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Giorgio Galli

16 ottobre 2018

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Editore: Il Canneto

dalla prefazione di Marco Ercolani

Titolo singolare, per un libro, LE MORTI FELICI.
L’ossimoro ci guida verso un enigma da cui sorge spontanea la domanda: come può una morte, la “fine” di una vita, essere chiamata “felice”? Il racconto più breve del volume ci suggerisce una spiegazione possibile:
«Morte di Icaro
“Dedalo dovete consolare, è lui che muore disperato. Io sono morto vicino al sole”».
La breve frase pronunciata da Icaro, una frase di gioia esaltante, contrasta con la tragedia conosciuta: il figlio di Dedalo, chiuso con il padre nel labirinto di Creta, si attacca le ali al corpo con la cera e vola via: quando il sole scioglierà, lui precipiterà in mare, morendo. Il breve racconto di Galli non omette la tragica fine ma la trasfigura e fa dire ad Icaro la sua felicità di essere “morto vicino al sole”: un enunciato gioioso, quasi eroico, che ricorda le ultime frasi vergate da Heinrich von Kleist alla sorella Ulrike prima del suicidio: «Immortalità, alla fine sei mia».
Questo rovesciamento prospettico traversa tutti i racconti del libro, che si divide in due sezioni: ISTANTI (L’orizzonte, Il nome, Radicati, Nella vita, Sparire) e STRADE. Proviamo a percorrere, rapsodicamente, le trame di alcuni racconti. Ghiat ad-Din, il poeta Omar Khayyām, chiede una brocca per bere, saggia la direzione dei venti, e si addormenta del sonno profondo dei Sette Sapienti. Turoldo, il cantore delle gesta di Orlando, si pente di essere stato così superbo da firmare con il proprio nome il suo poema. Ugo d’Orleans scrive versi con la sapienza dei teoremi di Euclide. Leonino e Perotino vengono citati come i primi musicisti medioevali di cui si ricordi il nome. Josquin Desprez non teme più la morte perché nella sua musica l’ha saputa modulare a più voci. John Dowland si confessa uomo gaio e vigoroso che ha scritto canzoni tristi per richiudere la malinconia in piccole fiale perfette e poter camminare poi allegro. Il pianista Rudolf Firkusny parla dell’appassionato amore del già anziano Janàcek, insonne e innamorato. Il direttore d’orchestra Antonio Guarnieri, di cui restano rarissime registrazioni, è descritto come un uomo in cui la volontà di perfezione e l’umiltà di sparire sono inseparabili. L’inflessibile Toscanini rivela la sua predilezione per il giovane Guido Cantelli, che morrà prima di lui, in un incidente aereo. Max Brod ci racconta che Kafka avrebbe voluto fossero bruciati i suoi racconti perché parlano di una infelicità che lui adesso, è lontano dal provare. Lo scrittore praghese Bohumil Hrabàl confessa: «[…] Me ne sto qui con la mia famiglia e i miei gatti, aspetto tranquillo la morte perché tanto sono finito e non ho niente da dire, certe notti mi addormento con la finestra aperta e allora sogno Egon o Vladimìr e poi più niente, sono sempre stato fuori dai giochi e me ne sto tranquillo ad aspettare la morte, qui Sull’argine dell’eternità».

Il libro esplora attraverso la finzione – l’appunto ritrovato, il racconto in terza persona, la lettera apocrifa – il segreto che molti artisti hanno dissimulato nella loro opera: una parola, un cenno, un pensiero, però determinanti, spesso invisibili, sempre anticanonici e “fuori canto”.
I temi di Giorgio Galli, simili a quelli già trattati nei racconti de La parte muta del canto (I Libri dell’Arca, Joker, 2016), ruotano attorno al mondo della musica e della poesia, e testimoniano l’ossessione prediletta dell’autore: suggerire nuove interpretazioni per vite ormai consegnate alla storia o all’oblìo. Il libro si appoggia costantemente a vite che furono: torna a dire di esse, dentro, non contro di esse. C’è, in questa scrittura limpida, rigorosa e turbata, un tornare sulle tracce dei morti per mettersi in ascolto del passato e correggere certe verità convenzionali grazie a intuizioni nuove. Si crea così una speciale “enciclopedia dei morti”, per citare Danilo Kis, dove i morti sembrano molto più vivi e radiosi dei nostri contemporanei e continuamente ci chiamano, ci parlano, ci raccontano la loro verità. Il libro configura un atlante poetico di artisti colti in un momento preciso: quello in cui la morte non è tanto la temuta catastrofe che distrugge la pienezza della vita quanto l’esito felice e necessario di quella specifica esistenza. Scrive Rainer Maria Rilke: «O signore, dài a ciascuno la sua propria morte, / il morire che viene da quella vita / in cui egli ebbe amore, senso e pena». E ancora Rilke ci soccorre quando, nei Sonetti a Orfeo, associa il rapporto con la morte, nel passato, alla conoscenza e alla capacità di sentire, nel futuro: «Solo chi con i morti il papavero / gustò, il loro, / neppure il più lieve suono / tornerà a dimenticare».
Il tema della “morte felice” è particolarmente icastico e intenso nel racconto dedicato al filosofo Ludwig Wittgenstein:

Morte di Wittgenstein
“Dite a tutti che ho avuto una vita meravigliosa.” Non esiste una morte più bella di quella di Wittgenstein. Non più struggente, più bella, col suggello di un messaggio di ringraziamento rivolto agli amici con francescana essenzialità: ”Tell them that I had a wonderful life”. Them erano gli amici assenti, them erano tutte le creature a cui Ludwig Wittgenstein voleva comunicare di essere morto felice. E la felicità, nella sua vita tormentata, consistette nel rinunciare a tutto tranne all’essenziale, nel sapere con certezza cosa era necessario alla sua vita materiale e spirituale e vivere solo di quello, rinunciando a tutto il resto. La storia è nota: poteva fare una vita da nababbo, fu maestro di scuola e si fece persino operaio. La vita di Wittgenstein non fu felice: fu felice la sua morte perché in quel momento sentì che non era trascorso alcun istante senza che fosse in linea con se stesso. E di questo volle far sapere a tutti.

Morte di Tintner
Georg Tintner fu sempre coraggioso. Veniva dalla scuola di Franz Schalk, uno dei grandi direttori del primo Novecento. E aveva la grinta anche lui di un grande del Novecento. Ma la stessa grinta gli impediva di scendere a patti coi nazisti. Andò via dalla Germania per non aver niente a che fare con loro proprio negli anni in cui avrebbe potuto costruirsi una carriera. Se fosse stato già famoso come Toscanini e Kleiber, avrebbe continuato a far carriera altrove. Se fosse stato accomodante come Karajan, sarebbe andato avanti con l’appoggio del regime. Ma lui ascoltava solo due cose: la musica e la sua coscienza. Diresse le sinfonie di Bruckner in Australia, le diresse in un modo nuovo, con un nitore tagliente e non col misticismo impastrocchiato con cui si è soliti dirigere quell’autore. Realizzò con orchestre minori interpretazioni che non sfigurano accanto a quelle di più celebri orchestre. E non rimpianse di non aver fatto carriera. Il valore è diverso dal successo. E quando seppe di avere un tumore, lo combatté per sei anni. Poi, quando seppe che non poteva più combatterlo, non volle morire da soccombente. Si uccise prima di diventare un uomo debole, prima di diventare un infelice e di rendere gli altri infelici. Ecco come morì.

 

Giorgio Galli è nato a Pescara nel 1980 e si è laureato in Scienze della Comunicazione. Scrive sulla rivista online Perìgeion e cura dal 2011 il blog La lanterna del pescatore.
Vive a Roma dove ha aperto la libreria L’Orto dei Libri.
Ha pubblicato “La parte muta del canto” (Joker, 2016) e “Le morti felici” (Il Canneto, 2018). Sue poesie sono uscite in alcune antologie fra cui “Impronte” (Pagine, 2014).

 

 

Questo libro è qui perché la prosa limpida, colta, coinvolgente, di Giorgio Galli, ha una vis poetica straordinaria che, aggiunta alla spirituale capacità di immedesimazione dell’Autore, restituisce, agli Artisti che lo hanno ispirato, la dignità della morte. E illumina quel momento che ne sublima l’opera e talvolta ne riscatta la vita.
cb