopo passo con brevi colpi materici di spatola, come se egli usasse la lingua come il pittore fa con i colori .

Lentamente egli passa l’osservazione del paesaggio a pag. 16:

“ fluisce la vita, irreparabile,/ tra bottiglie lasciate a metà/ e questo cadere di foglie/ nei giorni di ottobre “

ove però la natura ha qui un posto quasi marginale nel suo narrare, sembra un “ pour parler “ che gli serve semplicemente per imbastire il racconto di sé e del suo dolore, a pag.14

“ …….tutto sfugge e trema/ nella città dimenticata, tutto/ si fa memoria austera del vuoto/…….

ed è sempre lui il nucleo centrale attorno a cui si annoda e snoda tutta la storia, pag35 :

“ io cammino solo e spento nel tramonto// il mio cuore è un ceppo/ di legna secca bruciato/ fino all’ultimo centimetro / di un amore impossibile !!

e l’amarezza gli fa scrivere con echi pavesiani a pag. 40

“ Forse il senso della vita è qui/ nel tempo che scorre e non chiede ragione ; forse è l’abbaiare d’un cane alla notte, il ricordo di una giovinezza/ ormai lontana/….

Poi con fatalità aggiunge a pag. 91 :

“ noi andiamo sempre verso un tempo, una stagione che non sappiamo “

e conclude a pag. 102 con questa strofa :

“ Nell’ istante esatto in cui il tuo cuore/ si spezza e capisci che niente ritorna/ niente può mai durare davvero “.

Rimangono soltanto i ricordi ma causano sofferenza, e stralcio ancora questi due versi di pag. 21 .

“ questo silenzio tra i nostri corpi/ il fragile inganno delle mani “

Al poeta non resta che la sconfitta e a comprova di quanto scrivo, trascrivo questa di pag. 93 per intero :

“cammino solitario mentre/ nell’ azzurro del cielo cade/ la sera e si fa notte//
Questa collina è sabbia/ che il vento solleva e disperde// giorni fatti di addii,/ cappotti scuciti e foglie/ fiorite su nuove,/ disabitate lontananze “.

Alla fine della storia l’uomo-poeta avverte tutto il peso della impossibilità a condividere con qualcuno il suo dolore se non con chi lo ha generato sia esso la madre terrena o il Dio in cui egli dimostra di credere, e, come succede spesso agli uomini, alza lo sguardo al Cielo sperando di trovarvi qualche conforto, ma…

“ Nell’ ostinato silenzio di Dio / nel suo sguardo breve/ di madre/ e trova riposo/ ogni mia lontananza//

E’ duro amare dentro una storia finita, scardina ogni sicurezza il ricordo del passato, così ben detto a pag. 65 :

“ Di questa estate ci resta addosso/ la nuda felicità delle gerbere in fiore/ l’andare del vento sui nostri passi,/ le Ave Maria in latino nel chiostro/ di san Miniato// Due rondini volano sui cieli infranti/ dei nostri inutili ritorni./ Firenze è il ricordo di una città che/muore nel sole di agosto //

Ma quel Dio che precedente l’autore aveva definito “ silenzioso “ prepara dentro l’ animo di Pizzolitto la Sua resurrezione, e riporto per intero questi versi della poesia “ Venerdi’ Santo “ ( pag. 51)

E’ un sole che splende/ sulla polvere di strade/bruciate; forte ed eterno è l’amore.// Guardi il vuoto, silenziosa presenza:/ niente cede, niente muore davvero //

Il cammino dell’esilio è stato lungo e dolorosi, i ricordi portano un poco di gioia dentro il cuore, ma il poeta sa dove cercare rifugio e conforto, e volge lo sguardo verso qualcuno che ha sempre sentito presente nella sua vita, concludendo la raccolta con questa poesia a pag. 103 che dà il titolo all’intero lavoro :

Crocevia del cammini

Nello spazio sacro della sera,/
nel volgere a compimento/
di tutte le cose/
scenda ancora su di noi la grazia,/
una dolce benedizione//

a Te giunga il canto/
di questo inquieto esistere,/
a Te giunga il grido/
che non trova pace, ragione//

Anch’io da lettore appassionato, da uomo spesso addolorato per le più diverse ragioni, da persona che si muove lentamente per le vie del mondo e spesso si smarrisce per la strada, non posso che riconosce nei suoi versi una forza espressiva non indifferente, e la mia speranza per lui è che possa trovare la pace e la ragione ove egli pensa di averla riposta.

17-18 febbraio 2020
luigi paraboschi

POESIE TRATTE DA “CROCEVIA DEI CAMMINI” (peQuod, collana Rive, 2022)

Nell’avanzo di parole
su cieli colmi di rabbia,
qui dove piove piano
e rinfresca la sera

cedi al vuoto, al niente,
il dono austero delle labbra.

Nell’ostinato silenzio di Dio,
nel tuo sguardo breve
di madre trova riposo
ogni mia lontananza.

Dalle tue cicatrici

Il nostro è un paese
di pietre e rovine,
qualcosa che somiglia
al distacco lento dei corpi
dopo l’amore,
lo stelo avulso,
spezzato del tempo.

Dalle tue cicatrici
ciò che nasce – ora,
ciò che nasce è solo
inerme, smisurata
bellezza.

Luce lasciata e tersa
dei primi giorni di dicembre,
misericordia del vento sul
tuo viso gentile, tagliato dal freddo.

È l’eco ostinata del vuoto,
è un peso greve sul cuore;
neve che accende e poi placa
l’inciampo della sera.

Andare in pezzi, fiorire un mattino.

Un dolce restare

Tra me e voi giace un’assenza,
una sussurrata lontananza.

L’aria intorno è ferma, pesante.
Nel cielo caldo, nell’afa di agosto.

Il cedere lento all’ebbrezza
dei naufragati, un dolce restare
dentro tutte le cose.

Hai detto

Ritrovarsi a terra, salvi,
qui dove i vetri soffrono
e le tue ciglia tremano appena.

Mi hai preso per mano,
hai detto Vieni, è quasi mattina.

Venerdì Santo

È un sole che splende
sulla polvere di strade
bruciate; forte ed eterno
è l’amore.

Guardi il vuoto,
silenziosa presenza:
niente cede,
niente muore davvero.

Luca Pizzolitto nasce a Torino il 12 febbraio 1980, città dove attualmente vive e lavora come educatore professionale.

Da quasi vent’anni si interessa ed occupa di poesia.

Nel 2008 vince il Premio Arezzo Poesia; nel 2014 si classifica primo al Concorso Letterario Internazionale Città di Moncalieri (“Una disperata tenerezza”, Ladolfi)i.
Nel 2019 vince il Premio Internazionale Città di Latina (“Il tempo fertile della solitudine”, Campanotto).
Nel 2021 è finalista al Premio di Poesia Onesta e Premio Prato Poesia (“La ragione della polvere”, peQuod)

I suoi ultimi libri pubblicati sono: L’allontanarsi delle cose (Ladolfi), Il silenzio necessario (Transeuropa), Dove non sono mai stato (Campanotto), Il tempo fertile della solitudine (Campanotto), Tornando a casa (Puntoacapo).
Con la casa editrice peQuod ha pubblicato, nella collana Rive: La ragione della polvere (2020) e Crocevia dei cammini (2022).

Da fine 2021 dirige la collana di poesia portosepolto, sempre per conto della casa editrice peQuod.

sito: http://www.lucapizzolitto.it
facebook: https://www.facebook.com/pizzolittoluca

Due parole in questo lavoro mi hanno affascinato dall’inizio : si trovano nell’ esergo di apertura ove si legge una citazione del poeta francese Bonnefoy che dice :

“ E l’estraneo, l’esilio, in te, in me, si faccia origine “

Le parole sono : estraneo – esilio, e le ho tenute presenti lungo tutto lo sviluppo della raccolta; lentamente mi hanno aperto uno squarcio dentro i versi di Pizzolitto aiutandomi, spero, a inquadrare meglio la figura di questo poeta che nella sua scrittura dimostra ottime qualità di approfondimento nell’animo suo e, di conseguenza, anche in quello dei lettori armati di buona volontà.

La raccolta parla d’amore. Vorrei però dissipare i luoghi comuni molto diffusi attorno a questo sentimento, perché nel nostro caso ci troviamo di fronte a una forza interiore talmente grande da far sì che l’autore si senta, e ci faccia sentire tutto il peso la sua condizione di esiliato e di estraneo, come leggiamo a pag 35 :

“ Io cammino solo e/ spento nel tramonto// il mio cuore è un ceppo/ di legna secca bruciato/ fino all’ultimo centimetro/ di amore possibile-// “

Il libro ha un andamento che assume la veste della confessione pubblica attorno a una storia d’amore finita, o che sta per finire, e il tutto viene esposto al lettore con estrema brevità ( al massimo otto versi in qualche raro pezzo, ma se ne trovano parecchi di una o due brevi strofe ) che rimanda a certi film di Resnais degli anni ‘59-’60 (“ Hiroshima mon amour“ e “ L’anno scorso a Marienbad “ ) .

Come in quei film, si è talmente ridotta la comunicazione-dialogo dei personaggi da arrivare al punto di fare estinguere la storia dell’amore tra un uomo e una donna per non causare ulteriori sofferenze tra di loro.

Infatti l’autore scrive a pag. 20 :

“ Parole che staccano a morsi/ lembi di pelle, parole su carne viva “

E’ il tormento, la tortura psicologica – che forse traggono origini dal “ non detto” nel rapporto a due- ciò che fa sentire il poeta come tagliato fuori dal vivere, mandato in esilio non per colpa di qualcuno, bensì per una sorta di dannazione dovuta all’esistere ove

“ nessuno verrà a dirti/ ciò che manca “ (pag. 40 ).

L’esilio è tradizionalmente la condizione perenne di distacco dalla terra ove si ha avuto origine, ma per terra si può anche intendere una persona con la quale c’è stato :

“ il cedere lento all’ebbrezza/ dei naufragati, un dolce restare/ dentro tutte le cose “ ( pag. 26 )

e l’esiliato è colui che analizza il suo vivere ancora di pag. 40 :

“ E’ come bere, bere tenendo le labbra/ stette alla bottiglia, bere e avere sempre più sete //.

Quando il dolore per una perdita è molto acuto l’anima del sopravvissuto cerca in continuazione il modo per non sentirsi estranea all’esistenza e pag.12 riporto per intero un testo che lo esprime con chiarezza :

“ La terra divisa e lasciata/ alla cenere, ciò che avanza/alla notte è deriva lenta del cuore:/ quale libertà, mi dici, quale libertà/ è questo nostro stare, inquieti,/ inchiodati// nello spazio senza rumore di un istante ? //Qui sulla riva lontana del fuoco,/ ti seguo con lo sguardo,/ mi cerco ancora .//

Tutto il lavoro di Pizzolitto appare come una tela di pittura astratta costruita passo dopo passo con brevi colpi materici di spatola, come se egli usasse la lingua come il pittore fa con i colori .

Lentamente egli passa l’osservazione del paesaggio a pag. 16:

“ fluisce la vita, irreparabile,/ tra bottiglie lasciate a metà/ e questo cadere di foglie/ nei giorni di ottobre “

ove però la natura ha qui un posto quasi marginale nel suo narrare, sembra un “ pour parler “ che gli serve semplicemente per imbastire il racconto di sé e del suo dolore, a pag.14

“ …….tutto sfugge e trema/ nella città dimenticata, tutto/ si fa memoria austera del vuoto/…….

ed è sempre lui il nucleo centrale attorno a cui si annoda e snoda tutta la storia, pag35 :

“ io cammino solo e spento nel tramonto// il mio cuore è un ceppo/ di legna secca bruciato/ fino all’ultimo centimetro / di un amore impossibile !!

e l’amarezza gli fa scrivere con echi pavesiani a pag. 40

“ Forse il senso della vita è qui/ nel tempo che scorre e non chiede ragione ; forse è l’abbaiare d’un cane alla notte, il ricordo di una giovinezza/ ormai lontana/….

Poi con fatalità aggiunge a pag. 91 :

“ noi andiamo sempre verso un tempo, una stagione che non sappiamo “

e conclude a pag. 102 con questa strofa :

“ Nell’ istante esatto in cui il tuo cuore/ si spezza e capisci che niente ritorna/ niente può mai durare davvero “.

Rimangono soltanto i ricordi ma causano sofferenza, e stralcio ancora questi due versi di pag. 21 .

“ questo silenzio tra i nostri corpi/ il fragile inganno delle mani “

Al poeta non resta che la sconfitta e a comprova di quanto scrivo, trascrivo questa di pag. 93 per intero :

“cammino solitario mentre/ nell’ azzurro del cielo cade/ la sera e si fa notte//
Questa collina è sabbia/ che il vento solleva e disperde// giorni fatti di addii,/ cappotti scuciti e foglie/ fiorite su nuove,/ disabitate lontananze “.

Alla fine della storia l’uomo-poeta avverte tutto il peso della impossibilità a condividere con qualcuno il suo dolore se non con chi lo ha generato sia esso la madre terrena o il Dio in cui egli dimostra di credere, e, come succede spesso agli uomini, alza lo sguardo al Cielo sperando di trovarvi qualche conforto, ma…

“ Nell’ ostinato silenzio di Dio / nel suo sguardo breve/ di madre/ e trova riposo/ ogni mia lontananza//

E’ duro amare dentro una storia finita, scardina ogni sicurezza il ricordo del passato, così ben detto a pag. 65 :

“ Di questa estate ci resta addosso/ la nuda felicità delle gerbere in fiore/ l’andare del vento sui nostri passi,/ le Ave Maria in latino nel chiostro/ di san Miniato// Due rondini volano sui cieli infranti/ dei nostri inutili ritorni./ Firenze è il ricordo di una città che/muore nel sole di agosto //

Ma quel Dio che precedente l’autore aveva definito “ silenzioso “ prepara dentro l’ animo di Pizzolitto la Sua resurrezione, e riporto per intero questi versi della poesia “ Venerdi’ Santo “ ( pag. 51)

E’ un sole che splende/ sulla polvere di strade/bruciate; forte ed eterno è l’amore.// Guardi il vuoto, silenziosa presenza:/ niente cede, niente muore davvero //

Il cammino dell’esilio è stato lungo e dolorosi, i ricordi portano un poco di gioia dentro il cuore, ma il poeta sa dove cercare rifugio e conforto, e volge lo sguardo verso qualcuno che ha sempre sentito presente nella sua vita, concludendo la raccolta con questa poesia a pag. 103 che dà il titolo all’intero lavoro :

Crocevia del cammini

Nello spazio sacro della sera,/
nel volgere a compimento/
di tutte le cose/
scenda ancora su di noi la grazia,/
una dolce benedizione//

a Te giunga il canto/
di questo inquieto esistere,/
a Te giunga il grido/
che non trova pace, ragione//

Anch’io da lettore appassionato, da uomo spesso addolorato per le più diverse ragioni, da persona che si muove lentamente per le vie del mondo e spesso si smarrisce per la strada, non posso che riconosce nei suoi versi una forza espressiva non indifferente, e la mia speranza per lui è che possa trovare la pace e la ragione ove egli pensa di averla riposta.

17-18 febbraio 2020
luigi paraboschi

POESIE TRATTE DA “CROCEVIA DEI CAMMINI” (peQuod, collana Rive, 2022)

                            

Nell’avanzo di parole
su cieli colmi di rabbia,
qui dove piove piano
e rinfresca la sera

cedi al vuoto, al niente,
il dono austero delle labbra.

Nell’ostinato silenzio di Dio,
nel tuo sguardo breve
di madre trova riposo
ogni mia lontananza.

Dalle tue cicatrici

Il nostro è un paese
di pietre e rovine,
qualcosa che somiglia
al distacco lento dei corpi
dopo l’amore,
lo stelo avulso,
spezzato del tempo.

Dalle tue cicatrici
ciò che nasce – ora,
ciò che nasce è solo
inerme, smisurata
bellezza.

Luce lasciata e tersa
dei primi giorni di dicembre,
misericordia del vento sul
tuo viso gentile, tagliato dal freddo.

È l’eco ostinata del vuoto,
è un peso greve sul cuore;
neve che accende e poi placa
l’inciampo della sera.

Andare in pezzi, fiorire un mattino.

Un dolce restare

Tra me e voi giace un’assenza,
una sussurrata lontananza.

L’aria intorno è ferma, pesante.
Nel cielo caldo, nell’afa di agosto.

Il cedere lento all’ebbrezza
dei naufragati, un dolce restare
dentro tutte le cose.

                       

                   

Hai detto

Ritrovarsi a terra, salvi,
qui dove i vetri soffrono
e le tue ciglia tremano appena.

Mi hai preso per mano,
hai detto Vieni, è quasi mattina.

                    

                   

Venerdì Santo

È un sole che splende
sulla polvere di strade
bruciate; forte ed eterno
è l’amore.

Guardi il vuoto,
silenziosa presenza:
niente cede,
niente muore davvero.

Luca Pizzolitto nasce a Torino il 12 febbraio 1980, città dove attualmente vive e lavora come educatore professionale.

Da quasi vent’anni si interessa ed occupa di poesia.

Nel 2008 vince il Premio Arezzo Poesia; nel 2014 si classifica primo al Concorso Letterario Internazionale Città di Moncalieri (“Una disperata tenerezza”, Ladolfi)i.
Nel 2019 vince il Premio Internazionale Città di Latina (“Il tempo fertile della solitudine”, Campanotto).
Nel 2021 è finalista al Premio di Poesia Onesta e Premio Prato Poesia (“La ragione della polvere”, peQuod)

I suoi ultimi libri pubblicati sono: L’allontanarsi delle cose (Ladolfi), Il silenzio necessario (Transeuropa), Dove non sono mai stato (Campanotto), Il tempo fertile della solitudine (Campanotto), Tornando a casa (Puntoacapo).
Con la casa editrice peQuod ha pubblicato, nella collana Rive: La ragione della polvere (2020) e Crocevia dei cammini (2022).

Da fine 2021 dirige la collana di poesia portosepolto, sempre per conto della casa editrice peQuod.

sito: http://www.lucapizzolitto.it
facebook: https://www.facebook.com/pizzolittoluca

Luigi Paraboschi

1 ottobre 2021

Non c’è bisogno di presentazione per questa raccolta di Luigi Paraboschi, questi versi sono summa di vita, condivisione di un pensiero che tende all’ineffabile partendo dall’intima esperienza umana.
Leggerli fa bene all’anima.

                                        

                                          

“…eppure non ha senso/ rimpiangere il passato, provare nostalgia per quello che/ crediamo di essere stati./ Ogni sette anni si rinnovano le cellule :/adesso siamo chi non eravamo./ Anche vivendo lo dimentichiamo/ restiamo in carica per poco/“

“Historiae “di Antonella Anedda
                 

                                       

                  hic et nunc
…starsene fermi/ su questo mondo che ci ruota attorno/perennemente in viaggio verso est/ e dirsi in versi/ forse nel tentativo di sottrarsi/ non solamente al male/ ma anche alla terribile bellezza/ che annichilisce e ammalia /

  “la simmetria del vuoto”  Cristina Bove

                          

                              

                Lettere dal confino
“ non credo in niente/ ma accendo una candela/ e per poterti ritrovare qui/
dico perfino una preghiera “.

  “ una piccolissima morte “ Francesca Del Moro

      

                                                


_____________________                                                                      

         ____________________________________________________________________________

Ai margini dei fossi

Ai margini dei fossi stanno
dignitosi fiori dai nomi sconosciuti
ignorati da chi passa e va di fretta,
nella povertà del paesaggio
polveroso spuntano striminziti
tra gli sterpi, si nascondono alla vista
hanno petali lavanda o lacca di garanza
profumi che solo qualche laborioso
insetto può rintracciare a fiuto
se però ti serve un mazzo per decorare
non ti rivolgi a loro, cogli nel tuo giardino ,
più spesso il tuo sguardo vola a quello del vicino.
                          
                    

Si formerà una pozza

Ho voglia di mettere giù due o tre righe
sopra un foglio di carta da droghiere,
intingo la penna nei colori ad acqua
e quando a novembre pioverà
le mie parole si scioglieranno
allora si formerà un pozza scura
sopra il tavolo dove siedi per la cena.

Non sto scrivendo dai confini del mondo,
da più lontano, dal luogo ove le nuvole
si riposano quando sono stanche,
è sempre settembre fatto con mezze
luci che s’allungano dolci sopra le foglie
e fanno diventare rosse
di calda vita anche le tende

                  
                     

Tutto il respiro

E’ dunque vero ciò che scrisse il bardo
che vi sono più cose tra cielo e terra
di quanta ne contempli la nostra filosofia ?
Oppure siamo certi di sapere il luogo
dove nasce la malinconia o da che cosa
sboccia la fonte del desiderio?

Se è la carne a farci dire la tristezza
come spiegare allora la corsa ad inseguire
l’appagamento, il tentativo di riempire
un vuoto che appare come nostalgia?

Mongolfiere senza lo spirito condannate
a ripiegare sopra terre desolate,
alianti che senza le correnti devono
planare sperando di non schiantarsi
siamo,
eppure questa attesa di conoscenza
non si tace, il vuoto dentro il quale
ci agitiamo è un porto nascosto
dove sperare incontri di fortuna.

                         

                     

A chi racconteremo i silenzi ?

Sapessimo prevedere quando
finiranno le tempeste
potremmo metterci al riparo
dentro un portone o sotto gli archi,
ma ciò non ci è concesso, ogni risveglio
riporta vecchie ruggini e s’accresce
il cigolio sopra i cardini del tempo.

Andarsene sarà capire il metro
di quel verso troppo lungo
che si voleva spezzare perché
non s’adattava e nel respiro s’assopirà
la nostra voglia di trasmigrare.

A chi racconteremo i silenzi
di quando il giorno è peso
senza ragione, la fatica
per rimanere in piedi _ vigili
ma disattenti_ se non a un foglio
bianco con sopra tracce di parole?

                           

                                 

Il sonno della ragione genera pace

Alle sette di mattina in piena estate quando
il sole è pura luce senza calore pare d’essere
calati in un Bonnard, e camminare nella città
dei morti è come viaggiare sopra un treno
quando s’osserva il panorama dal finestrino.

Sosto di fronte alla bellezza d’una crocchia
ben acconciata, dentro la foto un viso di tre quarti
mi guarda tenero e un poco triste, quasi
complice di qualcosa che solamente noi sappiamo.

In questo panorama mattutino risuona
come il tintinnio di due bicchieri il battere
di una cazzuola contro il mattone
per una nuova sede da cui col tempo
affiorerà l’ umidità che sfoglierà l’intonaco.

Si spezza il marmo, l’involucro perde la resistenza
al tempo e l’erba grassa cresce e si propaga,
tutto riposa in serenità sopra le passioni
stinte nel buio, su gli amori giurati eterni,

si spengono le ambizioni e l’inseguimento che ci allarmavano
l’orecchio come succede ai gatti per i suoni sconosciuti,
tutto diventa luce nel mattino, calati dentro un Bonnard.

                         

                                   

E’ un ‘assenza senza la giustificazione

Ti serve solamente un tronco scorticato
in fondo ad un campo un po’ in discesa
per appoggiarvi il peso delle spalle,
e una finestra da cui scrutare chi risale
il declivio del tuo orto non diserbato,
attendere poi che il ghiaccio nella gronda
diventi acqua nella secchia per interrare
qualche seme e dare un nome nuovo al fiore.

E’ la gratuità a fare meno arido
un incontro tra due cespugli rotolanti
nel vento. Ora che le notti lunghe
dell’inverno hanno smagrito i passeri
restano a loro le piume per il corpo scarno
a noi le parole per cercare un senso
a frammenti di vocali smarrite
e rimanere senza risposte o spiegazioni
è un’assenza senza la giustificazione
sipario che cala all’improvviso
sopra la ricerca di un significato.

                         

 

Arrivederci

E’ stata rapida la tua partenza, un soffio come il vento
che con un colpo d’ala passa sopra i fiori e li disfoglia,
sei andata senza un saluto, forse neppure la coscienza
che ti stavi avvicinando a quella casa ove da sempre eri attesa
_amica cara di tanta vita _ Neppure un gesto della mano
una strizzata d’occhi, forse nemmeno un’invocazione,
ma uno scorrere lento da qui a là, lo sprofondare
dentro il buio che diventa luce in un istante.
Abbandonarsi dal letto dell’ospizio a quello della corsia
senza sapere chi-dove-e-quando, solo il perché
non ti è mai stato ignoto (diceva Carla che non si era
venuti al mondo per compiere una passeggiata ) ma anche tu
ben sapevi che era una scalata spesso senza ramponi.

 

                     

Ciò che resta

Tace la finestra, non oscilla più la tenda,
le stanze non risuonano del parlottio quotidiano,
è vuoto questo mattino, non odo il saluto che dà
lo spazio alla consueta malinconia che improvvisa
o lenta prima o poi scenderà a cancellare visi parole
e gesti, e quell’ultimo respirò s’aprirà sopra un vuoto
nero dove non saprò più scrivere di me e di noi sospesi.

Resta solamente il vuoto di ciò che i sogni lasciano
il fiore amaro delle parole che non abbiamo saputo
pronunciare, lo sguardo stanco di chi ha visto
ciò che è rimasto indietro, la mano persa, la presunzione
d’essere stati di importanza, e un canto aprirà la strada
con il suono profondo di una gola stanca e le vocali nitide
modulate da una fede consapevole per la libertà ottenuta,

allora il giudizio sarà folgorante, un lampo per rimediare
o perdere e scopriremo infine che non era l’ombra ciò
che temevamo ma le voci, i ricordi, gli amori, macigni
sopra i nostri poveri stanchi cuori in attesa di perdono

                        
                                      

                     

[…] Ho amato questi testi di Luigi Paraboschi, come appunti di vita trasposti in poesia, dove il vissuto è reso con un vigore audace, talvolta visionario, ma sempre ancorato alla necessità d’essere veritieri, anche nel registrare le emozioni, senza nulla tralasciare di gioie, dolori, speranze, timori che appartengono all’età che avanza e sempre più avvicina a quel momento la cui certezza per molti è fonte di sconcerto.
Non per il poeta che ha scritto questi versi, che in una sua visione quasi voltairiana, navigando sui mari ondosi della poesia, assegna a dimensioni ultraterrene segreti da svelare: il porto esiste, per raggiungerlo bisogna fronteggiare le tempeste.
C’e un significato implicito nel vivere, vuole comunicarci l’autore, e ci riesce perché lascia che il sogno abbia respiro e renda manifesta l’anima anche nelle piccole cose quotidiane.
Scrive dell’essere umani e transeunti senza facili abbagli, con lo sguardo limpido di chi sa che ci sono “più cose sotto il cielo…”.
Un linguaggio che sfida dispersioni:

“Non sto scrivendo dai confini del mondo,
da più lontano, dal luogo ove le nuvole
si riposano quando sono stanche,
è sempre settembre fatto con mezze
luci che s’allungano dolci sopra le foglie
e fanno diventare rosse
di calda vita anche le tende.”  […]

dalla postfazione di Cristina Bove

Patrizia Sardisco

2 giugno 2021

LO SPETTRO DEL VISIBILE

di Patrizia Sardisco

edizioni Cofine – Roma

recensione di Luigi Paraboschi

Quando ci si accinge a trattare qualunque argomento usualmente si afferma che “bisogna pur trovare uno spunto per iniziare“ e io ho scelto i versi che seguono per trovare la chiave interpretativa che mi fosse utile.

“Ma dico/ quale lingua?/ Non ha una lingua /a strappo// la chiusa scatoletta/ rossa e polposa in succo/ ci vuole un apriscatole/ un affilato arnese/ di parole/ per arrivare al cuore//.

Ho riflettuto più volte su ogni verso di tutto questo lavoro e mi sono convinto che l’apriscatole del quale l’autrice avverte il bisogno sia la parola intesa nel  senso più ampio, quasi la stessa che San Giovanni apostolo pone all’inizio del suo Vangelo ove scrive “all’inizio fu il Verbo“.

Qui assistiamo veramente al trionfo dell’uso della parola;  pochi autori sono in grado di costringere il lettore come fa Sardisco a indugiare sul significato dei numerosi aggettivi, verbi e sostantivi raramente diffusi nel linguaggio usuale, al punto da farci tornare indietro nella lettura, ricercare ogni significato non chiaro e d’improvviso vedere aprirsi la luce sul senso pieno di quanto stiamo leggendo.

Il primo verbo che mi ha attratto è stato “campire“  perché inusuale in poesia e  lo si riscontra più frequente in pittura.

L’ho trovato nella prima poesia d’apertura ove si legge:

“dal sogno della voce migrarono/ particole di luce/ a campire la vacuità del bianco/ lo spazio fantasmatico/ di una impossibile nominazione“

Dice lo Zingarelli che con “campire” si intende:dipingere un quadro a fondo/ stendere il colore in maniera uniforme, e – pur conoscendo il significato di quel verbo – mi è parso si aprisse uno scorcio dentro i versi e ho pensato che se avessi fatto riferimento alla pittura forse avrei trovato qualche illuminazione che mi fornisse una interpretazione abbastanza vicina alle intenzioni della poetessa.

Ma a quale genere di pittura avrei potuto avvicinarmi trovandomi di fronte ad una raccolta di grande difficoltà di disvelamento come questa?

Non potevo leggerla utilizzando gli stessi schemi critici che avrei potuto usare di fronte a un testo poetico dell’800 letterario e neppure della prima metà del ‘900; dovevo per forza trovare quell’apriscatole di cui fa cenno l’autrice, e a quel punto mi è parso che se dovevo “campire“ la tela di Sardisco avrei dovuto usare un rimando pittorico ad una tecnica più moderna che mi aiutasse durante la lettura.

Ho pensato al pittore americano Jackson Pollock, che ha inventato la forma  più nuova del suo tempo, il “dripping“.

Partendo da una tela vergine, stesa sul pavimento, egli, utilizzando qualsiasi strumento – che solo rare volte era rappresentato dal tradizionale pennello, sostituito spesso con  lunghi e sottili pezzi di legno  o anche stendendo il colore sulla tela direttamente dal tubetto, oppure sgocciolando le tinte  dal barattolo,- stendeva sul lino bianco una rete sovrapposta di vari passaggi di tinte che alla fine forniscono all’osservatore un reticolato dentro il quale chi guarda riesce a sperimentare dentro di sé una emozione che gli permette di assimilare interiormente il quadro.

La tela di Sardisco è rappresentata dal semplice foglio bianco  dal quale essa parte per tentare una coraggiosa analisi interiore che la conduce all’interno di quell’ IO che nella letteratura moderna è partito da Joice con l’ Ulisse che ha sconvolto tutti i canoni narrativi e poetici del 900.

Con questa predisposizione all’analisi interiore, il visibile appare come qualcosa di interiorizzato in modo così profondo da essere chiamato “spettro“ (per definizione invisibile), che però la poesia tenta in molti modi di rendere “visibile“, perché, scrive l’autrice:

… l’uomo dentro il guinzaglio/ trova dentro un bisogno/ l’evasione“

e tale bisogno nasce da una forte necessità espressiva:

“… dove la sete occupa uno spazio/ proliferano i rami / per simmetria alla opposizioni radicali…/”

La sete come bisogno di conoscenza fa crescere i rami che dovrebbero dare slancio e aperture per bilanciare le opposizioni alle radici interiori, e in altra successiva leggiamo :

“nessuno scrive un rigo se ha altro da mangiare …“

Da queste poche parole stralciate da differenti poesie ci possiamo rendere  conto che il colore base, quello sul quale l’autrice costituisce la campitura è steso, e lo potremmo definire come la

 “necessità di esprimersi dovuta alla condizione umana di essere trattenuti da un guinzaglio che impedisce all’anima di alimentarsi“.

Questa prima stesura di  colore è fondamentale, è la base che sarà il fondo del quadro/poesia che si costruirà verso dopo verso, parola dopo parola attorno a quell’ IO accennato poc’anzi, un IO che: 

… si disponeva al centro dei corpuscoli/ mediava tra voce e sottrazioni/ sfibrato da un principio di realtà/ aveva scelto di non sporcare i panni/ per non doverli poi lavare //

E’ un ego  dibattuto, che vorrebbe gridare ma che è soffocato dalle paure di sporcare i panni e teme di doverli lavare, dato che non può farlo perché troppi sono i condizionamenti, è anche grande la sfiducia in se stessa:

”ogni denominazione dell’intorno/ è l’audacia/ di non gettare troppo in basso l’occhio“

Ci si rende conto durante la lettura che l’IO si dibatte  sommerso da una marea di pressioni esterne ad esso ed anche interiori, vorrebbe emergere ma non può farlo con libertà, e questa impotenza a essere compreso genera frustrazione nella poetessa, come scrive anche A.M. Curci nella sua prefazione “… ricorre il divario lacerante tra l’urlo di invocazione…  e l’impossibilità di emettere la voce “e prosegue più avanti sempre la Curci… ”sottrarre vigore alla barriera che rende l’urlo strozzato, sporgersi a invocare”  e crea una poesia che in certi punti assume il sembiante di esame scientifico e quindi  per nulla sentimentale, sul quale prevale spesso un angosciante domandarsi e dibattersi tra la volontà e il potere, come leggiamo:

”gli asindoti hanno un fascino inconcludente/ tensioni d’arco e fughe all’infinito/ da un desiderio amodale di tangenza/ gli orridi ci attraggono negli scoscendimenti della gola“

e aggiunge in un’altra

“ll residuo non cessa/ di emettere segnali// amputare la mano dopo il tiro/ continuare a saperne/la posizione di sensazioni tattili// del dolore sottratto/ resta la sottrazione, l’assenza di visione/ la bruciatura plastica sull’orlo/ l’urlo fantasma che sutura il foro//.

Si esce dalla lettura di questa raccolta con la stessa sensazione di stordimento che ci lascia la visione di un quadro astratto il cui significato completo ci sfugge per l’impossibilità di penetrare fino in fondo l’anima dell’autore.

A questo punto mi sembra possibile  inserire un altro accostamento pittorico che ci possa aiutare a comprendere meglio la poesia di Sardisco, e mi soffermo sul quadro famosissimo di Magritte dal titolo “cecì n’est pas une pipe”, titolo nel quale il pittore sembra aver compiuto un errore grammaticale dicendo “cecì“ al posto di “celle-ci“ al femminile, pensando alla pipa, ma la sua intenzione è quella di depistare l’osservatore obbligando a comprendere che quel “ceci“ è usato al maschile in quanto egli sta parlando del quadro e non della pipa.

E anche Sardisco scrive:

“… la mente è epifenomeno di luce/ in metamorfosi// eppure apprende presto a ruminare il buio/ nell’onda urente degli inchiostri/ inchiodata a se stessa ma chirale“

Ove “chirale” è da intendersi come qualcosa non sovrapponibile alla propria immagine speculare, compiendo in tal modo lo stesso percorso di Magritte.

Usualmente chi scrive parla anche involontariamente di sé e anche la nostra autrice lo fa con pudore e cela la sua incertezza/timore/paura  dietro il velo di parole acute e sapienti  che costituiscono la bellezza della sua scrittura.

Non si tratta di un lavoro di facile lettura, occorrono pazienza, attenzione e diversi passaggi tra i versi ma proprio per queste difficoltà che si incontrano ci si sente pieni di ammirazione per gli sforzi di chi ha fatto del suo meglio  per metterci sotto gli occhi tutta la sofferenza ed il conflitto del vivere mai completamente espressi  perché :

“…le grammatiche/ giocano entro limiti finiti/ segmentano lo spettro del visibile/ in unità di campo tendenzialmente rigide //

 

 

Luigi Paraboschi

3 maggio 2021

dalla sezione Lo spettro del visibile

*
fare della reticenza fiato
dell’astensione morso segno
usurare
la lingua torcerla al verso
darsi la direzione tra i picchi delle onde
decidere tagliare
la frequenza coattiva la catena
scantonare forse
forse cantare

dalla sezione Aprèslude
*
Chiedi a una rosa
se è colta pronunciata
o se è recisa.

*
Sia detto che la rosa
non sbavava
per travasarsi in rosso
in un decanter

rubra dentro al suo cono
emergente incidente
era e danzava iperurania e sparsa
chiusa ma in sé esclamata

né sbocci né sboccature
non traboccava
restava, non rosa
rosa.

Patrizia Sardisco è nata a Monreale dove tuttora vive. Laureata in Psicologia, specializzata in Didattica Speciale, lavora in un liceo di Palermo. Scrive in lingua italiana e in dialetto siciliano (parlata monrealese). Vincitrice e finalista in diversi concorsi a carattere nazionale, nel 2016 pubblica, per i tipi di Plumelia, la silloge in dialetto “Crivu”, vincitrice del Premio Internazionale Città di Marineo e menzionata al Premio Di Liegro di Roma. Nel 2018 si aggiudica il Premio Montano nella sezione “Una prosa breve”; con la silloge inedita in dialetto “ferri vruricati” guadagna il secondo posto del XV Premio Ischitella – Giannone e, nello stesso anno, per le Edizioni Cofine, dà alle stampe la sua prima pubblicazione in lingua italiana, “eu-nuca”, prefazione a cura di Anna Maria Curci, finalista al Premio Bologna in lettere 2019 e vincitrice della sezione opere edite del Premio Città di Chiaramonte Gulfi 2019. Ancora nel 2018, la raccolta “Autism Spectrum” vince la quarta edizione del Premio Arcipelago Itaca, indetto dalla Casa editrice omonima che, con postfazione a firma di Anna Maria Curci, ne cura la pubblicazione nell’aprile del 2019. Autism Spectrum è tra le Opere edite segnalate al Premio Bologna in lettere 2020. Del 2021 è la raccolta “Lo spettro del visibile”, Edizioni Cofine, prefazione di Anna Maria Curci.

Anna Maria Curci

20 gennaio 2021

   Luigi Paraboschi recensisce OPERA INCERTA di Anna Maria Curci
ed. l’Arcolaio 2020

La grande poesia (e questa della Curci lo è) possiede la capacità di saper leggere la storia attraverso gli elementi temporali nella quale viene scritta.
Può talvolta accadere che le parole nelle quali ci si imbatte sembrino poco connesse alla logica espressiva che è propria di ciascuno di noi, così il genere di poetica della Curci manifesta tutta la sua ricchezza e profondità solamente dopo una seconda o terza lettura.
Se si legge “Opera Incerta” non tenendo presente lo spessore culturale dell’autrice, se non si presta sufficiente attenzione alla sua capacità di essere ironica con se stessa e di conseguenza anche con chi legge, non si arriva ad afferrare il significato di questi versi di “Atlantina“, dove l’autrice sembra parlare a se stessa, ma nel finale indica con chiarezza quali errori si è indotti a giudicare quando si opera “senza gli occhiali“ necessari per esaminare in profondità ogni cosa.

“ innaffia i tuoi sensi di colpa/ piega la schiena / fustiga le reni// non basta ancora dici/ e gonfi il petto/ però con quello non trascini pesi // pensavi di aver fatto un buon affare/ allo spaccio dei miti senza occhiali/ scambiasti per la bella corridora un ricurvo complesso// 

e la stessa annotazione attorno all’uso discreto dell’ ironia vale anche con questi che chiudono la poesia Controcanti:

“come Parzival al primo tentativo/ ancora pecchi di acuta discrezione./ Il passo indietro nella lista di attesa : altre sportule reclamano attenzione“.

Leggendo la raccolta mi è parso che la tecnica di scrittura sia spesso costruita “per esclusione” cercando di costringere il lettore a fermarsi e a domandarsi le ragioni e i perché Curci lungo il suo cammino poetico ( già iniziato nel libro precedente a questo “Nei giorni perversi “) stia scegliendo di non farsi coinvolgere nel vizio che spesso si riscontra in poesia, quello di dire troppo, e decide di diventare sempre più rarefatta nel manifestarsi.

E’ lo stesso discorso che si può fare parlando di pittura, quando di osservano i lavori di due artisti, Pollock e Rothko, che hanno operato contemporaneamente in America attorno agli anni 40, 50 del scorso secolo. Se Pollock ha manifestato la sua genialità adottando la tecnica dello “sgocciolamento“ del colore sulla tela, sovrapponendolo ed incrociando  fino ad ottenere il risultato voluto, Rothko ha invece operato “per sottrazione“, cioè togliendo quanto più fosse possibile al colore, eliminando ogni elemento figurativo e disponendo man mano sulla tela numerosi strati dello stesso colore in tonalità sempre leggermente differenti per giungere alla fine al risultato di presentarci un quadro composto esclusivamente di quadrati o rettangoli con due o tre colori differenti da quali si evince il lavoro sottostante all’ultimo.

Lo stesso lavoro fa Curci e cercherò con qualche esempio di chiarire meglio servendomi dei versi di questa poesia a pag. 22 intitolata “Avvento“ che trascrivo verticalmente affinché non si perda la sua essenzialità:

Fosse sempre serena come oggi
questa proroga
attesa protratta
gioie minute

in scatole modeste

Dentro soltanto cinque righe l’autrice ha saputo condensare l’attesa che è contenuta nella parola “proroga“ e ha detto di sé e del proprio gioire per l’attesa di un avvenimento che sta per arrivare dopo l’Avvento, usando quel ” in scatole modeste “ che possono racchiudere tante cose, avvenimenti, umori e amori, insomma tutto ciò che fa parte del fatto di possedere un corpo e di conseguenza essere contenitori di emozioni.

Anche con la poesia e non solo con la pittura può succedere che ciò che leggiamo o vediamo ci costringa a leggere e rileggere, come pure osservare e riosservare un quadro, lasciando poi dentro di noi un senso di incapacità a comprendere fino in fondo il pittore o lo scrittore come a me è successo con i versi della poesia a pag. 24 “Stendo al sole“

“Stendo al sole fasce per polsi / con cura, dopo averle lavate. / Tendo la tela rossa/ e i miei pensieri”//

e mi sono sentito smarrito e confuso, incapace di afferrare sino in fondo quanto di astrazione e di concretezza vi sia in quelle “ fasce per polsi “ e in quella “ tenda rossa “.

Scrive Francesca del Moro nella sua acuta e profondissima postfazione che di fronte al lavoro della Curci non si può essere “lettori passivi“ e non posso che concordare con lei. La sua poetica non si può liquidare con un semplice “like“ o un “cuoricino rosso”, occorre entrare nella selva di riferimenti culturali ai quali l’autrice si aggancia, con speciale riguardo ai poeti o autori in prosa da lei incontrati nel lavoro di traduttrice.

Un altro elemento del quale occorre tenere conto è il continuo mettersi in discussione, il dubitare di sé, il timore di non essere all’altezza delle aspettative, come scrive nella VI parte della poesia “Controcanti“:

“Come Parzival al primo tentativo/ ancora pecchi di acuta discrezione/. Il passo indietro nella lista d’attesa:/ altre sportule reclamano l’attenzione “

Curci è colei che sempre si rimette in gioco ; ecco nella stessa poesia alla III strofa:

“… In permanenza oscillo/ tra il balzo all’utopia/ e l’orrore tranquillo“

L’adesione che è quasi immedesimazione a quanto lei traduce, la condivisione ai personaggi o ai testi, che riscontriamo bene nel verso di questa a pag. 37 esprimono l’immediatezza del suo giudizio attorno alla versatilità della Storia:

“Dal pascolo al patibolo è un salto/ dietro le tende cifra la menzogna/ e batte i denti“

e la chiusa è una domanda che essa rivolge sia a sé che a noi che leggiamo e che si può banalizzare chiedendoci se ci si può salvare dal narrare il falso interpretando la storia o semplicemente raccontarla, oppure si finisce sempre col ricorrere ad un linguaggio servile.

Questi sono i versi “c’è via di scampo dal fumo perenne/ o resta il bivio di falso autorizzato/ e prosa da scudieri ?//”

La fierezza della cultura, lo sdegno di fronte ai falsi della letteratura e della critica letteraria si toccano in questa poesia di pag. 38, dedicata a Cristina Campo dentro i quali vibra con forza un giudizio sferzante nel confronti dei molti che–anche in poesia- distribuiscono banalità:

“imperdonabile inattuale resti/ neghi a chi archivio ti vuole dolente/ e lorde liquida cambiali unte,/gabelle d’aria fritta, campionario// di impenitenti solite sconcezze:/ nichilista, utopista, apripista,/ autodafé alimenta per i gonzi/ ghiotti solo d’altrui gozzoviglie/”

Così anche la poesia di pag. 39 ci pone di fronte al sentire di una persona abituata a leggere, a dare un giudizio su ciò che legge e a dubitare sempre dello stesso (le omissioni), a riflettere di conseguenza sulla nostra collettiva incapacità di agire:

“più degli omissis temo le omissioni/ le sommosse mancate contro l’inanità”

Le certezze, i dubbi, la fragilità che ci riguardano sono tutte messe sulla carta dall’autrice, esposte con poca misericordia e commiserazione; Curci è severa con il suo dire, specie durante l’insonnia, come leggiamo a pag. 44 nella prima strofa:

Quando il coltello si aggira tra il consueto/ è troppo tardi per scapole ciarliere: Parole penzoloni, la baldanza/ è farina, cade a pioggia //”

e l’affiorare della paura, sentimento che talvolta attraversa tutti, la lascia sgomenta e sofferente “Potessi ripiegare i giorni addietro, / al mio passato si affiancherebbe morte con il volto scoperto, compagno di picozza e di sentiero. Con altro riso m’incamminerei //”

perché il vivere non è mai una passeggiata e neppure chi ha lo sguardo “rivolto al cielo” si può sentire tranquillo se non aggrappandosi a valori perenni come la cultura, la lettura o la musica, e tutto ciò è elencato nella poesia di pag. 51 dal titolo “Kit di sopravvivenza“, ove troviamo:

“dosi massicce di sopportazione/ sordina a false rivendicazioni/ sguardo rivolto al cielo o a un filo d’erba/ un libro spalancato o uno spartito”

Forse la parte meno criptica di “Opera Incerta“ è quella nella quale appare l’aspetto socio-politico della scrittrice, quando visitando il cimitero acattolico a Roma di fronte alla tomba di Gramsci, si sente toccata dalla presenza-assenza di questo grande pensatore che la induce a scrivere a pag. 62 versi dentro i quali si legge tutta l’amarezza per aver forse scordato o tralasciato il suo pensiero:

“E qui mi fermo sempre/ penso ai tuoi scritti/ al tempo ad altre soste// Anni addietro lasciammo i nostri segni/ scansate foglie/ sospese le parole//”

Anche la guerra rivista nel ricordo della madre, allora ragazza, ”l’ 8 settembre 43 “- che si mise in fuga tra i monti per cercare rifugio, e pure il ricordo dolente di quella bambina assassinata dalle SS a S. Anna di Stazzema nell’ Agosto del 44, e la visita, calvario doloroso, al campo di concentramento di Birkenau di cui sente di dover scrivere:

“Non sediamo sui fiumi a Babilonia,/ ma il nostro pianto è in piedi e scuote il vento“

Non meno importante è l’attenzione al problema delle migrazioni, affrontato nella poesia “Angelos“ di pag. 76 in cui la poetessa immagina di dialogare con un angelo che sotto vesti umane la soccorse assieme al fratello quando un giorno furono sul punto di annegare, ed è la stessa figura che nell’immaginario dialogo afferma:

“Sono migliaia adesso e non per gioco / Tuffarsi per salvare più non basta/: Lo schiaffo arriva:“perché ha detto “mostro“? non più il rassicurante “mare nostro“?/ Parlo per lei per noi che sconteremo/ mani a premere teste giù nell’ acqua/ il lezzo criminale dei proclami/ e la complicità che allaga il male nostro“.

Il libro si chiude con un omaggio affettivo e sentimentale, una poesia che definirei dolce e accattivante, ricca di tenerezza e di devozione, prova tangibile della profondità dell’ affetto figlia/madre, che tocca il cuore del lettore senza abbandonarsi a sentimentalismi banali, che sa commuovere specie in quel “facevi volare nel mattino“ di pag. 88

“non so se sono ancora la bambina/ che facevi volare nel mattino/ nitido e freddo nel sole di dicembre// La casa, poi il mio asilo nido e la tua scuola/ dove trafelata ti mutavi,/ lingua-madre diventava il francese// So che di tanto azzurro mi rimane/ un fiocco, il cielo in testa e ’occhio desto,/ pegno d’incanto, balzo, testimone”.

E quel fiocco dentro il cielo è un tocco pittorico non alla Rothko ma, questa volta, alla maniera luminosa di Claude Monet.

Luigi  Paraboschi

8 gennaio 2021

 

Barcaiola

Siedi sull’altra riva e getti l’amo.
Io traghetto.

Nella scalmiera remo
bisbiglia con cadenza.

Lei, la tua mobile sostanza, smesse
le vesti torbide, mi accoglie.

Quando riprende il volo la speranza,
cocciutamente sai che non è fuga.
ascolta, su, porgi l’orecchio

ascolta, su, porgi l’orecchio
dirama la conversazione
traduci e chiedi, leggi e annota,
discerni e associa sotto il cielo

Dell’Angelo

Restano mute le parole di prima,
la luce stempera il bruno della crosta.

Tace il rancore, e l’ala ripiegata
aspetta l’altra, insieme voleranno.

L’occhio che anticipa e la mano protesa
accolgono il sorriso, dopo tanto.

Controcanti
I
“Bau bau baby” mi viene da cantare,
un ringhio contro il dì, paradossale,
moderata cantabile eversione
(nuovo marcio che avanza è minestrone).

II
E puoi anche negarti,
nel regno delle madri
(non sfugge, la bellezza,
dimora, sosta, danza).

III
Parto indotto o realtà,
questo è solo un dettaglio.
In permanenza oscillo
tra il balzo all’utopia
e l’orrore tranquillo.

IV
E quella goccia non si perde e viaggia
e si trasforma: ogni replica è prima,
indica vie di fuga tra le quinte
o svela il ben celato sul proscenio.

V

Leggo la musica della pazienza,
talvolta inciampo sulle biscrome
e all’improvviso, ecco: cadenza.

VI

Come Parzival al primo tentativo,
ancora pecchi di acuta discrezione.
Il passo indietro nella lista d’attesa:
altre sportule reclamano attenzione.

Sale

Stanza tutta per me è un’espressione
che aggrinza le mie labbra ad un sorriso.
Di rimpianto, tu dici, tu che sai
che l’esclusiva sempre fu preclusa.

Invece l’ho trovata, l’ho inventata
in fogge disadorne eppure piene.
Due reti e un cassettone a soggiornare
con Il trono di legno e La ricerca.

Accolse una poltrona grande e lisa
gli esercizi sgraziati alla chitarra.
Ora è un ramo proteso di ligustro
a guidare lo sguardo, ogni risveglio.

Nelle sale remote puoi entrare
a patto di scostare le cortine
di sfondare i tramezzi in truciolato
di sopportare il peso d’esser sale.

Iris indaco

Tenue e tenace sogno solitario
iris indaco aroma della cerca
ombroso nella prole variopinta
bivio tra sensi desti e l’oltremare.

Ti invoco ancora e già torna la sera.
Distendo le narici rattrappite
da frenesie di smerci afrori spicci.
Aspiro e al fondo guidi l’immersione.

Tu rannicchiati dentro l’anagramma,
cerca lo schermo, cerca il nascondiglio.
Pure ti scoveranno, non badare
alla torma dei cani, avido strazio.

Claudia Zironi

12 dicembre 2020

 

              

Not bad

recensione di
Luigi Paraboschi

Il nuovo libro di Claudia Zironi, uscito  con Arcipelago Itaca Edizioni, con prefazione di Francesco Tomada, è decisamente bello, ricco di sfumature,  tocchi di bravura, annotazioni psicologiche, riflessioni amare e chi, come me, ha seguito questa autrice fin dagli inizi si sente di dire che è il proseguimento dei tanti temi che Claudia Zironi ha affrontato nei lavori precedenti,  e ora  lo fa con un occhio ancora più dilatato su ciò che essa pensa di se stessa e della vita.

Dall’ opera precedente alla attuale, -“Quando si spegne il cielo“ del 2019- riprende qualcosa che inserisce in questa integrandola come prima sezione delle quattro che costituiscono quella in esame,

“…non ci sarà giudizio né rinascita, le pietre/ non ricorderanno una parola di Albanese né un solo verso di Dante/ di Montale, di De Angelis o di Arminio Franco, chi ha abitato/ la laguna e l’Amazzonia, chi ha comprato l’ultimo esemplare di Ferrari./ poi anche i vermi si estingueranno e tutto tornerà alla perfezione //

 

ovviamente, non si può pensare che un autore cambi d’improvviso la propria visione del mondo, infatti in questo nuovo lavoro scrive :

 

”…da domani non ci riconosceremo/ come umani: macchine, automi, calcolatori./ parleremo di sogni, forse, ma senza crederci/ davvero…/ solo resterà questo senso/ del condizionale passato, tempo andato…”

Il suo  è un occhio pieno di desiderio di libertà, di “…partire verso sud/ …partirò per l’isola/ su una barca silenziosa…”, un occhio non più bisognoso di alcun desiderio, tranne  poi smentirsi più avanti ove troviamo “di cosa hai bisogno – mi chiedevi…” e dopo alcune soluzioni o proposte di aiuto fa concludere il suo interlocutore con questa domanda : “o forse hai bisogno di un mio sguardo, di una carezza?”.

 

L’eterna insoddisfazione che contraddistingue tutti noi riempie il cuore dell’autrice di contraddizioni continue, al punto di scrivere  quasi rispondendo all’amica e consorella Silvia Secco, in questo modo:

libera nos a malo. libere/ siamo, libere, dalla carne/ e dall’anima. libere dai suoni/ dai canti e dalle voci…”

 

Questo bisogno di essere liberata dal male assume in molti lavori la dimensione di invocazione, a volte dolce a volte rabbiosa ma sempre avvolta dentro la tristezza e “le insicurezze dell’eterna adolescente“ che la spingono nella stessa poesia a questa invocazione ”mi si prenda e basta, senza incertezze/ dandomi temporaneo, incondizionato Amore.“ e in quel verbo “prenda“ si sente chiaramente un bisogno di fisicità che immagina espressa da un caldo amante con le parole “- amami, amica mia./ ferma il tempo, fammi duro/ tronco a cui avvinghiarti, cura/ l’insano desiderio dei tuoi baci, diventa sale/ e lingua e carne, appaga/ la tua voglia di bermi goccia a goccia”.

In altra ancora sentiamo affiorare la malinconia  e il bisogno di condivisione che si fanno  strada osservando  una serata di nebbia della bassa:

“ …resta solo/ una specie di malinconia, la voglia/ di un amore già incontrato, di baci/ caldi, di un letto sfatto, con una donna/ che tanto abbia pianto” e qui la consolazione, la comprensione, la condivisione sembra che possano essere solamente fornite da un animo femminile che “abbia pianto“, e mi viene da dire che sento riecheggiare in Zironi i suoni  di un certo animo di Pascoli altrettanto sensibile al tema degli affetti

Non si può non leggere nei versi di questa raccolta l’esigenza spasmodica di un aggancio di qualsiasi tipo o genere, la ricerca di un appiglio per tenersi a galla quando vediamo:

tienimi come riparo/ davanti a un cielo così immenso/ senza memoria e senza confini/… tienimi con te nella caduta/ conferita alla nascita…/ tienimi stretta/ tra la rabbia e la paura./ tienimi come il sorriso/ di un giorno migliore”

 

Queste invocazioni sembrano non toccare l’orecchio cui erano destinate, si scontrano con una sorta d’indifferenza, di incomprensione che generano a loro volta una macerazione interiore che incide l’anima dell’autrice.

Procedo per gradi nell’estrapolare qualche breve riflessione su quella che mi sembra un grande delusione amorosa, e trovo

mi hai insegnato l’impotenza, l’inutilità/ della parola, quanto sia vana la poesia./ la mistica del segno, un risonare di mondi/ inesistenti, dare il nome alla creazione/ e chiamare ad alta voce ogni pensiero/ non avvicinano al divino né all’amore.“,

Tutto l’amore mal indirizzato è spiegato:

per ogni lacrima che verso ti auguro/ dieci anni felici finché sarai più vecchio/ del mondo e felicemente solo/ racconterai alle api e ai monsoni/ la leggenda di chi, con il dolore, ti ha reso/ felice in eterno.“

L’amarezza di una storia andata male esce con dolore da questa

“il giorno della tua morte indosserò/ abiti consoni, una faccia contrita/ modi di circostanza/ spero che non piova/ per non rovinare la messa in piega/ che non ci sia fango e non faccia troppo/ freddo, che sia una giornata normale/ senza sole né gloria, adatta/ all’occasione. il giorno della tua morte/ qualcuno mi avviserà, senza sapere/ qualcun altro mi chiederà come mi sento/ ma credo che non risponderò, non dirò/ niente, tratterrò le lacrime e/ mi darò un contegno. il giorno/ della tua morte comprerò dei fiori/ e li metterò in un vaso, sopra la finestra/ racconterò a loro tutto quanto: tutto quello/ che non sei mai stato.”

 

Tuttavia non è cosi facile dimenticare “ciò che non sei mai stato“, e la tentazione di ricominciare talvolta è forte, infatti:

…sarebbe bello ricominciare/ immaginarci differenti, sorridere al pensiero/ di vederci, di nulla chiedere e insieme andare/ verso un quieto viale del parco a cercare/ le nate margherite.”

La lettura di questa raccolta, da me ordinata secondo una mia logica di pensiero che non ha seguito la presentazione seguita dell’autrice, si conclude con un gruppo di poesie che definirei “tragedia dell’apocalisse“ nelle quali sembra confluire tutto il condensato, la delusione, il disgusto, l’amarezza, per questo nostro mondo e modo di vivere che non lasciano alcuno spazio alla speranza, ove anche la cultura non è sufficiente:

so quel che c’è da sapere, ore e ore/ di parole, anni di inutili dati/ racconti miei importanti svaniti/ …che vorrei/ non avere mai sentito, che non posso/ cancellare, nemmeno se chiudo gli occhi/ nemmeno quando si spegne il cielo.”

Per celebrare la fine di un anno questi versi ci lasciano sentire ancora una volta quanto grande sia il bisogno di amore che scaturisce da questa raccolta:

”… la fine di un altro anno sulla terra/ dove cerchiamo giorno per giorno di lenire/ il terrore della primigenia creazione, di viverne/ altri trenta, inutili, da sconfitti./ e qualcosa ci lascia -/ la capacità di scrivere d’amore.“

 

La conclusione la lascio ad un poesia che dal titolo stesso racconta già tutto il significato e la filosofia di Zironi, infatti si intitola in inglese “hole in my soul“ e di buchi nell’anima di questa artista ne abbiamo trovati molti, ma non rassegniamoci ancora a perdere  la speranza che in un modo o nell’altro essi possano essere riempiti con l’amore che le è mancato:

 

perché in fondo come si definisce un buco?/ciò che non è pieno, un vuoto, un tronco cavo/un nido abbandonato, l’abisso, il pozzo, il gorgo/che tutto inghiotte, nero e dirompente nello spreco/illusorio e fallace, della vita, il viaggio senza destino/della luce, che parte e non si sa dove si frange/dove riposa come buio, con tutti i suoi colori/ai margini del tempo, la mancanza/di progetti e aspettative appigliati a un domani/che non ci appartiene, la resa della terra/e del muro e di ogni altra nobile materia/alla sua asportazione dal contesto, il silenzio/che ci chiude anzitempo nella tomba, il lutto/della memoria, la demenza, la follia, l’oggettiva/inefficacia della perseveranza, l’archiviazione/di ciò che avremmo potuto e non è stato, un passaggio/dal perimetro regolare o frastagliato, un foro.

 

Alcune poesie da Not bad

 

 

Dalla sezione I Quando si spegne il cielo

 

 

io ho una gemella siamese, ci hanno detto

che siamo indivisibili e dovremo

passare tutta la vita insieme. io

ho il fegato e un rene, bocca e stomaco

sono in comune, il cervello è equamente

ripartito: lei è quella che guarda le nuvole e ci vede

bambini alati e cavalli colorati, è quella

che scrive le poesie. sta invecchiando

più velocemente di me, lei è quella che

possiede il cuore. so che un giorno

se ne andrà per prima e a me resterà

qualche momento ancora per capire

come si muore.

 

 

Dalla sezione II Not bad

 

 

# happy days

 

scrivo dalla terra degli alberi

spogli e delle notti senza stelle

perché lì è la bellezza che cura

amorevole, materna. in silenzio

le piccole aracnidi nell’ambra

conservano ogni storia accaduta:

sfilano le sorelle, gli amici, i figli

tutti i padri perduti nei millenni

in una lenta processione di ombre.

scrivo dalla terra dei folli

da quella degli amori mancati

dove si soffre senza invecchiare e

si prega il dio dei ricordi

affidando le parole a una rete.

qualcuno in ascolto testimonierebbe

che non c’è fallo nella rinuncia.

nessuna luce, nessun movimento

una tiepida quiete nel cosmo.

 

 

Dalla sezione III Nuda carne

 

 

c’è un silenzio che sembra quando nevica

e ci si aspetta un miracolo dalla notte

fuori dalla finestra, si trattiene il respiro

scostando la tenda, si tace

davanti a tutto quel bianco.

c’è un silenzio che sembra

che le stagioni siano sospese

e la primavera fuori di qui

non stia per arrivare.

c’è un silenzio che sembra

che non siamo mai nate

come se fosse la prima notte del mondo

e fossero le stelle a tacere stupite

fuori dal tempo.

c’è un silenzio che sembra una tomba

come fossimo morte

e non mancassimo a chi amavamo.

c’è un silenzio che sembra

una condanna

da scontare come una quarantena

così inevitabilmente sole.

 

 

Dalla sezione IV Il ritorno degli uccelli

 

 

il nostro tempo ha le ali grandi

vola rasente acqua e le batte con calma

con cadenza precisa. l’acqua che sfiora

non è mai la stessa: benedice il mutamento

santifica il gioco. solo una volta nella nostra vita

interrompe il volo.

 

 

Claudia Zironi opera dal 2012 con l’associazione Versante Ripido della quale è uno dei fondatori e Presidente e collabora con altre realtà che promuovono poesia, arte e cultura. Fa parte della redazione della rivista Le Voci della Luna. È alla sesta pubblicazione poetica delle quali Eros e polis è stata riproposta in USA in traduzione di Emanuel Di Pasquale (Xenos Books, 2016). Del 2019 l’antologia a cura di Sonia Caporossi: Claudia Zironi – Diradare l’ombra – antologia di critica e testi – 2012-2019 (Marco Saya Edizioni). Appena uscito il suo libro di poesie: Not bad (Arcipelago Itaca, 2020).

 

 

Luigi Paraboschi

16 giugno 2019

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Non può il fiume opporsi alla discesa

Non può il fiume opporsi alla discesa
come la voce non può imporsi al labbro
quando diventa muto e non sa dire addio

così saremo noi dopo aver rincorso a vuoto
nell’alveo degli anni l’orma ed il tepore
d’una coperta smarrita nella fatica

di lasciarsi scorrere, e prevarrà la voglia
di rimpiattarsi in qualche ansa
ove giocare solleticando l’erba

ma i fiumi carsici si sotterrano
e fanno perdere le tracce
anche se non sono aridi di acque

si rifiutano di finire in mare
e si perdono nel sottosuolo
quasi a pentirsi d’aver amato il sole,

poi- senza preavviso – riappaiono
più a valle ad irrigare altri terreni
meno sassosi di quelli di montagna.

Così la nostra acqua che prima era neve
s’è intorbidita ed il suo colore
fatto denso, la vita è corsa

dentro due sponde e ciò che resta
dei desideri è melma inoperosa,
fanghiglia ove ogni speranza muore.

 

Il parapioggia non è un bene d’investimento

Di chi la colpa se abbiamo le ali appesantite ?
Solo del tempo. Siamo venuti al mondo
quando – dopo la pioggia- si stendevano
gli ombrelli al sole, ora nessuno lo fa più,
il parapioggia non è un bene d’investimento
e soprattutto non è più di tessuto nero come allora

è un articolo per la pubblicità viaggiante
tutto variegato, niente cotone, solamente sintetico
e lo si può riporre anche se un po’ bagnato.
A chi importa se le stecche mettono la ruggine
proprio come noi abbiamo fatto con i sentimenti ?

E’ all’alba che la luce si infiltra dentro
come se ogni giorno ci togliesse il verde
delle foglie giovani e la stanchezza diventasse
l’unico sostegno per un cammino in cui il corpo
invoca aiuto a orecchie sorde e mani monche

è quando fa la luce che ci si avvia

e si compiono i distacchi.

 

 

La mia terra è l’Esterèl

(dipingere dal vero non è copiare l’oggetto, è realizzare le proprie sensazioni)
Paul Cezanne

M’avvio ogni mattina all’aria aperta
e adagio sulla tela forme e colori
di Provenza, accosto i complementari
verdi e rossi che si cercano, inseguo
i bruni del sottobosco, costringo le forme
dentro la geometria, ma davanti al cavalletto
c’è un pino lacerato da una ferita chiara
che sento dover portare sulla tela,
perché dice di me e del mio isolamento.

Il mio dialogare con la Sainte Victoire
ch’è di fronte non conosce sosta
è laggiù sul fondo, d’un azzurro che spesso
vira al lilla, talvolta calda al sole come
una coperta sulle gambe nelle sere
di Mistral, è il mio autoritratto, e vivo
di fronte a lei la mia sfida di pittore
che s’è inventato una pennellata
fatta di tratteggi verticali lunghi e brevi,

ma il cilindro e la sfera sono le figure
dentro le quali vorrei farla rientrare
pure se essa non possiede nulla di geometria,
sale con pacatezza, ha due leggere gobbe,
nell’insieme è dolce e devo abbigliarla
d’azzurro e rosa per bilanciare il rosso
delle marsigliesi dei tetti sotto ai pini.

E’ questa la mia terra, non ne cerco
altre, provo a narrare la sua serenità
come quando ritraggo la mia donna,
Hortense assisa in trono sulla poltrona,
regina dignitosa senza corona,
avvolta nella luce del pomeriggio, pur se ferita
come il ramo di quel pino, e so di amarla
come amo quel figlio che mi ha donato
per il mio silenzio fatto di scorbuto, ruvido
ma ricco di un assoluto che mi racconta.

 

Museo Morandi

L’ultima luce del giorno che corre
dentro una sera che diventa più notte
è un cenere accenno di spatola
sporcato d’arancio sulla tavolozza
d’un cielo blu talo sfrangiato di luna.

Case orbe come isole disabitate
fiori secchi richiamati dall’Ade,
paesaggi di verdi tristezze
gli umili oggetti e le indefinite
sagome ancora inquietano l’anima
come ogni giorno la luce dell’alba.

Qualche lampada punteggia
la pianura luminosa di pioggia,
fuggitive presenze fluiscono
come pensieri e sensi mai spenti

mi allontano dalla presunzione
d’avere certezze o confini,
domani sarò senza protezioni
ma già ora la mente
annaspa nei gesti consueti
e barcolla nel dubbio.

.

Ancora non è il giorno   (all’amica Silvia Secco)

Ancora non è il giorno, l’acqua che cala
leggera ha il brusio dei bachi da seta
che voraci triturano i gelsi
e le tue ruote s’avviano, ma duole la mente
per l’assillo del sole che ancora non c’è

però hai la fede antica di chi si sveglia
e sposta i massi e s’appresta
a riscoprire il senso dello stare assieme

sei fatta di pazienza e di indulgenza
traballi ma resti in piedi
e dici“ eccomi “ ad ogni inciampo

hai radici fonde e ben piantate
legami di sorellanza tenaci nel quotidiano
affetti rinnovati ad ogni accenno di debolezza.

Sei luce nella tua stanza.

Non temere l’oblio
perché oblivion è più ampio
dell’archiviazione, è desiderio di abbandono
che l’anima trasuda quando è stanca

e scrivere è l’unico modo per dire “ esisto “
davanti alla marea che tutto copre, ma
scivoleranno queste parole sopra
i vetri smerigliati dietro i quali ti proteggi
da questa stagione che ci fa invecchiare
sopra le lontananze e fa
smagato il nostro pensiero perché

è lo spirito che vuole sgusciare fuori
da questo corpo che ci incatena
ad una natura fatta di fango e fiori
carne e nervi, umori di malinconie
e tristezze di tombe aperte.

 

Se mancherà un colore

Non ci sarà la nebbia del mio paese
fuori dai tuoi vetri, forse vedrai
un angolo di spiaggia con una barca
o i vigneti sotto il monte dietro casa
oppure la cava dove cerchi antichi sassi
perché temi di non trovare più la strada

ma se per caso un giorno bagnerai
il pennino con la saliva, come s’usava
ai tempi delle mie primarie, avrai appreso
a fare uso di due parole al posto delle tre
che impieghi ora quando scrivi versi

non scuotere allora oltre i vetri
la polvere del nostro dialogare,sarò
racchiuso dentro quello strofinaccio
e cercherò di tornarti accanto come
ogni volta in cui ti correggo e cerco
d’appassionarti al silenzio scarno

e se anche avrai paura
di smarrirti nel cammino intingi
la tua penna nell’inchiostro rosso e
disegna un arcobaleno con una sola tinta.

La stagione dei monsoni passerà
e le piogge che ti scavano calanchi
sopra il viso si calmeranno, spianerà
la dolcezza del vento la tua bocca,

viva tornerai nel sole, con il piede
sopra selciati stabili, dentro cortili
a fiori, squillanti di blu le tue marine
riposerai dietro cancelli d’ombra
rifugio per i gatti addormentati.

Dirai buongiorno e ciao con lievità
e non ti parrà più di smuovere
una ruota che slittava nella neve,
la tua pena non sarà quella
del chiodo che ha trovato
un muro di cemento e s’è piegato
sotto i colpi del martello.

 

Settembre è…

Ogni anno così : questa luce, miele
sotto un azzurro improbabile,
mi cade nella retina
da quella prima pennellata
buttata giù con ritrosia,

e settembre è gioia per la vista,
si rimette dentro la morbidezza
che l’estate aveva assassinato
pensiero di gratitudine
per la terra che si rivolta ancora
verso il cielo e per il verde
che finalmente puoi rubare
mescolando il giusto blu
con un giallo Napoli un po’ caldo.

Settembre è dolce come il perdono
che ti fa riconciliare con te stesso
intanto che l’occhio assorbe e fa provviste
per la stagione grigia che incalza
l’anima e la farà brinare.

 

Si formerà una pozza

Ho voglia di mettere giù due o tre righe
sopra un foglio di carta da droghiere
e intingo la penna nei colori ad acqua
così quando a novembre pioverà
le mie parole si scioglieranno
sotto le tue palpebre
e si formerà un pozza scura
sopra il tavolo dove siedi per la cena.

Non ti sto scrivendo dai confini del mondo,
da più lontano, dal luogo ove le nuvole
si riposano quando sono stanche,
ed è sempre settembre
con le sue mezze voci che s’allungano
dolci sopra le foglie e fanno diventare rosse
di calda vita anche le tende
che oscillano sulle terrazze delle case.

Domenica silenziosa,
quasi una preghiera, poesia
da recitare sottovoce, giochi di chiaro
che balugina tra i coppi,
macchie d’ombra blu alla Matisse
colpi di luce gettati come per caso
sopra i tronchi del viale

ma c’è gioventù, troppa è la vita
nei sorrisi delle ragazze
che passano rasentando ai muri,
e fiorisce la giornata in quelle risate
in sbieco che scivolano sui bicchieri
e fanno tintinnare i vetri.

( tratte dalla raccolta inedita “ tra due parentesi e un punto interrogativo “)

Nunzia Binetti

26 febbraio 2019

 

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Il tempo del male

raccolta poetica di

Nunzia Binetti

Edizioni Terra d’ulivi 2019

 

Non si presta mai troppa attenzione quando si inizia un libro- specie se di poesie – a ciò che va sotto la definizione di esergo, ma ho appreso nel tempo che se ci si sofferma su di esso, e si riflette sul suo significato, sforzandosi di capire cosa si nasconde dietro o dentro questo biglietto di presentazione che  molti autori pongono in apertura ai loro lavori, si ottiene quasi sempre la chiave interpretativa di ogni opera.

L’esergo che Binetti ha scelto per il suo lavoro è una citazione del poeta Camillo Sbarbaro, tanto amato dal ben più famoso Eugenio Montale,

Perduto ha la voce
la sirena del mondo, il mondo è un grande deserto.
Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso

Esaminiamo assieme queste righe il cui contenuto non ha bisogno di molte interpretazioni; esse ci dicono che:

a) il mondo non affascina più il poeta

b )il mondo è solamente un luogo completamente deserto

c) in questo deserto l’autore si osserva con occhi senza lacrime, e senza autocompiacersi.

Anche la nostra autrice scrive quasi all’inizio della sua raccolta:

Terse l’ albe che mai vedremo./Il femore regge la frattura/e incorporea e ribelle, quanto un’ idea estrema/non ama la moltitudine ma il ritiro nell’eremo/

e aggiunge in un’altra appena successiva:

Le Cose. Il vero mistero del mondo./ Esistono. Anch’esse sono. Vivono.

Per poi concludere :

Quella apparente indifferenza delle cose/è l’insuccesso dell’attore sulla scena./Ma vita non è solo respiro./bocca che parla, molecola di carbonio/che lega.

Le cose  esistono e sembrano indifferenti al mondo e di fronte a “questa (presunta, aggiungo io) indifferenza “non resta all’uomo che il ritiro dal mondo, però questo atteggiamento non può prescindere da un’altra componente del nostro essere umani, e cioè

Lasciarsi andare senza punteggiatura o regola. Non serve il rigo .Unico punto è l’anima;/

Lo sbandamento interiore sembra contrassegnato dal desiderio di “lasciarsi andare”, avendo come unico riferimento “l’anima“, lo ritroviamo in molte poesie della raccolta, ad esempio è espresso bene in questi versi

…Non so chi sono,/forse un fumetto muto,/un gioco scarsamente interattivo/e non concluso.

L’insoddisfazione di sé, la sensazione di essere “un fumetto muto“ e di far parte di “un gioco non concluso” inducono l’autrice alla  invocazione velleitaria di fuga in avanti, ed infatti in altra essa scrive “ essere liberi di non morire/ di non andare dove si chiama“…e poco sotto aggiunge “l’epigonismo non si addice mai al creato./ Meglio l’Angelo Ribelle che intralcia e poi rovescia. Leggere fra le sue ali l’odore di qualcosa di diverso“.

Un’anima dolorante che sembra talvolta invocare qualcuno scomparso, come il padre, al quale si sente estremamente debitrice quando scrive, esaminando il proprio sembiante

Nel viso una bellezza dura/eppure era bellezza, /enigma dolce che non si sa spiegare. /Nel suo DNA c’era cemento. /  Il calco a darle forma /  fu mio padre. //

e in un’altra aggiunge:

Scivolando in un avverbio temporale/dalla forma stretta di imbuto/ho gridato il tuo ritorno, padre,ma ero Orfeo; abbandonavo la mano al nulla presto./Preghiere antistanti/a richiamare chi mi ebbe sposa./I riti, il pianto./- Non c’è amore che valga, non c’è più amore,/saltati i vincoli nei legni e dietro lastre in travertino -/(dice la Storia)./Medito vetrificata, pallida, bel vestita,/padre, che mi insegnavi l’eleganza./Ho nudo il petto e spando disarmonie epocali./Vasi sanguigni, i miei, contano giorni/al greve ricongiungerci.

Più avanti incontreremo un’altra assenza, alla quale vorrei giungere con la delicatezza e la riservatezza che questo avvenimento merita, passando però prima attraverso l’esame di una condizione che mi sembra fondamentale nella poetica della Binetti, è cioè quella così chiara in questi versi:

Basterebbe un anemone/per colorare la solitudine/di inchiostro Blu China. Si parcellizza
l’ Essere/nello scontro con figuri/in questo tempo del male/e intorno si fa buio.// 

La solitudine è il veleno che corrode l’anima dell’autrice, la quale asserisce che per
“ macchiare le tele secche dei giorni/ trovare l’indaco, è solo questione di fortuna”  e questo veleno sottile la costringe a fare i conti con il tempo che logora tutti :

Non sei la Ragazza con l’orecchino di perla,/non sei neppure una ragazza/o l’albero felice./Il tuo corpo è in esilio,/con mano triste scrive versi che nessuno legge;/è in esilio,/in questa terra disadorna (cruda Colchide/non offre sentieri valicabili)./Il tuo olfatto è in esilio,/non declina odori maschi in giacca e cravatta./Il tuo piede è in esilio/lascia orme su pietre in basalto./Il tuo ventre è in esilio,/non lo vestono gigli./il tuo sguardo è in esilio./Sullo specchio s’appanna
e/rovina /Bellezza.//

Se il corpo è in esilio, se la sua poesia non è letta da alcuno, se il desiderio fisico è emarginato, non rimane che annullarsi come un fiocco di neve:

Cadere da fiocco di neve,/con lucida freddezza,/in modo irresponsabile/e poi subire il tonfo sull’asfalto,/ l’urto forte che brucia di calore/  e dà quell’unica risposta:/ sciogliersi./ E qui nevica bianco,/ nevica lento, nevica bene./ Qui nevica neve.//

 Ma la neve cui vorrebbe assomigliare non sa sciogliersi, anzi rimane nel bianco di un fiore quasi a tessere un dialogo con qualcuno a noi non noto, ma che di certo rappresenta quell’altra Assenza cui accennavo poc’anzi

Sto//nel chiuso di un tulipano bianco/prima che s’apra al mondo./Intima essenza,/al riparo dall’occhio indiscreto./Soltanto tu mi sai prossima a fiorire./Dicono che si fiorisca una sola volta,/non guardano il miracolo ch’accade /nelle primavere dei giardini./Nella carezza di Proserpina/rifiorirò./Lasciami nascosta,/come un amore clandestino,/nel tulipano tutto bianco. 

C’è un TU con il quale l’autrice sembra voler dialogare, un TU al quale si rivolgerà di concreto quando come Proserpina tornerà a rifiorire, un Tu che le impedisce di confondersi con i festeggiamenti invernali del Natale, e questa poesia che fa precedere con tre punti di sospensione il sostantivo finale “ vedova “ apre uno squarcio rapido sopra un panorama di fuga continua

Come accade a dicembre 

Fra piazze e marciapiedi una storia futura,/fatta di nulla./Intanto sono pronti/- come accade a dicembre -/altri muschi per Natale/e annunci che non sarai al cenone;/lì c’è troppa gente./Preferisci la docile luna alla cometa /(che rapisce la scena al Presepe)./Scolorisci – in difesa – per non farti cogliere,/guizzo nivale. E resto …/vedova.//

 Il pallore sul volto che si vorrebbe nascondere rimanda ai versi di quest’altra:

…ed Essere per Essere,/senza filosofia, senza politica,/dimenticando – ma per poco -/quanto sian soli i morti.//

 E forse come Proserpina costretta a trascorrere nell’Ade durante i sei mesi della stagione invernale, la nostra poetessa si porta nel cuore una

nostalgia che la corrode, un amore che  “è stato“ e la induce ad osservare sé stessa con uno sguardo stanco, senza speranza:

La casa pare un cunicolo spento,/vicolo chiuso;/non ha respiro./Un tempo l’attraversava mitezza./Più nulla le darai, più nulla,/se non l’immagine tua lieve oltre le rive,/prive di accesso./Sei stato amore, garofano bianco, dolore,/tutta la mia follia./Ed ora sono ammalata di te,/come mai prima.//

E’ una malattia che non ho timore di classificare al limite della disperazione, che fa perdere anche il significato della consuetudine ai gesti quotidiani:

Ci sono assenze che non sanno dire una parola;/sguardi distratti, vuoti di memoria,/chinare il capo sulla pentola in cucina/e non vedere il latte che si versa sui fornelli./Ci sono assenze… le traduci in solitudine;/un libro in mano, le gambe intrecciate sul divano,/le chiavi di casa che non trovi./E allora ti domandi – sto male, sto invecchiando?/o forse mi sto solo innamorando-/Disegna vuoti nell’aria con le dita/o fasci di rose rosa,/e mandami una canzone via web/perché mi manca./Ci sono assenze..//. 

E queste assenze stroncano ogni desiderio e lo trasformano in  inutile velleitarismo:

Sono incantamenti a portata di mano,/questa notte, tutte le stelle./Guarda, hanno uteri di fuoco/occhi di cielo/e lucciole o puttane, si offrono a mille./Scrutano beffarde, consumano./E poi a ferire a morte si versa sopra gli inguini/un fiume che è di luna./Ma amore o sesso/le sai sfere impossibili, inessenziali/e vivi il letto,/sola,/al margine di doghe, in netta insipidezza,/e il rischio di piaghe da decubito.//

Ho riscontrato durante la mie lettura versi di una donna che sa scrivere di poesia e che sa utilizzare le parole, le sa mettere in ordine assecondando il flusso dei ricordi e delle proprie memorie private folgorando in questo modo gli occhi e la mente di chi ama la poesia, come è chiaro da questi ultimi tre versi di una brevissima che riporto

Il cielo della mia notte ora è più chiaro/
né più temo l’assenza./
Ti sfilo dal cuore, come un ago.// 

Però non posso chiudere il mio discorso complessivo su questo lavoro senza tornare su quanto appare nell’esergo, ignorando quel verso di Sbarbaro che dice: “… il mondo è un grande deserto“, verso che mi costringe  a trovare gli agganci dentro i testi di Binetti, a coronamento di quanto lei ha aggiunto in una nota in calce al suo lavoro che dice:

…il percorso della scrittura è stato caratterizzato da una duplice tensione compulsiva: l’auspicio di un ordine totalmente nuovo nel mondo e la percezione della illusorietà di ogni aspirazione alla sua salvezza

e l’ho rintracciato in questi versi:

Terse l’albe che mai vedremo/. Il femore regge la frattura/ e incorporea e ribelle, quanto un’idea estrema / non ama la moltitudine ma il ritiro nell’eremo;/ lì regna il silenzio di pietose novizie./ Fuori dilaga e governa il carminio,/ senza fede fa mattanza di indifese cocciniglie./ Il bisturi c’è, non sana, solo scintilla//

Le nuove albe rappresentano un ordine sperato ma irrealizzabile, e non c’è altra speranza che “ il ritiro nell’eremo perché il carminio è senza fede “, e non si può trovare la salvezza utilizzando un bisturi che è solo apparenza.

La disillusione nei confronti del modo la troviamo ancora più avanti,in altri versi che dicono:

E’ perfezione ardita la solitudine,/ silenzio libero in un distendersi del tempo/ che quasi per miracolo s’allunga // Prestare gli occhi al sonno per la noia/ cedere al nulla./ Bianco ci acceca il nulla, come neve; splende, rasserena, e non ha odori o morbidezze/che della nostra stessa carne./ E’ egotica tendenza al non pensiero /autocontemplazione/ rigetto di teorie, ed Essere per Essere,/ senza filosofia, senza politica,/ dimenticando – ma per poco – quanto sian soli i morti //

 E’ una visione dell’esistenza senza speranza, ove su tutto sembra dominare la noia e la voglia di addormentarsi per ignorare la tendenza della contemporaneità a vivere senza significati, senza teorie filosofiche, ignorando che questo modo di  vivere ci avvicina sempre di più ad un mondo di morti.

  

luigi paraboschi

7 febbraio 2019

 

 

 

Ricordando Narda Fattori

14 gennaio 2019

 

https://giardinodeipoeti.files.wordpress.com/2014/01/scrittori-a-confronto01-12-06-09.jpg[…] Quanta strada ha percorso (percorre e percorrerà, il quesito va coniugato in tutte e tre le forme) la poesia di Narda Fattori, quanti volti, quanti gesti hanno inquadrato il suo obiettivo, con quali «intermittenze del desiderio», proustiane e no, si è accordato e scontrato il suo battito, in quali acque si è rinfrancata, si è immersa, quali precipitazioni ha invocato, da quali mulinelli e da quali miraggi ha messo in guardia, quali corde ha pizzicato, teso, saggiato, quali schiere l’hanno insospettita e di quali, invece, a dispetto dei cori ammaestrati, ha composto e intonato le canzoni?

continua qui

https://poetarumsilva.files.wordpress.com/2016/10/dispacci.jpg?w=380&h=543&zoom=2

 

Scriveva la Fattori in una precedente raccolta  dal titolo “ la vita agra “, volendo lasciare un “consiglio- avvertimento” alla nipote
se non hai passioni e sogni grandi
  resti all’anagrafe solo un rigo nero “
ed in questo ultimo lavoro, dal titolo significativo DISPACCI, non fa che ribadire il concetto sopra esposto, quello della passione per la scrittura e per la lettura che sembra essere dominante, come scrive in questi versi della poesia Viaggi…

continua qui

 

 

 

 

Silvia Secco

15 dicembre 2018

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Lettura di Luigi Paraboschi

 Se le parole che un poeta usa con maggior frequenza sono le spie che ci aiutano a comprenderlo, ciò che in buona parte serve per identificare il nucleo del suo “ sentire “,- visto che  in questa raccolta la Secco usa i sostantivi “ Neve “ “ Pane “ , “Sete e Fame “  con molta frequenza-, non posso non  domandarmi quale sia la parte di sé che essa maggiormente tende a valorizzare, se il corpo o lo spirito, ma propendo a superare la fisicità dei sostantivi elencati per lasciarmi sedurre da un’altra spia del suo essere persona, gli esergo che essa antepone alle varie parti del suo lavoro.

Si sceglie un “esergo” per  fare una introduzione al lavoro che si intende sottoporre al lettore, ed anche per rendere omaggio a qualche autore importante per la nostra formazione, e la nostra autrice  ne evidenzia alcuni  che elenco per aiutare ad inquadrare i vari temi che essa svolge

il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome
e per citarle bisognava indicarle col dito. (Gabriel Garcia Marquez)
Tutto ciò che con ogni amore e afrore di paese
doveva difenderti (Andrea Zanzotto)
della città importanti io mi ricordo Milano (Ivano Fossati)

Se è vero che scriveva Marquez che “ le cose bisogna indicarle col dito “ a me sembra che già dal lavoro precedente “Canti di Cicale “  Secco avesse lasciato capire che il titolo del lavoro attuale fosse già in cantiere quando da allora  indicava al lettore che: Interni al mio ventricolo sinistro/maturano segreti di amarene
e  infatti questi sono i frutti che lei si decide a cogliere ora, quando scrive  del lavoro di cui sto parlando:
io qualche decina di amarene/mi covo nel grembo. Per voi preparo/un pane in dono, minuscolo ed agro.

Ma  aveva anche dichiarato da prima:
All’amore/occorre tacere, come alla neve cadere./Occorre accarezzare, se brucia soffiare. /Placare se serve, lenire.

Le amarene che Silvia ci offre sono talvolta acidule, com’è nella loro natura, e lasciano in bocca un sapore brusco, e quindi il lettore dovrà cercare di addolcirsela girovagando tra i numerosi passaggi morbidi di questo libro.

Il dolore del cuore prorompe dentro la riflessione che essa conduce parlando di  fatti di cronaca recenti, episodi di violenza su bambini e bambine accaduti nel sud del nostro Paese, fatti che hanno turbato le coscienze di tutti per la loro drammatica evoluzione.

E l’urlo di dolore non prorompe ma si tocca con mano perché la poetica di questa autrice è sì tutta giocata con parole che esprimono  fatti e avvenimenti tragici, ma  lo fa sempre con il pudore e la riservatezza che la delicatezza degli argomenti richiede, come in questa  dedicata alla bimba napoletana  di pochi anni, abusata e poi gettata dal terrazzo di casa,  una storia horror raccapricciante.
Leggiamo  questo testo per intero:

le bamboline salgono le scale/dei palazzi con le ginocchia sbucciate,/le ciabattine. Portano nomi come/caramelle. Suonano alle amiche/per giocare sulle terrazze sgombre/delle antenne, a unire i puntini dei nei/nella forma del lupo. Indossano/magliette preferite con le ali /contano i loro anni, fino a sei. Poi /si chiudono la bocca con le mani/gridano la faccia dei padri. Fanno il salto, volano giù otto piani.

Si legga attentamente e con pazienza i versi di questa che segue, si analizzi la delicatezza delle espressioni usate, il pudore dei gesti, la riservatezza nel raccontare i fatti, ma anche la precisione quasi pittorica di quella sofferenza fisica derivante dal dolore per la violenza subita.

Nove anni, piedini nei sandali /e i malleoli uniti, ti dondoli / nel piccolo male d’ossicine. /Nove anni e spingi pianto e groppo /giù, ginocchio contro ginocchio/ giù, più forte un malenorme/ giù dal bruciore dell’occhio/giù nel cavo della pancia che è un tondo/ liquido mondo bambino. /Nove anni e stringi che non si spanda/- sopra il cesto del bucato dove siedi /nemmeno tocchi terra con i piedi -/Fingi di farfalle nelle ragnatele /e mani senza dolo da tenere /magari solo per attraversare.

Come non avvertire tutto il dolore che c’è in quel “ malenorme” nel cavo della pancia, come non vedere quello stringersi delle gambe affinché quel dolore non fuoriesca dal corpo, come non rendere concreto sotto i nostri occhi il disagio di quel muovere i piedi che non arrivano a terra ?

Le bamboline salgono le scale /dei palazzi con le ginocchia sbucciate, / le ciabattine. Portano nomi come /caramelle. Suonano alle amiche /per giocare sulle terrazze sgombre /delle antenne, a unire i puntini dei nei /nella forma del lupo. Indossano /magliette preferite con le ali /contano i loro anni, fino a sei. Poi /si chiudono la bocca con le mani /gridano la faccia dei padri. Fanno il salto, volano giù otto piani. 

Le possiamo vedere queste “ bamboline “ con le loro magliette da pochi soldi, le ciabattine strascicate ai piedi e la drammaticità dei versi finali ci fa comprendere meglio il significato dell’esergo ricavato da Zanzotto: Tutto ciò che con ogni amore e afrore di paese /doveva difenderti .

Non c’è protezione né salvezza neppure gli odori di casa, niente difende il cavo della pancia di quelle bimbe, nulla le protegge dai lupi che si aggirano attorno al cesto del bucato sul quale siedono dondolando i piedini.

Ma teniamo presente anche la “neve” che, come ho ricordato all’inizio, è una costante frequente nel versi della Secco, e non occorre possedere troppi studi di psicologia per intuire che  vuole rappresentare uno slancio inconscio verso una serenità ed una pulizia interiore della quale l’autrice sente la necessità, come in questi

Insegnami il coraggio dei papaveri/ai margini di strada, l’ilarità/di certe spighe, a spasso con le folate./Fammi capace di gentilezza/- l’erba sul piede nudo, l’attitudine del sasso/a tacere le erosioni, la pazienza che hanno i pesci/coi costumi dei bagnanti – dammi la fede del frutto/che maturerà come ne ha la neve, in altitudine/a maggio inoltrato.

Questi versi sono una invocazione quasi trascendente ( la trascendenza non appare mai troppo evidente in questa raccolta, ma la si sente, la si tocca anche se non è nominata ),si avverte un bisogno di “ gentilezza “, la necessità di essere spontanea come i papaveri sul ciglio dei fossi, la rassegnazione del sasso che ignora le erosioni del tempo e delle intemperie, e la fede nei risultati che verranno.

 Ancora  la poesia

Impareremo dalle cime la vertigine,/la libertà dal gatto di morire solo. Avremo pietà/- come la terra per il fieno, all’ora della falce -/un biancoridere di scogli davanti al mare./Impareremo a eliminare dalla calce, dalla brace/a trattenere. Avremo sete e avremo fame:/la sete di chiarore della rosa/l’urgenza degli uccelli di cantare./Avremo comprensione nelle mani,/la stessa fame d’ossa degli anni, dei cani.// 

e sottolineo questo bisogno di “ trascendente “ che sarà finalmente soddisfatto un giorno quando avremo imparato dalle cime la vertigine, quando la nostra fame di ossa che hanno i cani sarà saziata, per evidenziare meglio come in Secco vi sia un  tormento  esistenziale così ben espresso da questo esergo di apertura al libro:

 “Tu sentissi come come mi urla il cuore questa litania. /Mi urla come un bambino “.

Ma quando avremo imparato la libertà del gatto di morire solo “ allora sapremo farci concavi per diventare capaci di raccogliere il dolore

…Essere pozzanghere, per similitudine /di condivise profondità, voragini e spaccature/ loro, come le persone. /A raccogliere gocce fuse alle gocce noi /ci diciamo luogo, raduno di piccole cose cadute.

……………. perché scrive più avanti   il nostro destino è  che “ Mai saremo promesse alla quiete “.
Eppure un luogo esiste sembra dire l’autrice per raggiungere quella quiete desiderata, occorre ricercarlo anche :

……….. Dentro la città, dentro le righe/fra le lastre delle pavimentazioni,/ci fioriscono le mani, e sono fili/d’erba nuovi e sono vivi: quadrifogli/che si fanno avvicinare/……….…..ci rassomigliano per illusione…..

L’illusione scompare dentro la scoperta della personale “ pavimentazione “ , quella interiore che è capace di non farsi soffocare e lascia crescere così quadrifogli, anzi genera quei filari di rose che i contadini fanno sbocciare agli inizi di ogni filare di viti, ed è la scoperta di possedere radici ciò che dà all’autrice di “ appartenere ad una patria “ 

Vien vardàre, mi hai detto. Il filare/finisce sul fiore, ognuna delle tue/rose è sana. E nel minuscolo tondo/del chicco/ancora non succo né acino/e nel ventaglio della foglia e nello/slargo del palmo della tua mano/e ovunque fra il passo e l’erba, io mi fiuto/un buono di pelle che è il nostro odore/e dove mi trovo, figlia. Appartengo/a una patria.

Quell’espressione dialettale con cadenza veneta che appare all’inizio è un invito che qualcuna di famiglia, la madre presumibilmente,  le rivolge quasi come  incoraggiamento a soffermare lo sguardo sul tondo di quel chicco d’uva che sta crescendo,- nuova vita-, e la induce a scoprire quell’odore di buona pelle che è la certificazione di origine, l’identificazione con qualcuno che fa parte di noi, è il coronamento di quell’espressione trovata poc’anzi che diceva:

………dammi la fede del frutto/che maturerà come ne ha la neve, in altitudine/a maggio inoltrato.

 e anche di quest’altro verso che  dice parlando delle pozzanghere   :……….Concedere ai bambini di entrarci, di saltare/nudi, con la felicità dei loro gridi.

Una volta trovate la radici delle rose del vigneto, è facile ritrovare anche quelle del proprio destino di donne legate alla stessa pelle, allo stesso colore del suo tessuto, alle stesse linee del destino, come leggiamo:

 Senti come fa rumore, una foglia/sulla strada sopra il letto delle foglie/sopra l’anulare/- l’oro della fede/che dopo appartiene a mia madre -/Senti com’è uguale anche la grana della pelle/a ripensarla, e uguale è il colore/di sua madre, di mia madre e di me/mano a mano, con gli anni che disegnano/le linee, questo destino che ci scrive/una separazione.

La parte più amara di questa raccolta è l’ultima, quella che si fa precedere da quell’esergo iniziale:

Bocca sulla bocca ti ho mentito/l’inutilità di questa frode
Prima, nel lungo tempo anteriore, non ho fatto/ che levare -una lettera alla volta del tuo nome/ quando lo chiamavo, ed era già in tutte le parole/ nelle canzoni di Fossati della bocca e del vapore/ vasto, come un città -Milano, io mi ricordo: lascivo la casa allora, disadorna e  feroce/ e bianca di latte e coperta di lenzuoli, come accade/ dopo la lotta e la rivoluzione/. Ma tu mi hai scritto che saresti arrivato alle otto./ Hai scritto alle otto, arrivare. Hai scritto/- immaginata mia primavera- arrivare:/ mia nuovo curva lunare, virgola d’esplicitazione,/ stato di quiete mio. Arrivare//

Secco esce con queste ultime poesie dalla dimensione del dolore particolare ed assume veste di persona che si interroga sul proprio destino, ma anche su quello di coloro che verranno, si domanda  che ne sarà degli anni:

Quanto, quanto avremo/ perduti i prati che non torneranno, non i prati/. Non rimarrà prato alcuno/ Non più gemmeranno i tralci, si seccheranno/ e germi nelle cavità dei legni li marciranno/ e nessuno, né rami né foglie, neppure gli acini/ ripareranno dalla crudeltà del bianco:/ gemere vuoto di luogo disabitato, abbaglio di bianco/ sul bianco del muro

Decisamente l’andamento di questo lavoro della Secco è ineccepibile come svolgimento;  ci prende per mano, l’appoggia al suo grembo a ci lascia togliere i frutti amari che esso raccoglie; parte dal dolore che trasuda da ogni poro del nostro vivere, passando attraverso la sofferenza del proprio vissuto privato

A noi dicono, invece, ce ne sarà per degli anni./Che ci faremo anziani, e alla cura non basterà la neve. /Ma allora come faranno i figli. Come le madri ,/ il bestiame, il torrente o la piena, le vigne /e il grano, oppure il piano a sopportare /nostalgie di tre sillabe – alcun orizzonte, /trincee in luogo di alture, cicatrici incapaci/a guarire – e noi incapaci, a spaesaggire.

E quella crasi “ spaesaggire “ ci fa  approdare  a una conclusione avvilente, disillusa e sconfortante servendosi di un linguaggio anticonvenzionale, privo di retorica, scarnificato all’eccesso, sfrondato da ogni tentazione sentimentale anche nella parte del proprio privato affettivo, ma temo che queste amarene non saranno le ultime che dovremo aspettarci di questa giovane autrice già al terzo libro di poesie.

 

 

 

Claudia Zironi

10 dicembre 2018

Lettura di Luigi Paraboschi

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Variazioni sul tema del tempo
poesie di Claudia Zironi

Credo di poter dire, senza timore di essere contraddetto dall’autrice, che il tema del tempo costituisca quasi una costante di tutte le sue raccolte, a cominciare da
Fantasmi, spettri, schermi, e avatar da cui stralcio :
A un certo punto il mondo ha rallentato
…non so bene quando è successo…
il mondo era invecchiato

Che Zironi pensasse che il tempo abbia rallentato e invecchiato il mondo, e il flusso degli anni abbia trasformato e si sia portato via i nostri migliori sentimenti, lo si poteva già intuire e dedurre dal finale di questa altra tratta da Eros e polis ove, forse parlando di sé stessa, preconizzava un destino di morte, di oblio e di sconfitta al quale però siamo inevitabilmente destinati tutti:

Sei nido della rondine /a settembre, destinato /all’abbandono. Servirai /da concime alla terra / dei nuovi ramoscelli /che culleranno uova

Ma in questa ultima raccolta lei affronta ancora e con maggiore impegno e attenzione quasi scientifica il tema temporale, costruendo all’interno di tutto il suo lavoro scansioni letterarie chiamate: Ucronie-Eterocromie-Eucronie-Discronie-Sincronie-Ur-cronie-Diacronie dentro ognuna delle quali inserisce testi a suffragio del tema principale che è
“il tempo“.

In tutti questi “paragrafi“ o “capitoli“ del discorso poetico sono inseriti testi che davvero spiegano il significato dell’intitolazione ad essi assegnata, e ritraggono ciò che sarebbe potuto succedere se un preciso avvenimento storico avesse assunto un andamento differente.

E’ una sorta di “sliding doors“ letterario nel quale Zironi immagina di viaggiare con la fantasia attraverso luoghi geograficamente precisi ( la Finlandia, Stoccolma, Santiago, Il Cile, la Fossa delle Marianne, Istanbul ) per proporci testi a volte leggermente angoscianti per quel senso di solitudine e di lontananza che mi hanno fatto riandare al romanzo “La strada“ di Mc Carthy, per la visione desolata di un mondo sopravvissuto ad un disastro ecologico o nucleare.

Poiché in un testo essa scrive: ”per scrivere di cose profonde/ ho scritto di curiosità geografiche “, non ci resta che seguirla nel divenire poesia di queste “cose profonde“ il cui sviluppo lascia il lettore a volte spiazzato, come in questa:

Avevo- forse ho-qualche parente a Padova/.Ci sarò stata due o tre volte in tutta la mia vita/ ricordo solo la chiesa, la piazza/ ma è uno di quei posti che diceva mia nonna/ suona familiare/ come se ci avessi perduto qualcosa/”

ma lo spiazzamento arriva da questo verso folgorante che chiude il testo “Guarda per me nel fiume“.

La spiegazione di questa volontà di disorientare il lettore mi è apparsa più chiara da questi versi di un’altra:

“Sei mai stato una gazza?/ disposta in fila con altre trenta su un cavo/ nel sottotetto, che guarda/ te che sospiri scacciando l’idea/ di un nuovo amore/. E sei mai stato il tuo letto?/ che accoglie l’insonnia, le mani, il calore/ come fosse il suo corpo/. Sei mai stato il treno che ascolta/ i tuoi nuovi pensieri cosi azzurri/ come fossero raccolti di fresco in un campo/ E sei mai stata l’aria che lei respira? Il pipistrello/ che le vola davanti alla finestra ? Sei mai stato la sua bocca, i suoi occhi/ il suo seno?/ da quando ti conosce//”

Ancora una volta, come nei precedenti lavori, affiora in Zironi uno sguardo sul mondo che pare volere celare una invocazione di aiuto, la volontà disperata di vincere l’inevitabile trascorrere del tempo e di volerlo piegare alle esigenze di un cuore sempre bisognoso d’amore e di contatti umani, malgrado quella che a un lettore frettoloso potrebbe quasi apparire aridità o quanto meno indifferenza.

Se non ci si sofferma sul disincanto racchiuso in questi versi, sul loro nichilismo:

“non è infinito l’universo/ è il nulla-meno qualche cosa, esiste/ per sottrazione al nero/ ma Tu/ sei come il tempo

se non ci si lascia influenzare dal contenuto di questi altri:

“E se un giorno svanissero/ i pensieri la luce non esistesse più/ la percezione/ dello spazio né quella del freddo, non ci fossero/ più nervi ad accogliere il dolore/ nessuna voglia nel ventre, un grande/ silenzio./ Il tempo/ fosse una macina per ossa/ Se un giorno restasse solo questa sensazione/ di non servire a niente//

e si va oltre la prima reazione di sconforto, tornando sui differenti testi di questa raccolta ci si può rendere conto che l’anima di questa artista possiede angoli di sensibilità eccezionali capaci di venire fuori con tutto il loro vigore,e la loro forza espressiva come si può dedurre dal finale di questo testo che segue, malgrado sembri essere stato dettato dallo scetticismo più globale:

“Misurazioni effettuate hanno dimostrato/ che l’ innamoramento sul pianeta Terra/ nell’uomo dura circa tre mesi, nella donna/ un anno, dopo sei anni c’è la sopportazione/ quando va bene,/ poi solo fastidio, la possibilità/ di incontrare l’uomo dei sogni è pari/ a quella di trovare il libro di Urizen/ su una bancarella, arrivata a cinquant’anni/ ogni donna libera dichiara guerra/ all’amore e alla coppia, ogni uomo/ di pari età corre appresso le ventenni…..“

se non fosse che il riscatto dalle parole precedenti e dallo sguardo disilluso che si apre su una realtà abbastanza diffusa viene fuori da questi versi della chiusa che dicono :

…”mi spieghi/ per quale statistico motivo/ mi hai sorriso ?“

Ma l’anima che cerca il sorriso che nasconde l’attrazione, è la stessa anima che la induce a trattenere i sogni nella tasca di un cappotto nel quale ha rintracciato un rettangolino di carta (forse un biglietto d’ingresso a qualche locale) e di conseguenza scrivere: “… quando ho letto ho ricordato/ un piccolo prezzo per un anticipo d’estate/ per il sogno di un’intera vita./ L’ ho rimesso tra i rifiuti/ nella tasca, e la fa ribadire l’ostinazione di voler riattivare un rapporto che sembra esaurito. “Ti cercherò tra le spighe e i papaveri/ imbiancati, nelle tane lasciate vuote/ delle pietre, nonostante il frastuono/ dei gabbiani ti cercherò tra i vescovi/ in conclave, tra le sabbie delle mie parole e/ tra le rose senza nome, tra tutti gli uomini/ mancati nel millesettecento, tra le madri/ che non hanno avuto figli. /Se c’è una possibilità di ritrovarci/ non la lascerò intentata, il giorno / della fine del mondo //

La speranza dell’incontro va al di là del fluire inevitabile del tempo e culmina nello splendore di questa ultima che riporto per intero:

“ci sono cose che capitano./ Accade di nascere comete/ o solo di nascere, come di morire/ cadendo in un fiume/. Capitano strambi incontri/ dove i silenzi non sono/ contemplati, accade di traversare/ il deserto e il mare./ Può capitare di imbattersi/ in un astronauta per strada/ e non saperlo. Può essere/ che quando si aprono le mani/ per sentire il vento freddo/ della notte qualcuno le stringa/ e si parli dell’amore//

Luigi Paraboschi 13.10.2018

Daniela Raimondi

30 settembre 2018

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lettura di Luigi Paraboschi

Si dice spesso che la buona poesia è quasi sempre frutto del rievocare, e mai come questa volta, leggendo i versi della raccolta della Raimondi, viene istintivo concordare con questa affermazione.
L’autrice stessa lo scrive chiaramente fino dalle prime pagine
“La poesia è mancanza/ E’ il respiro concavo/dove depongo/una susina/un piuma/ una pietra di fiume/
Ma se è vero quanto ella scrive a pag. 8 che:
scriviamo per l’attesa“ o anche “per non dimenticare il sogno“ e anche “per sconfiggere demoni/immobili come aghi sotto la pelle“ allora la nostra curiosità di lettori ci spinge nella ricerca su quali siano stati “ i demoni “ e quali i “ sogni “ della nostra poetessa visto che lei scrive:
“la memoria comincia/ dal rumore di un cuore”
Allora cerchiamo di capire quale sia l’origine della sua memoria di bambina fino al suo diventare ragazza e poi donna.
A me sembra di poter dire che la memoria più dolorosa sia quella che è troviamo scritta in questo verso della poesia “Nata d’inverno “ che dice:
Sono nata in un giorno di neve/ con le grondaie bianche/ e gli uccelli fermi sui rami/…
e poi, più avanti aggiunge :
“Mio padre usci di casa./ Lasciò l’orma sulla neve,/ nel silenzio di un cielo che pesava dentro i nidi, / sulla ossa sepolte dei piccoli mammiferi/
assistiamo ad un accostamento tra un avvenimento gioioso, -quale di solito è una nascita,  e l’ambientazione che traspare dal testo complessivamente cupo, freddo, inospitale, senza concessioni alla gioia per quella nuova vita che sembra già piena del rimpianto per un tempo che ancora prima di essere appare irrimediabilmente perduto, come leggiamo:
… “L’ultima neve cadeva nel buio/ e i campi avevano scordato l’odore delle mele,/ il suono dolce che a volte nasce/ sulle labbra di un uomo.// Le parole morivano sulle bocche dei pozzi/ si perdevano lungo le strade bianche della pianura//.
Il cammino famigliare appare in salita, condiviso con una sorella “una bambola di pietra“ come l’autrice, entrambe “pallide come una maiolica”, dentro “una casa che era un mausoleo”, dove lei cresceva  “umida e silenziosa come una malattia”, ove c’erano “ un uomo e una donna “, ma, “Nascosta nell’ombra respirava un’altra donna“.
La crescita si sviluppa meccanicamente: “le bambine crescevano come l’erba dell’orto,“ fino a quando “un giorno la sorella più grande/ impugno’ la spada del padre/. Si tagliò il seno sinistro/ e fuggi nel mondo con la voce di un uomo/
Si avverte in questi versi la pesantezza di un clima famigliare di sospetti, paure, dubbi, incertezze, finte rassegnazioni, intolleranza, solitudine, sia degli adulti che della figlia più giovane. Infatti “l’infanzia accadeva“ e già questo verbo dice tutto sulla inevitabilità degli eventi, il subire il clima in cui “la madre innaffiava vasi senza polline“ e “il padre tratteneva la fine/ fermo dietro una porta“. Tre anime che vivono assieme quella che si avverte come una tragedia silenziosa, ove il tempo passa inevitabile come in questo splendido finale della “la terra degli invincibili
La bambina sognava, la bambina sognava /. La madre taceva./ Il padre teneva il cuore del mondo/ chiuso a chiave in una scatola rossa./ La pioggia cadeva, spaccava la terra./ Sui rami gli uccelli tacevano/ per non far sorgere il sole //.
Oggi che non si fa altro che parlare del come supplire nell’animo dei figli l’assenza o la carenza della figura paterna mi domando quanto siano costato in sofferenza all’ autrice mettere in versi queste prime pagine della sua opera, e quanto sia dolorosa tuttora la memoria di quei tempi quando:
“da bambina baciavo la fronte grigia dei morti/ -L’importante era che avessero gli occhi chiusi/, le narici immobili, poi non avevo più paura “…//
Ricordo bene anch’io quei tempi in cui anche nel mio paese c’erano le bambine che come dice Raimondi “Ai piccoli funerali di paese/le suore mi mettevano un mantello azzurro/ un cappello in testa,/ e sfilavo dietro la bara insieme alle altre: trenta bambole vestite dalla festa/ con occhi che brillavano e scarpe di vernice”
Questa poesia si conclude con due versi che fanno rabbrividire per la loro crudezza, al punto che ci si domanda come sia potuta diventare serena -se lo è diventata- la vita da adulta della nostra autrice, come avrà dimenticato il peso di quanto espresso con questi due versi finali :
“trattengo in me un poco di morte/ come fosse un regalo d’amore“
Una bambina che cresce lentamente, giorno dopo giorno, dentro “quella macchia di febbre/ che chiamavano infanzia“, aspettando la sera “la mamma che tornava dalla fabbrica “/ le mani stanche e due baci distratti” e con una presenza assenza di un padre che “seduto in disparte mio padre fumava/ pensava ad un’altra“.
Dicevo in apertura che senza i ricordi non sarebbe possibile fare poesia, specie questo genere di poesia, schietta, una confessione pubblica, dalla quale emergono vivide immagini di interni di famiglia impressionanti per loro crudezza, come questa che mi ha fatto pensare al quadro “bue squartato“ di Soutine.
La poesia ritrae una scena abbastanza frequente nelle case di campagna ancora oggi, si intitola Brodo digallina e descrive l’eviscerazione di un pollo con queste immagini che posseggono una precisione coloristica eccellente: il piccolo cuore del pollo, le uova in formazione/ lo stomaco che era sempre azzurrino
Toglieva gli intestini ancora caldi/con la mano che brillava./ Metteva in fila il piccolo cuore, i grappoli di uova/ lo stomaco azzurro tagliato a metà//,
poi prosegue dicendo, e qui vorrei invitarvi a soffermarvi sulla precisa descrizione dei gesti e sul realismo di quegli occhi del pollo sempre aperti, e del passaggio alla “strinatura “ che toglieva con il fuoco la pelle alle zampe e gli spuntoni di piume:
“C’era il taglio deciso del collo/ la cresta rovesciata/ e quegli occhi rotondi, sempre aperti./ Poi mamma bruciava la ultime piume,/ metteva le zampe sul fuoco //”
La scena si conclude con i gatti che giravano attorno alle gambe sia del tavolo che dei presenti, e l’autrice che osservava l’azione sollevandosi sulla punta dei piedi vista la sua statura di bambina:
“La pentola schiumava/ la fame dei gatti strisciava fra le gambe/e io restavo in punta di piedi in silenzio/. Le mani appoggiate al bordo del tavolo/ fissavo quel filo rosso cadere/ le mani insanguinate di mia madre//
Forse molti bambini ormai anziani come me, ritroveranno una parte della loro infanzia dentro questa poesia, che, unica nell’intera raccolta, sembra allontanarsi dall’immane presenza-assenza di un padre sempre sul punto di lasciare casa, ed una madre “in troppe faccende affaccendata“.
La poesia che invece dà il titolo alla intera raccolta sembra costituita da un serie di fotogrammi da film di Truffaut o di Godard talmente è chiara, piena di desiderio per qualcosa che l’autrice avrebbe voluto provare prima o poi, e racconta di una coppia che “vivevano all’ultimo piano/le stanze piene di sole/ la luce sparsa sui cassetti in disordine”, e, forse inconsciamente, spinta verso di essi da un carenza affettiva che riscontrava nel suo ambito casalingo scrive “mi piaceva guardarli / quando si baciavano come nei film/ o mentre mangiavano /. Poi, un mattino li scopre a letto, ove “i corpi brillavano nella penombra“ e “li ho guardati dormire / poi sono tornata a giocare in cortile“ e si affaccia dentro questi versi finali una atmosfera che mi ha ricordato una particolare poesia di Pavese, credo s’intitolasse Delia, perchè anche la Raimondi sa scrivere e parlare come certe personaggi femminili di questo autore, dicendo: li ho guardati dormire./ Poi sono scesa a giocare in cortile/ e pensavo che anch’io, da grande,/ volevo qualcuno che mi tenesse sulle ginocchia/, ricevere piccoli pezzi di pane dalle dita di un uomo//.
L’assenza del padre è il tema dominante di tutta l’opera, è una confessione d’amore e di sofferenza che la fa scrivere, ricordando il giorno della Prima comunione:
“lei è in fila con le altre/.Ogni tanto gira la testa/, cerca il viso di suo padre tra la folla/. Ma in chiesa c’è solo la madre “/ Lui odia i preti, non ha voluto entrare/ E’ la fuori che fuma/ Cammina sulla pietre del selciato/ con il passo di un messia//…
Ma “dentro le brucia una mancanza// di colpo gira la testa/ scorge il viso del padre nella penombra/ Lui sorride / le fa un piccolo cenno con la testa //
Mi è parso di ritrovare anche echi di certe figure femminili degli ultimi lavori di Ivan Fedeli, in questa poesia dal titolo “Linda“ nella quale è ritratta una donna non più giovane, che “si tingeva i capelli biondo cenere” e che la madre della bambina definiva “che era una vergogna-/alla sua età/ e poi tenersi un ragazzo come amante“.
Linda era una donna sola, “con figli ormai grandi e tutti sposati“ e che “le veniva un po’ paura e restare sola“ e in certe sere “mi portava a dormire nel suo letto” ,… e a letto “chiudeva gli occhi/ E in qualche modo io sapevo/ che Linda aveva i seni freddi/, che quella notte si sentiva sola/.
La prima parte di questo bel libro dedicata ai ricordi della prima adolescenza si chiude con una poesia dal titolo “Il pozzo“ nella quale l’autrice rievoca quando “mia madre racconta del pozzo che avevamo in cortile“ e “lei andava in fabbrica che ancora dormivo“ e l’affidava alle cure di un nonno che “puzzava di vino“ e la madre “alle quattro precise, cominciava a star male, pensando che giocavi in cortile/ ti vedevo affacciarti sul pozzo/… e trovarti annegata là dentro.
La solitudine di questa bambina, lasciata sola a casa fin dalle prime ore del mattino, affidata alle cure di un anziano che “sedeva in cucina con una bottiglia di vino/ Piangeva/ Pensava alla moglie sepolta”//ai pesci del Po e a un cane chiamato Milord “ /e che cantava “addio sogni del passato…/ la porta ad una conclusione amara, dolente, quasi un giudizio poco clemente, come spesso fanno i figli nei confronti dei genitori e dice
“Vorrei chiederle come ha potuto rischiare,/ come ci si possa giocare la vita di un figlio/ per uno stipendio”. Molto acuta come precisione dei ricordi è anche la parte del libro che va sotto il titolo ”Riti di passaggio“, che si apre con lo sgomento causato dall’arrivo delle prime mestruazioni in “primo sangue“ in cui lei si sente “la cerva ferita/“ e di quella sera lei ricorda “il pianto della bambina/ e il mio sangue di donna/ un sangue rosso cupo, liscio e lustro come una rosa“.
Un altro ricordo nitido e preciso come quello dell’eviscerazione del pollo in cucina, è anche quello della visita nei cortili del barbiere che vi si recava per il taglio a domicilio dei capelli agli adulti ed anche delle ragazzine e rilevo un verso che trovo stupendo, quando descrive il gesto dell’uomo che dispiega la tovaglia di protezione : “con lo schiocco che fa la mantilla del torero“, vi trovo che la precisione di questa descrizione risuona anche nelle nostre orecchie come risuonava allora in quelle di questa adolescente di intelletto curioso e precoce, che “perdeva il peso delle trecce/ il peso del mio sesso“.
Era diventata un “Efebo con la testa rasata./ Ero il maschio che mio padre/aveva sempre sognato: un maschio senza pene/ senza traccia di barba, con appena un inizio di seno”.
Un’altra figura pavesiana di donna è quella che appare nella poesia “pomeriggio al lago“, che “prima di sera si infilava i jeans/ poi saliva con Claudio sulla Gilera“. I due giovani fanno le cose che erano tipiche di quegli anni “si fermavano lungo la strada a mangiare l’anguria” e “più tardi facevano l’amore in qualche angolo di prato.”/ ma la ragazza era donna irrequieta /e , pensava che a Claudio non lo amava, forse domani glielo diceva //. Più pavesianamente di così non si può far parlare un personaggio femminile dal verso che incanta e canta.
E finalmente la ricucitura con al padre avviene in occasione di un incidente automobilistico nel quale la nostra autrice esce miracolosamente illesa, ma che serve per farle recuperare interiormente la figura paterna : “distesa sulla barella, ho sentito la porta aprirsi,/ poi ho visto il viso di mio padre:/ era la bestia impaurita, appena scampata al coltello./ La testa infilata nella fessura/ mi fissava come fanno i bambini di notte/ quando non dormono// Fece un cenno con la mano/ Sorrideva. Forse aveva negli occhi la stessa sorpresa/ di quando ero nata./ Forse era quello lo sguardo/ di quando mi aveva vista sporca di parto/ appena arrivata/
Il rancore, l’ostruzionismo, il dialogo muto con il padre si avvia alla conclusione, la tensione si scioglie e la Raimondi scrive in “la bella estate“:
… non si muta il corso di un’estate/ né il fiorire dell’orto, né gli occhi grandi dei bimbi/ che ti guardano e vogliono/ solo vogliono senza capire/. Ma adesso comprendo tutto, papà/. Solo adesso, con la mani ferme contro l’orizzonte./ ora che il cerchio della tua vita si chiude nella mia/ e fuori c’è un notte che scalpita,/ un cielo teso inchiodato agli alberi//
La maturità induce a lasciar decantare i rancori, le incomprensioni e la Raimondi affida la conclusione di questa parte del suo libro, quella che la riguarda in prima persona per tutto il bagaglio di amarezze a delusioni accumulate, a questa poesia che titola Il passare degli anni che riporto per intero per non compiere una ingiustizia alla sua bellezza :

Sono terribili le notti
quando il corpo invecchia,
la case si svuotano,
come del resto i letti, e le voci
e le giornate.
Poi non sarà più la scodella di latte
o la pioggia che batte e batte alla finestra,
e noi chiusi nella calda placenta dell’infanzia.
Più non bastano canzoni di re sciti e favole arabe
a illuminarci gli occhi nella sera.
Abbiamo strappato pagine intere di vita
e le teniamo accartocciate nelle tasche.
Stanotte le stelle pesano sul mondo.
Fuori il vento scuote gli abeti
Sul tavolo forbici aperte,
gusci di noci,
chiodi ossidati

Raimondi si riconcilia con entrambi i genitori e lo fa con versi ricchi di compassione, di umana comprensione per gli errori commessi, per le disattenzioni, e prende addio dal padre con i versi della poesia Foto in bianco e nero: resto nel vuoto dove mi hai lasciata/ dove ho imparato a fermentare/ la linfa solitaria del mio sangue./ Ho tenuto per anni/ il cuore avvolto nella carta velina/ Non sapevo si chiamasse dolore/ fino a quando qualcuno pronunciò la parola/ e da’ anche addio alla madre nella poesia intitolata Madre, scrivendo: …Brillano per un istante i nostri nomi/ ma presto saremo un fuoco spento, mamma/ Nel sangue scorrono correnti amare/ ma so che adesso è tempo/ di lasciare entrare in me soltanto il bene//
E’ un libro questo di Raimondi che non si può passare sotto silenzio, perché accade poche volte di incontrare versi cosi intrisi di sincero dolore ma espressi ed esposti al lettore in modo che fa veramente onore alla grandezza di questa artista.

Luigi Paraboschi

20 settembre 2018
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dagli APPUNTI DI LETTURA
di Ennio Abate

 L’ultimo libretto di poesia di Luigi Paraboschi si presenta in toni raccolti e dimessi già dal titolo non casualmente in minuscolo, che viene ripreso e chiarito in «Il ghiaccio della gronda»: le nostre esistenze sono abiti stropicciati, non stirati, non più di festa; e li indossiamo (metaforicamente: indossiamo noi stessi, cioè i nostri corpi-maschere), come per una recita solitaria o davanti a pochi spettatori noti ( molte le dediche a persone care ), ai quali dire l’essenziale della nostra vita e di vicende, dalle quali prendiamo ormai pacatamente «a caso ciò che serve». Chi parla fa un bilancio di vita e questa raccolta è un po’ il «De senectute» di Paraboschi. Vi contempla un se stesso ormai compiuto innanzitutto nella sua memoria. E richiama a fare lo stesso al lettore. (E a me in particolare, suo quasi coetaneo, che l’ho conosciuto da pochi anni e subito – anche se finora non ci siamo incontrati – l’ho sentito per molti tratti amico-fratello, molto vicino alla parte giovanile del mio percorso: uno, mi sono detto talvolta, che avrei forse potuto essere io, se non mi fossi strappato alla mia città di provincia e sporcato con il ’68-’69, gli anni Settanta, le periferie, le sirene rivoluzionarie). […]

il resto potete leggerlo qui

Cerchi ancora la pietra d’angolo

Cerchi ancora la pietra d’angolo
uno scoglio sul quale edificare
ti lasci scarnificare da relitti
che pensavi sepolti nel cemento
in un punto profondo dell’oceano.

Anche i fiumi carsici all’improvviso
si sotterrano come fai tu e fanno perdere
le tracce. Pure se non sono aridi di acque
si rifiutano di finire in mare
e annegano nel sottosuolo
quasi a pentirsi d’avere amato il sole

poi – senza preavviso – riappaiono
più a valle ad irrigare altri terreni
meno sassosi di quelli di montagna.

Le scorie invece no, non sedimentano
con il tempo, rilasciano veleni tossici
rendono amare le acque attorno ai sogni
che la vita porta in giro e che coltiviamo

anche se spesso ci stanno troppo larghi
come un paio di scarpe nelle quali
il piede s’è smagrito e le trasciniamo.

Vecchia parte di città

All’occhio resta la ferita dei vecchi muri,
il rosa antico steso sopra la parete smossa
di una camera da letto, il verde salvia forse
di un soggiorno, tracce sbiadite di progetti.

Tegole impilate con meticolosa cura
all’angolo del cortile, testimonianza
di quasi un secolo di piogge riparate,
foglie raccolte in fondo alla grondaia
piena di sabbia che il vento ha raggrumato
per smerigliare il cotto e farlo spento.

Pochi i suoni, un silenzio piatto
dietro le persiane che un sole addenta
tiepido in questa vecchia parte di città
dove la massicciata arroventa
le lame dei binari di stradelle strette
dentro le quali la luce taglia i muri
come in certi quadri di Morandi.

Cortili angusti per i troppi vasi d’oleandri,
cancelli dalle colonne sormontate
da leoni in gesso, balconi liberty
dai quali sgocciola una pioggia di gerani.

Così ti vivo, strada della città vecchia
dentro un languore di primavera tarda,
sotto un cielo dalla calura triste
che stonda i sassi nel giardino all’ombra
ma non uccide l’erba, ove nervosa guizza
una lucertola che s’abbevera alla pozza
sotto il fico dalle foglie come palmi aperti.

Raccontami l’acqua che è già corsa

Dici che temi la vita virtuale,
lega le mani e non ha confini, ma
quella che trascorriamo è più reale?

Pensi che l’occhio in cui ti specchi
non ti nasconda ciò che osserva
quando non ci sei o che la mano
che ti fruga sia più sincera ?

Forse sei nel vero.

È già difficile indovinare il tempo
che farà nel pomeriggio, come capiremo
se e quanto diromperà una parola
quando sappiamo già che il fruttivendolo
ruba sempre sul peso mentre col mignolo
allontana il piombo sopra l’asta della stadera?

Raccontami invece l’acqua ch’è già corsa
le radici che hanno dita lunghe
e le campane e i suoni che ascoltavi
prima che la vita ti accorciasse la cavezza,

parlami anche di tutti i padri
che fai sedere sulla tua panchina
e di come li guardi e li perdoni
dimmi la sofferenza di non avere
che memorie in bianco e nero
e lasciami cambiare le mura che cerchi
di costruirti attorno – fortezza
senza ponte levatoio – con semplici mattoni
o sassi uno sopra l’altro e con una
porta dove chi entra resta e non ti lascia
dubbioso al chiavistello nella sera

e poi descrivi le siepi che circondano
i tuoi sogni senza recinzioni e i fiori
che non puoi cogliere nei campi del ricordo.

Il vento che ci spinge ai margini

Il vento che ci spinge tutti ai margini
impedisce d’arrestare le distanze
e dentro il giorno resta la voglia
di parole tonde senza angoli:

“fiore, bue, cane, girasole, gatto”.

È la gratuità a fare meno arido
un incontro tra due cespugli
rotolanti dentro quel vento

la capacità di pronunciare
solo parole brevi crea una storia
e incide la pietra che grava
sopra ogni speranza.

Concerto per donna sola

Ci fu un tempo in cui mi frugavi dentro
come questo vento che accartoccia il fogliame
al fondo delle grondaie prima che piova.

Allora visitavi le mie contrade devastandole
con la tua arroganza dentro errate latitudini
e nuvole d’amianto sotto cumuli di piombo,
corteggiavi lo scuro caffellatte dei miei seni
ed i miei fianchi erano stoppie di collina
per le tue mandrie in corsa di rapina.

Senza parole, di gesti squilibrati,
quel transitare dentro me, lasciavi
nebbia ed umidore, rabbia dolorante
soffocata dentro un grido oscuro e fondo
nella gola, sabbia arroventata dal tuo ansimare.

Così hai lacerato la mia carne ed i pensieri
di quella giovinezza che occhi forestieri e nuovi
leggevano dorata, questa figura era diventata
la trama di un tappeto afgano che invece bruciavi
come un kilim polveroso sotto i piedi
del nostro amaro disamore, ed hai rubato anche
la mia passione per sezionare le tue povertà,
ma ora che sto frugando fra i miei detriti
provo rancore per quel supporti l’unico uomo.

Più non grido, soffoco l’angoscia di questa assurda vita
che talvolta mi scippi ancora all’inguine la notte,
urlo forte dentro me per l’abortita attesa di un amore
che non sia solamente lo spasimo di una tenia,
ma so che imparerò a conversare in una lingua
poco praticata, costruita con sguardi di sottecchi
e qualcuno finalmente carezzerà il mio muso triste
di cagna che ha riscattato il suo destino.

A un’amica

Sono deserte e vuote l’ urne dei forti,
le nostre Madeleines le dobbiamo avvolgere
nella stagnola per proteggerle dall’umidità
di questa stagione che annacqua, dilava
e infine omologa ogni velleità di differenza.

Porti per sentieri faticosi il peso
di un silenzio e di distanze, ti domandi
se e quando arriverai alla tua baita,
ed io ti rispondo con la scorta
del pensiero di coloro che s’erano illusi
d’alleviare la durezza del nostro scorrere
usando le parole dei Maestri.

Inutilmente

ci appartiene qualche verso, il fruscio
di un languore nella memoria,
il respiro di chi una volta s’è addormentato
nel nostro accanto, la tenerezza
di una mano che s’inumidiva,

cose, immagini di gesti, parole
ancora, per accompagnarci
verso quel silenzio dal quale
per molte volte abbiamo
tentato di allontanarci.
———————————————–a V.

Le vecchie litanie

Ho lasciato sopra gli scalini di casa tua
quattro versi sciolti nel poco miele che restava
della mia estate di san Martino, come
l’obolo della vedova, tesoro tenuto in grembo
frutto di rinunce e non ciò che le esuberava.

Conservali per quei momenti in cui s’affaccerà
alla tua finestra un velo di rimpianto
non rileggerli con distacco, sono il prezzo
che anche tu paghi all’illusione che ci fa sperare
al di là del suono dolente delle campane.

Io ripeto gesti ed azioni collaudate,
intono vecchie litanie, mugugno cori muti
di paturnie, ma tutto avverrà com’è giusto sia
il sole completerà il suo giro, l’asse della terra
non subirà inclinazioni, ed il gelo sopra i fili
del nostro bucato non si scioglierà perché
è senza luce questo giorno d’inverno
che altri hanno già battezzato dello scontento.

Ne passeranno ancora come questo, con pause
brevi come quelle dei nostri pasti, e se qualcosa
s’avanzerà dentro il piatto diremo con disinvoltura
di non avere fame, e tutto sarà più facile:
ci basterà dimenticare di non avere vissuto.

Il silenzio è da catturare

Soltanto quando avrai osservato a lungo ogni paesaggio
sperando di catturarlo con le pennellate che distendi
quando avrai girato l’interruttore tra te e il mondo
e sullo schermo apparirà la linea piatta del confine,
——————————————————–tu saprai
————————————————-d’essere vivo
e non ti lascerai più condurre in giro dal rumore.
——————————————————–Allora
———————————————vi sarai vicino,
——————————————————–allora
avvertirai che quel brusio si è assopito dentro te
e potrai toccare la consistenza del silenzio.

Nel buio la tua pena si farà più lieve
sciolti i lacci che trattengono il flusso del respiro
ascolterai ogni eco che s’allontana dalla mente

e quando scoprirai che nell’accettarti
figlio d’un Padre silenzioso ma non assente
sta l’inizio e la fine d’ogni ricercare,
la tua storia diventerà un libro chiaro.

Allora, non prima

Allora, non prima, sarà il non detto,
la parola non uscita il suono tronco
il gesto generoso non compiuto, a fare aggio
su quel poco che la nostra illusione
penserà d’aver portato a compimento,
e non servirà il rammarico o il disappunto
per le scelte troppo a lungo rimandate.

Le nostre non azioni, l’indifferenza,
quell’accidia sottile che accompagna sempre
la mancanza di carità saranno lì
oggetti di natura morta per aridità
quadro dipinto con poca conoscenza
tappeto sopra un telaio privo di movimento

e non si potrà disfare alcun disegno
o cambiare di posto ai componenti,
ma sulla nostra assenza prolungata
si stenderà il giudizio o la chiusura.

La non appartenenza

Trapassa anche te il malessere
della non appartenenza come se
viaggiassi dietro vetri oscuri?

Al risveglio ti succede
d’indossare abiti non tuoi, poveri
indumenti che coprono le debolezze
e fanno vergognare dei pensieri?

Oppure ti sembra che la vita
talvolta sia un fiato tronco,
e cerchi il respiro del giorno
dentro gli occhi di chi incontri?

Bivacchiamo con addosso squame
congelate da troppi inverni d’astinenza,
lasciamo tracce di morte mascherata
da vitalità, lanciamo l’illusione
d’essere gli anelli forti d’una catena
ma la secchia che gettiamo in fondo
al pozzo non porta su che fanghiglia e sassi.

Il malessere che trastulliamo come fosse
un capogiro non è un calo di pressione
per il quale può bastare una zolletta

ora che il fumo dei vulcani s’è allontanato
resta questo ansimare persistente che qualcuno
-per mia ironia- ritiene tosse cardiopatica.

 

Luigi Paraboschi
nato a Castelsangiovanni ( Piacenza ) il 21-11-1938

2018- pubblicazione presso l’editore Terre di Ulivi di lecce della raccolta
di poesie “ …….e ci indossiamo stropicciati “.
2018 – Finalista al premio “ Claudia Ruggeri “ Bologna
2017 – terzo posto al premio di poesia Va’ pensiero di Soragna per poesia singola
2016 – finalista al premio “Città di Forlì “
terzo premio al premio Patrizia Brunetti di Senigallia
2015 – segnalazione finalista al pregio Giorgi – Sasso Marconi
2015 – segnalazione speciale al premio “ tra secchia e panaro “
2014 – ottobre secondo classificato al premio per poesia inedita “ le quattro porte “ di Pieve di Cento ( Bo )
2013 – ottobre : 1° classificato al 32°premio per poesia inedita città di Quarrata ( Pistoia )
2011  : terzo classificato al premio per poesia inedita “ tra Secchia e Panaro“ Modena
ottobre : menzione al premio Soragna per poesia singola.
2010 ottobre – primo premio al concorso “ Violetta di Soragna “ per la sezione “ libro edito con il volume “ Geometrie precarie “
maggio -terzo premio per la sezione silloge di poesia al concorso Mezzago Arte “ a Mezzago ( Milano)
maggio – Secondo premio per libro “ Geometrie Precarie “al concorso
“ Toscana in poesia “ di La spezia.
2009 –Settembre – primo premio poesia inedita “ Le quattro porte “ Pieve di Cento
( Bologna )
Giugno –primo premio per silloge inedita al xxxiv concorso” Casentino “ di Poppi ( Arezzo ) con pubblicazione del volume “ Geometrie precarie “
2006- 1° premio pari merito al concorso per poesia inedita all’VIII concorso “ Giacomo Natta “a Vallecrosia ( Sanremo )
2003 – 1° premio assoluto per la silloge di poesia “ Controvento “al concorso “Città di La Spezia”

Ursprunglichen Leben

5 luglio 2018

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 poesia e pittura in dialogo
Martina Dalla Stella, Silvia Secco e Claudia Zironi

 

Due donne, anzi tre sì, tre amiche che celebrano il fatto di essere tali con un libro che quando  lo si chiude non si sa  se ti abbia toccato più Claudia per la concretezza che le fa scrivere “ non basta dare il nome / alla rose, Silvia, esse/ devono avere consistenza/ e aspetto al cospetto/del pensiero, la rosa sta nel nome/ esistendo pensata quando/ nome e rosa insieme/ si sostanziano, quando/ anche la rosa a te pensa //, oppure Silvia che vuole sottolineare la sua fragilità qui : “  Occorre dire alla rosa che è rossa/Chiamare ROSA la rosa. L’intera/ rosa. E la rosa sfogliata, il petalo chiuso nel libro/ una memoria del tatto, l’odore/ scampato al gelo, lo stele reciso/ all’altezza del nodo. Non termina/ mai l’essere rosa l’ultimo lembo/ rimasto a sfioritura e non è rosa/ già il seme della rosa ? Vedi, cose/ così come questa mutano/ se ne muti una sola consonante,/ e una c fa comune il nome proprio./ Nella distrazione la rosa smette “// o anche la pittrice Martina che nei suoi quadri stende talvolta velature sottili come ragnatele, come quando ritrae gli “ alchechengi “, o sa rendere tutta la tensione dell’attesa quando dipinge una lunga fila di uccelli sopra un filo nel quadro “ aspettando per migrare “, ed aggiunge a titolo esplicativo di un sé timorosamente nascosto “ anch’io così “.

 

Tre donne giovani che dichiarano fin dall’inizio, dall’esergo del loro lavoro,- citando un verso del poeta Frost che dice- “ due strade divergevano in un bosco ed io-/ io presi la meno battuta/ e questo ha fatto tutta la differenza//  che sanno ove vogliono dirigersi e lo fanno bene questo viaggio poetico che ci parla del loro modo di porsi nel mondo in cui vivono e viviamo.

 

Parlano di sé, dei propri desideri, delle loro passioni, anche le più dolenti come fa Silvia in questa sua : “ Senti come vengo a chiedere. Come/ti chiamo : mani e nome. Che sai/ montare alta, marea e piena, allagare/. Guarda come mi riduci: fradicia e/ bellissima, come mai sono stata./ Toccami lì dov’è la ferita e lì/ entra/, slabbra e straziami che sai/ dei brividi in agguato sulle scale/ dei lividi che poi dovrò coprire/ quando te ne andrai e dovrò sorriderne./ Scavami e trova. Le dita di chi ama/ si sfiorano sul libri e sotto i tavoli/ e tu lo sai che sono scalza e nuda/ davanti a te come davanti al mare//, ma anche Claudia si metta a nudo in questa sofferente : “  L’acqua cade sempre su altra/ acqua, seppure in altra forma/ e non si chiede il tempo// Sarò prima di te ombra, quando/ starai seduto davanti a casa/in attesa del tramonto. Ti coprirò/ i piedi come capelli, le ginocchia/ come accucciandomi. Porterò/ una nuvola di pioggia dall’oriente/umida e calda di monsone, profumata/ di zenzero e vaniglia. Risalirò / le cosce tue/ alle venti e trenta della sera.// Saprà poi l’acqua come amarti.//.

 

Ma non è il loro soltanto un canto autocelebrativo, dentro il loro scrivere è anche forte l’attenzione al decadimento della nostra umanità, l’ esserci ridotti come pietre su cui, scrive Claudia “ si era evoluta una ben strana razza “ che “ non poteva volare “ ed era “ dall’intelligenza non ben orientata “ in un tempo in cui “ ciascuno si credeva migliore degli altri“, e conclude la Zironi “ il nostro silenzio li annientò. A nome di tutte le pietre/ ancora oggi ce ne dispiace “. Ma pure la Secco non nutre molta fiducia nel nostro futuro quando scrive : “ Le anziane madri -le mani sul ventre/ che ha custodito- hanno nozione/ del tempo. Ci cantano all’orecchio/ che ne avremo, da morte, per riposare/ la quiete concessa finalmente/ la coerenza dell’ultima parola/ fissata nell’eternità, quando saremo pietre/ purissimi diamanti, e non avremo pietà/ di nessuno. Allora, senza gli occhi, senza l’opinione/ saremo trasparenti esseri di perfezione./ Sceglieranno per noi i fiori delle spose. Poi/ dopo le cerimonie, ci dimenticheranno .//

 

E saremo dimenticati anche noi umani, pietre inutili e aride per colpa dell’indifferenza al male che contraddistingue questa nostra storia recente, piena di sofferenza urlata ma inascoltata, ricca soltanto del nostro silenzio colpevole nei confronti dei tanti che ci chiedono accoglienza.

Ecco cosa scrive Claudia : “ tutti in fila/come bambini/.Tutti in fila/ come a scuola/. Fate i bravi soldatini !/ Mettetevi i fila per la marcia/. Alla fermata/ ben educati/ tutti quanti formate la fila/. Tutti in fila sulla banchina/ uomini e sogni/ nei sacchi di plastica “,  e aggiunge Silvia sulla stessa pagina :
“ dove il mare arriva siamo in tredici/ fradici a guardare tredici paia/ di piedi nel fuoruscire dai sacchi/ sacchi di sogni e di sale/ sabbia nei tredici sacchi/ sabbia e sale e l’acqua in luogo dell’aria/ a riempire i polmoni. E i piedi/ tredici paia : / trattati somatici adatti alla platea / dei telegiornali. Tredici paia/ uguali in tutto e per tutto al mio paio/ da lontano da dove li guardiamo/ scordarsi dei passi, annerire./ Degli ultimi tredici passi/ chi ci verrà a dire ? E dei nomi ? / Tredici nomi gridati, pianti/ pensati, gridati nomi affidati/ a un dio in tutto e per tutto uguale/ al mio: come lui sordo, dove il mare/ giunge ed aggiunge al tredici al totale.//

 

Ci si allontana da questo libro con il piacere di aver fatto ancora una volta un incontro fortunato con queste due poetesse che in molte  altre occasioni hanno già dimostrato tutta la loro bravura, ma resta un poco di amaro in bocca per la sottile vena di tristezza che sta alla base di quasi tutti i  loro pezzi, ed anche gli oli di Marina Della Stella ci lanciano unghiate dolorose tutte condensate in un volto di madre  ritratto superbamente alla maniera della migliore pittura espressionista.

 

Non mi resta che aggiungere il mio apprezzamento per la veste tipografica del libro, originale per la sua dimensione orizzontale anziché verticale come comunemente si fanno i libri, per i colori che sembrano aderenti in modo perfetto ai quadri, e per il gusto nella scelta delle poesie messe in lista.

Luigi Paraboschi 26.6.2018

 

 

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Silvia Secco e Claudia Zironi condividono da anni la rappresentazione delle loro singolarità artistiche. Il recente progetto di poesia in dialogo, Ursprunglichen Leben, è scaturito da esperienze di recital comuni che si sono tenuti nel 2017 a Messina e a Ercolano e nel 2018 a Vicenza. Le poesie di Claudia e Silvia dialogano tra di loro in sequenze multivoce, ripetizioni, silenzi, toccando temi filosofici, civili e amorosi. I versi sono accompagnati e scanditi dalle esecuzioni musicali di giovani artisti. Durante il recital viene coinvolto anche il senso della vista, mediante la proiezione dei dipinti di Martina Dalla Stella, con la quale le poete da tempo collaborano, che si unisce al “dialogo” in modo assolutamente pregnante. Dal progetto del recital è nato un “libretto di sala”, questo vero e proprio piccolo libro d’arte, firmato Edizionifolli, che raccoglie i testi di Silvia e Claudia ed è illustrato a colori con i dipinti di Martina.

 

 

“Dispacci” Lettura di Luigi Paraboschi

11 gennaio 2018

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              Dispacci
              Narda Fattori
              L’arcolaio 2016

Scriveva la Fattori in una precedente raccolta  dal titolo “ la vita agra “, volendo lasciare un “consiglio- avvertimento” alla nipote

se non hai passioni e sogni grandi
  resti all’anagrafe solo un rigo nero “

ed in questo ultimo lavoro, dal titolo significativo DISPACCI, non fa che ribadire il concetto sopra esposto, quello della passione per la scrittura e per la lettura che sembra essere dominante, come scrive in questi versi della poesia Viaggi

……….

nei libri il viaggio bambina fu con Sandokan/

con Nietzsche più tardi e saputa ma non ho imparato/

a discriminare il grano dal loglio/

 

Da questo nuovo cammino che ha intrapreso essa invia poesie nelle quali parla di sé  spesso in modo diretto, alludendo al suo modo di aver vissuto, e usa il titolo che ho precisato, forse perché tradizionalmente si adotta il termine “ Dispaccio di agenzia “ per indicare un  sintetico rapporto giornalistico o di agenzia giornalistica, quasi un avviso, e talvolta anche un breve rapporto militare dal fronte di guerra volto a condensare gli avvenimenti e ad aggiornare il ricevente sullo “ status quo “ di quanto accaduto.

 

E l’aggiornamento di Fattori è un riassunto composto da tante immagini, tante sensazioni, tante emozioni tra le quali direi che i motivi conduttori girano attorno ai temi degli : affetti perduti- solitudine e del distacco-  delusione nei confronti delle aspettative e dei rimpianti –  la fede e l’immigrazione.

 

Uno dei primi dispacci lo si incrocia nelle poesie di apertura, dedicate al padre alla madre ed alla sorella, tutti citati con nome e cognome, ma credo sia stata l’assenza ( forse ) troppo repentina della figura del padre a rendere ancora forte e vivo il bisogno di aiuto nel cuore dell’autrice, e questi sentimenti così ben condensati nel corso della poesia “Lui” possiamo viverli attraverso la  sintesi racchiusa in  questo verso finale:

 

 ci vuole la mano di una padre per un bambina “

 

ma se la mano del padre è mancata, anche il legame con la madre cui fa cenno nella poesia “ e tu madre “ ( forse ) non è stato portato avanti troppo a lungo  nel tempo, come  possiamo leggere qui :

 

il nodo si sciolse e molto passò/

del bene e del male/

nel coagulo nudo dell’essere vivi/

 

ed infine c’è la figura della nonna, evocata dalla poesia “ Vespro “ che “ muoveva piano la labbra arse/ e si segnava al vespro-  e che ha lasciato un vuoto interiore nell’autrice  da indurla a concludere  così :

 

io ormai dico crepuscolo e già non vedo “

  
Ma agganciandomi  a questo “ non vedo “ vorrei riprendere altri versi raccolti dalla raccolta  precedentemente citata “ “la vita agra”, che suonavano :

 

 

Perché se sopravvivere è una fortuna

                     allora il prima e il dopo la vita

                   appartengono al segreto

                   di una divinità terribile e troppo umana

 

per giungere a questo breve passo della poesia  di questa raccolta“ Enigmi “ che dice:

……………………………………………

mi restano mani nude inabili alla poesia/

restie alla preghiera /

…………………………………

la mosca unisce due zampine all’interno/

della ragnatela- Vanamente prega/

 

E questa mosca che “ vanamente prega “ unendo le zampine è la stessa  “ mosca “ che dirà nella poesia “ Single “

 

misuro a spanne la dimensione/

                      della mia anima/

non più ampia di una tovaglia/

 

e concluderà la stessa poesia affermando

 

La mia anima è più piccola della tovaglia/

poggia-piatto all’americana/

…………………..

single per non dire sola

 

E’ un’amara conclusione quella di questa “ mosca “- per giunta “ single” – una conclusione amara ma lucida, quasi impregnata di disperazione, come si può leggere nella poesia “ la forma del finire “ dalla quale stralcio alcuni versi .

 

 

finire dimenticando  il volo le ali/

lasciare che il niente pettini/

le piume e sostare senza fretta/

alla porta che non si conosce/

…………………………..

nessuno sussurro nessuna preghiera/

nel silenzio tondo la nescienza/

dell’essere stati del non essere più/

 

Parafrasando il titolo di un famoso romanzo americano oserei dire, (ma lo scrivo con il rammarico, cosciente di una realtà che vivo in prima persona), che questa non è poesia per …….giovani ; c’è molta amarezza,  una sofferenza chiusa, quasi senza speranza, di chi avverte lo scorrere del tempo e l’incalzare dei giorni, e le delusioni che derivano da una presa di coscienza del reale  sempre più avvertita con consapevolezza.

 

A conferma di quanto detto riporto parte della poesia Avvenne

 

Avvenne che inciampo’ sul primo scalino/

infausto incontro con la diminuzione/

…………………..

il corrimano era bastato fino a ora/

e passi studiati lentezze contro sole/

…………………………..

non ha re-imparato la rincorsa/

l’epidermide bruciata dallo sfregamento/

……………..

…………………

sta seduta in silenzio

lei che aveva sempre profetato

 

 

Ma  raggiunta una certa età, quando le condizioni fisiche non sono più quelle di un tempo, non si può non concordare con la Fattori : spesso quel corrimano che ha sostenuto per tanti anni le nostre illusioni ha ceduto sotto il peso metaforico dei “pensieri poco profondi” e lo scoprire che “i fiumi di un tempo si sono trasformati in fossati” può condurre alla conclusione  espressa  da questi versi della poesia “ la mia sera “

 

la mia sera è un albero con foglie residuali

 

che si accostano ai versi successivi dove risalta l’ incertezza fideistica  di quel “ brivido” che la coglie e lo sgomento esistenziale  di quel non so

……………………

la mia sera è una nuvola sfilacciata che s’allunga/

sotto la volta del cielo- s’attarda – guarda la terra/

che l’ ha generata e un brivido la coglie – non sa/

ancora se sarà brina pioggia o neve di peso lieve/

                                               o tracimazione/

 

 

Lo sguardo dell’artista è talvolta acido e sarcastico nei confronti della stupidità e della cattiveria di questa società, come nella poesia 2014-2015

 

2o13-2014-2015 abbiamo scavalcato/

il dosso del tempo ancora morte/

lutti cupidigie rapine e omicidi/

stradali cioè di umani in strada/

un’ammaccatura alla carrozzeria/

un mazzo di fiori sul ciglio/

                            del fosso/

……………………

Fra smartphone iPod e tablet/

vocifera la solitudine on line/

 

 

E concludo questa lettura stralciando qualche verso da questa poesia dal titolo Abbi pazienza perché essa ha, per me, un sapore amoroso forse involontario, quasi un invito  rivolto ad un partner immaginario, magari ultraterreno, ad un rapporto fisico che rassomiglia un po’ ad un amplesso  tristemente mortale

 

……………………….

Abbi pazienza ho navigato tanto/

la vela è stracciata e si beve il vento/

………………………..

 

prendimi quando il sonno/

mi picchierà sulle tempie e l’orologio/

sarà qualche minuto indietro/

una dimenticanza succede invecchiando/

aspetta ora rimedio…….sii paziente/

aspettami …..sarò qui subito subito./

 

Siamo così giunti alla fine della lettura di questi Dispacci e ne abbiamo riportato la sensazione del malessere dell’autrice che si estende anche all’animo del lettore il quale non può fare a meno di essere  coinvolto.

Quando si termina questo viaggio si deve riconoscere alla Fattori una lucidità di pensiero, una profondità nelle  considerazioni di poetessa e di cittadina-testimone del mondo  tali che diventa obbligatorio considerare questa opera un esempio attento ed alto di come sia possibile coniugare il valore letterario congiuntamente alla  poesia civile.

 

 

 

Luigi Paraboschi