Archive for the ‘Fernando Della Posta’ Category

Fernando Della Posta

2 aprile 2020

Sembianze della luce

 

Poesia come luce

Nei diversi messaggi scambiati con Fernando Della Posta nei primi giri di bozze, l’autore mi offriva ogni volta un’ipotesi di titolo diversa. Ogni nuova proposta aveva però come centro la luce e ne conteneva invariabilmente la parola, segno che il rovello del titolo (che in verità attanaglia quasi ogni autore alla soglia della pubblicazione) era incentrato sul tentativo di ricomprendere i diversi significati, possibilità semantiche, opportunità immaginifiche che si raccolgono intorno al termine luce. Il timore del poeta era che la luce fosse intesa come elemento singolare, escludendo l’insieme delle molteplici sfaccettature, delle diverse temperature, dei diversi colori e corpuscoli che la compongono. Bisognava dare atto al lettore di questa molteplicità ed ecco allora la soluzione prescelta: Sembianze della luce, un titolo multiforme che andrà a svelarsi di fronte a chi legge, testo dopo testo.

La luce è allo stesso tempo la poesia e il linguaggio che le dà corpo, depositandola sulla pagina, è il prisma che la scompone nei suoi elementi essenziali. Si tratta di offrire delle possibilità di realtà, stratificazioni e tagli che mettono in risalto gli elementi rilevanti dell’amore, dell’esperienza di scrittura, della relazione, ma anche della disillusione e dell’impegno civile.

La poesia di Della Posta è una scrittura del possibile nella quale trovare il senso del divenire, quasi una scrittura quantistica, un paradosso del gatto di Schrödinger, dove il testo prende vita e si costituisce realtà solo nel momento in cui il lettore apre la pagina.

La luce ha dunque diverse manifestazioni. Si tratta di apparenze che regalano al lettore diversi sguardi “angolari”, o per meglio dire diverse sembianze della luce.

È allora evidente come già in questo titolo polisemico si nasconda la complessità di un libro che regala squarci e varchi nell’esistenza di chi legge, per gettare lo sguardo, come invita l’esergo iniziale, mostrandosi come opera necessaria, matura, a tratti coraggiosa. […]

Dalla prefazione di Luca Benassi

 

 

I solstizi, le marionette,

la diagonale del quadrato

sono tre cose meravigliose

secondo Aristotele magno.

*

Nelle gole il sole raso spazia

come lo sguardo di un amante.

Luce del corallo di cammei disciolti.

 

 

 

Se le dimostrazioni risiedono nei fatti,
già prima che qualcuno le sveli,
non importa tanto il nostro pensiero
ma se stiamo alle fondamenta
o all’apice di un antico edificio
e fino a che punto questo stia per sgretolarsi.

Mentre conversiamo
la luce del tramonto invade le nostre stanze
e ci culla dolcemente.

 

*

 

Quegli orribili abbigliamenti
quelli consoni all’età, o alla condizione
ci dicono che ci sono passaggi
nella vita che ci sono obbligati
– goffo, persino l’imperativo
come la biglia che s’ingolfa
nel muricciolo di sabbia asciutta.
S’incomincia da una pagina bianca
che anela ciecamente ad una scritta
a chiare lettere che recita:
Finisterrae!”, poi la bufera.

 

*

 

Non è facile, non è facile catturare una luce
nel temporale portato dal vento, mentre
la noia pasquale imperversa, e una parvenza
di perdita ci assale, una caduta al ribasso
tra le lente ore che passano, incespicando
in un buco, una gora, una traccia, una fiumara
che s’ingrossa dietro i vetri che si riempiono
di timide gocce di cielo ricacciate nel nulla
dal lesto sole. Altri maestrali si porteranno via
questi già vecchi e fragili puntini di mimosa.

 

Luce autunnale

 

Ti stringevi nel tuo chiodo
il collo avvolto in uno scialle violetto
i capelli neri come piume di corvo
sotto una pioggia di foglie.
Avevi un pallore di materia fragile
ma le guance sorprendentemente accese.
Il sole si nascondeva
dietro strali di nuvole blu.
I nomi dei giorni si dimenticano,
restano sequenze che sarebbero indecifrabili
se non ci fossero palpabili emozioni
che più lentamente,
come braci di un fuoco spento
col tempo si dissolvono.
Viviamo scambiando senza volontà
un tepore che è tutto, con cenere.

 

Convalescenza

 

Tergiversare sospesi
come fantasmi al mondo
nei risvegli della convalescenza.
I cifrari si riducono all’osso
e l’alfabeto dell’essenziale
riacquista la sua importanza.
La sorpresa che fa bene
è quella dei volti che si rivelano alla luce
e che ci rimettono al mondo,
con la sicura delicatezza dei gesti
e dei discorsi, come i nuovi padroni
accolgono il cucciolo
strappato alla nidiata,
che deve ricominciare a fare
lunghi sorsi di vita.

 

*

 

Quella sera il poliziotto e suo figlio
vennero da me: scrive versi
– dice orgoglioso – mio figlio – occhi azzurri
forse come sua madre – pensai,
non come le pupille opache di corteccia
di suo padre, forse molto in là
con gli anni – dicci come si sta
seduti sulle nuvole della grazia.
Si sta su nuvole di piombo – pensai,
ma non lo corressi. Dissi solo
che se una piuma dai, una pietra togli
ché la questione non è tanto lavorare
per la ricerca di una gloria duratura,
semmai un amare con costanza
come il gioco del tennista di seconda fila.

 

*

 

Vidi la versione sua, più antica
in una giallastra foto d’epoca
spiccicata sua madre
che la seguiva d’appresso
ondeggiante come una giara
nobile contenitore di vissuto
altare apparecchiato di conforto.
Mi dicesti: “sei materiale
vedi occasioni da far tue
sempre senza interpellare
chi stai facendo oggetto
del tuo bisogno d’ammalato”.
Così apristi in me un varco
e capii che per coloro che scegliamo
ci facciamo linfa e nutrimento
e che legarsi è sempre un investire
per diluire la nostra identità,
disperderci per poi trovarci, forse,
senza poterne dare annuncio
– non ne varrebbe poi tanto la pena
pochi starebbero ad ascoltare –
nelle fila delle vite altrui.

 

*

 

Siamo stati due punti
che si sono allineati,
trafitti dalla stessa
spietata linea retta.
Non è stato tanto un male
per noi che ad ogni modo
nel nostro piccolo cantuccio
abbiamo trovato la maniera
di colmarci, è stato un male
piuttosto per il resto, tutto intero
che un giorno si è trovato
due persone in meno
a rispondere all’appello.

 

Turning Point
               
               
Lo sprovveduto il principiante
l’outsider – l’ammanco dell’accademia
che viene subito colmato
con la semplicità impossibile –
avviene spesso che chiuda con lucchetto
l’ala impolverata del castello
e che il legno le fondamenta la grondaia
il transetto l’avancorpo
entrino nello sfacelo.

Dove il suo occhio di leopardo alligna
la consunzione accelera gli eventi
senza poter chiedere appello
o redigere un riassunto.

Chi sta in basso grida più forte
e il limite è un cavaliere appiedato
che sistematicamente sorpassiamo.
Genio è fiamma che brucia e resiste.

 

*

 

Fernando Della Posta, nato nel 1984 a Pontecorvo in provincia di Frosinone, laureato in Scienze Statistiche, vive a Roma e lavora nel settore informatico.Tra i tanti riconoscimenti ottenuti in poesia nel 2011 è arrivato tra i finalisti al concorso di poesia “Ulteriora Mirari”

nella sezione silloge poetica inedita; nel 2015 è risultato tra i finalisti del concorso letterario “Sistemi d’Attrazione”, legato al festival “Bologna in lettere 2015”, nella sezione dedicata a Pier Paolo Pasolini; nel 2016 vince il concorso “Stratificazioni: Arte-fatti Contemporanei” legato al festival letterario di Bologna in Lettere 2016 nella sezione B poesia inedita a tema libero e ottiene una menzione al XXX premio Montano per la silloge inedita. Nel 2017 vince il Premio Nazionale “Poetika” nella sezione silloge inedita. Nel 2018 si classifica secondo nella sezione inediti di poesia al Premio “Andrea Torresano”, ottiene una segnalazione al premio Lorenzo Montano per la silloge inedita e vince il Premio Letterario Zeno nella sezione poesia. Nel 2019 ottiene piazzamenti da finalista per la raccolta inedita ai concorsi: “Paul Celan”, “Pietro Carrera” e menzioni speciali al premio nazionale editoriale  “Arcipelago Itaca”. Sempre per la raccolta inedita ottiene la segnalazione al Lorenzo Montano. Sempre nello stesso anno, inoltre, ottiene il secondo posto nella poesia inedita e la menzione di merito per il libro edito “Voltacielo” al premio Chiaramonte Gulfi.

Numerose sono le sue recensioni e le sue sillogi reperibili su diversi blog letterari come «Neobar», di cui è redattore, «Words Social Forum», «Viadellebelledonne», «Poetarum Silva», «L’EstroVerso» e «Il Giardino dei Poeti».

Nel 2011 ha pubblicato la raccolta di poesie: L’anno, la notte, il viaggio per Edizioni Progetto Cultura e, sempre in poesia, nel 2015 Gli aloni del vapore d’Inverno per Divinafollia Edizioni, nel 2017 Cronache dall’Armistizio per Onirica Edizioni, nel 2018 Gli anelli di Saturno per Ensemble Edizioni e nel 2019 Voltacielo per Oèdipus Edizioni.

Lorenzo Poggi

2 novembre 2015

“Mentre Cammino” – Lorenzo Poggi.

Nota di lettura di Fernando Della Posta

Un’opera di fine artigianato “Mentre Cammino” di Lorenzo Poggi. L’autore si conferma come un fine cesellatore del verso, che spacca il capello in quattro per trovare rifugio al proprio animo inquieto: “La pagina bianca come neve sul tetto,/si stende ovattata a coprire gli umori/che rumoreggiano dentro./ Ci sono lacrime piatte spalmate sul pane/fresche cascate nascoste nei sassi”. Al “bar della rabbia”, infatti, Poggi si siede da spettatore attento sul mondo, assimilandone le brutture da laico ed etico pensatore. In questa poesia non ci sono morali, né l’indicazione di vie rette da seguire sulla strada dell’illuminazione: “abbiamo preso a sassate/chi indicava la via/perché la via esiste soltanto/se la sudi e l’assaggi”. Al contrario c’è un filo logico lineare che si dipana cristallino tra le varie sfaccettature del reale e dell’immondezzaio sociale odierno, a partire da un sentimento primigenio di attaccamento partecipe e viscerale alle vicende degli uomini e del mondo. Un filo che si sostiene autonomamente, col proprio argomentare, su fondamenta ben radicate nel substrato irrazionale che destruttura inesorabilmente quella che dovrebbe essere una coerenza naturalmente insita nel nostro ecosistema antropico. Ma coerenza non c’è, e Poggi, con la sua poesia, se ne fa illuminato e pulito ambasciatore.
Il substrato irrazionale, l’inconscio feroce che anima il mondo, per l’autore, è evidente e viene rintracciato quasi istintivamente, come se entrasse in trance. La sua poesia ne è capillarmente pregna: “Il Dio serpente vomitò lussuria/anzi, un braccio della lingua vomitò lussuria,/l’altro s’arrampicò sul tetto del mondo/ per sputare con più precisione./Questi i fatti di prima mattina sui giornali”. L’ambiente in cui viene individuato è principalmente il contesto urbano, più specificatamente la sua Roma. Seguendo un filone particolarmente fortunato sia nella letteratura, che nel cinema, che nella musica, Poggi articola la propria opera essenzialmente sulle periferie urbanizzate, che non sono più quelle del boom economico cantate e rappresentate dal neorealismo e da Pasolini, intrise di italianità popolare protesa fra tradizioni ancestrali e violenta industrializzazione forsennata, ma sono quelle degli appartamenti medio/alto borghesi dell’oggi, arroccati come nidi irraggiungibili sugli innumerevoli piani dei caseggiati di ultima costruzione (“M’aspetta in cucina un caffè strozzato/che stupido bolle da sé/la tenda è sempre storta/fuori è la solita solfa”) affacciati su vicoli e strade intasate dalle auto parcheggiate e dai cassonetti presi d’assalto dagli immigrati, dai rom, dai senzatetto e dai pensionati che non riescono ad arrivare a fine mese. E’ facile infatti vedere questi ultimi attori del nostro quotidiano come dei “Pezzi di vetro/come cristalli di coscienza/mischiati al concime./Sono lacrime amare/d’una città che ha rotto i confini”.
E’ evidente, inoltre, in Poggi un’attenzione particolare agli effetti del consumismo, ricollegandosi alla vena più conservatrice del regista, quando si scagliava energicamente e perentoriamente contro televisione e omologazione borghese: “In cielo passano nuvole come festoni pubblicitari/si comprano menti all’ingrosso inventando bisogni”.
La città dell’autore, inoltre, sembra respirare le stesse atmosfere delle canzoni di Rino Gaetano. Le continue anafore, il continuo riferimento agli attriti dell’umanità urbanizzata, il quasi maniacale voler denunciare gli effetti nefasti del consumismo e il voler rimarcare ripetutamente il fallimento e il tradimento di qualsiasi ideologia politica nella nostra (ahimè!) Italietta, rimandano indubbiamente a testi del cantautore romano come “Nunteregghecchiù”, “Il Cielo è sempre più blu”, “Berta Filava”, “Spendi Spandi Effendi” o “Mio fratello è figlio unico”.
Guardando sempre al pianeta musica, ancora, per lo sgorgare primigenio dell’opera dell’autore dalla propria coscienza abbrutita dal reale, si evince un collegamento ben visibile tra l’autore e Franco Califano, specialmente se si pensa ai famosissimi versi del cantautore “le parole che contano son miagolii viscerali/tutto il resto è noia”, come rintracciato prontamente anche da Plinio Perilli nel saggio introduttivo del libro.
Ancora, tornando alla letteratura, il legame con il primo Montale degli “Ossi di Seppia” e del male di vivere è più che evidente. A pag. 39 di “Mentre Cammino”, infatti, si legge un inconfondibile richiamo alla poesia del “Male di vivere” del nostro premio nobel: “è l’aquila in cima al dirupo/che non accenna a gettarsi nel vuoto/è il gabbiano impigrito nell’acqua/è l’orecchio che manca frequenze sognanti/è l’occhio che inciampa su gradini di carta”. E ancora, facendo eco alla celebre Forse un mattino andando in un’aria di vetro …: “Ho toccato le piume dei merli/e le guglie più alte del monte/ma non sono riuscito a capire/il segreto di chi sa dove andare”. Ma se nel Montale la resa, la disillusione, la nuda e cruda constatazione dei fatti e le emozioni personali provate sono i leitmotiv principali, in Poggi i canoni Montaliani sembrano essere assimilati e rovesciati, almeno nei termini della speranza e della possibilità di trovare una propria ribelle forza interiore che può farcela (e che ci riesce), le quali appunto sembrano riuscire a ricavarsi immancabilmente barlumi di visibilità di tra le sillabe brulicanti di segni e di immagini finemente intrecciate e assemblate: “Uscire di casa/rincorrendo speranza/che fa capolino/tra le pieghe oscure/del sapere di sé”.
Da contraltare alle brutture del vivere quotidiano e agli interrogativi che più o meno accomunano l’animo di tutti, non manca la consapevolezza della possibilità di fuggire attraverso gli scenari incontaminati della natura e degli ambienti a noi più lontani sia nel tempo che nello spazio. Succede a pag. 14 con “Canto Celtico” a pag. 19 con “Danze Antiche”, a pag. 50 con “Paesaggi” e “Paesaggio Salentino”, o a pag. 71 con “Una foglia” lirica in cui mi piace intravedere un richiamo alla famosissima “Fiume Sand Creek” di Fabrizio De André, nella quale la foglia, appunto, sembra sostituire le frecce degli indiani nella canzone del nostro cantautore. Fuga che, anche in questo caso, si mantiene laica e fortemente distaccata dalla religione che al contrario viene avversata e condannata, soprattutto alla luce degli ultimi notissimi scandali che coinvolgono la chiesa cattolica e quelli che l’hanno sempre accompagnata: “oggi dobbiamo adattare le ali al cavallo/prima di zappare nell’orto degli ulivi/in cerca delle radici del disonore”, si legge a pag. 55. Avversione e condanna che, tuttavia, non precludono alla possibilità di una riconciliazione, ma solo e soltanto intima, non fondata sulla piena fiducia e accettazione del credo e del potere secolare, non da offrire quindi come esempio per gli altri: “Ho perdonato/accettando assegni postdatati/e cambiali in bianco sulla fiducia./Sono tornato/ma non ho chiesto il conto”.
Infine, come una risoluzione sempre allusa, quasi preannunciata tra le righe di tutto il libro, nelle ultime pagine, la rabbia del vivere sembra sciogliersi e vediamo il poeta che si affaccia alla propria finestra, speranzoso, un poeta che comunque ha imparato che c’è un tempo per soffrire, un tempo per farsi incidere anche violentemente dalle brutture del mondo, e un tempo per andare avanti, anche e soprattutto con la forza della propria vitalità, ferina e bellicosa: “E poi stringerci in cerchio/anelanti di fumo e di carne/inciampando in rumori che sembrano canti/alla luce d’un fuoco/che danza la notte/che addenta la vita”; ma non senza una rieducazione interiore profonda: “allora ho imparato a cucire vestiti alle ore,/ho imparato a non mettere da parte i ricordi,/ho imparato a gustare i momenti,/ho imparato a sorridere affacciato/a torso nudo sulla finestra del mondo”.

Fernando Della Posta

 

poggi

_

Lentamente …

Assaporare l’incenso di paesi lontani
spalmati come eco su pareti di pietra…
rovistare in vecchie cantine ormai senza tracce.
*
Rimestare ricordi…
sabbia rigirata dal bagnasciuga
perenne d’opache verità
e stringere mani su quello che sfugge.
*
M’è sembrato d’esistere, un tempo.

*

Una foglia

Ho letto una foglia sul fondo del fiume
portava un messaggio stampato sul retro
nervoso di rughe invecchiate anzitempo.

Scriveva la foglia sul fondo del fiume
postando una voce che portava dentro
da troppi millenni assai poco ascoltata.

Spargendo lacrime confuse nel fiume
parlava di accette dal filo preciso
che senza motivo aggredirono il bosco.

Parlava la foglia dell’albero antico
che cadde abbattuto nel canto di morte
parlava la foglia dell’ultimo volo
dell’ultimo pianto sul fondo del fiume.

*

Paesaggio salentino

Ho dipinto un affresco a mezz’aria
spremendo limoni in mezzo agli ulivi.

Ho lasciato segni in equivoci
designando muretti, fazzoletti di terra,
e teli arancioni.

Ho messo anche le facce
a sfiorare il terreno
e corpi adoranti dalla parte del mare.

Ci sono ancora le tracce di streghe combuste
e agnelli sacrificati sull’altare del credo.

Lo dicono i tronchi squassati dal tempo,
il plastico intreccio delle loro scritture.

*

Il mercato dei sogni

Ho visto centinaia di frasi becchettanti
sul davanzale che chiedevano di entrare.
Ho ascoltato voci strozzate rinchiudersi
dentro lo schermo di un diffusore di banalità.
In cielo passano nuvole come festoni pubblicitari.
Si comprano menti all’ingrosso inventando bisogni.

*

Le piume dei merli

Ciondolando tra me e me
alla ricerca d’un qualcosa da credere
mi sono arrampicato fin sopra la torre
e sparso le ali per terra.
Ho gridato l’urlo del falco
vomitando la rabbia che ho dentro.
Ho toccato le piume dei merli
e le guglie più alte del monte
ma non sono riuscito a carpire
il segreto di chi sa dove andare.

*

Lorenzo Poggi è nato a Roma il 21 marzo del 1943 dove vive da sempre. L’attività poetica, ripresa dopo cinquant’anni, nel dicembre del 2009, si è concretizzata nella produzione di oltre 1500 poesie pubblicate su vari siti, antologie e riviste letterarie e, da ultimo, con un’assidua presenza, su facebook nei siti e gruppi poetici. Ha pubblicato in “self publishing” quattro raccolte: “Sassi sparsi” nel 2010, “Sussurri e grida” nel febbraio 2011, “Il cielo che aspetta” nel settembre 2011 e “La luna nel pozzo” nel febbraio 2012. Nel giugno 2014 è stata pubblicata la silloge “Mentre cammino” per le Edizioni Tracce ed è fresco di stampa (aprile 2015) “Versi cor(ro)sivi” per le Edizioni Progetto Cultura.

*

Fernando Della Posta è nato a Pontecorvo e vive e lavora a Roma nel campo dell’Information Technology. Ha scoperto la poesia da pochi anni e come per Pessoa, anche per lui la poesia non è un’ambizione ma una maniera di stare solo. Molti suoi testi sono apparsi sul web, riviste e antologie. E’ redattore del blog di letteratura e poesia Neobar. Ha partecipato con suoi testi al poemetto collettivo “La Versione di Giuseppe. Poeti per don Tonino Bello”, edito da Accademia di Terra d’Otranto, Neobar 2011. La sua prima raccolta di poesie, “L’anno, la notte il viaggio” è nella collana “Le gemme” edita da Progetto Cultura, 2011. Nel 2015 esce con la silloge “Gli aloni del vapore d’inverno” ed. DivinaFollia. Il suo blog personale “L’anno e la notte.poesia”.

 

*

Doris Emilia Bragagnini

1 giugno 2015

 

“Partiamo dal titolo, il neologismo “Oltreverso” ci catapulta immediatamente nella poetica di Doris Emilia Bragagnini, una poetica che assolutamente non si accontenta del già detto, già visto e già intravisto in due millenni e oltre di letteratura storica e nel marasma capillarmente diversificato e in continua tempesta, eppure così anonimamente amorfo, dell’immediatamente contemporaneo. Con uno stile proprio, dotato di fortissima personalità, l’autrice si spinge oltre i canoni precisi di qualsiasi tipo di verso stravolgendo persino il buon senso accettato dai più che dovrebbe regolare il verso libero. Leggendo i versi della Bragagnini, infatti, ci si inoltra in un viaggio senza confini in cui i più disparati accostamenti di parole, sensi e significati spalancano le porte dell’immaginazione del lettore.

Andiamo al sottotitolo: “il latte sulla porta”, un altro chiaro messaggio dell’autrice. La poetica di Doris infatti si muove dal quotidiano per spingersi oltre. Il fatto che si indichi poi, chiaramente, l’oggetto del latte lasciato al mattino sulla porta delle case dai corrieri, scena quotidiana e familiare tipica del cinema e dei telefilm d’oltre oceano, lascia capire come per l’autrice il mondo trascritto nelle sue poesie sia un dono suo e solo suo, in cui si rifugia ogniqualvolta lo sente necessario. Una sorta di regalo lasciato da un angelo custode sconosciuto. Una dimensione sua personale che le permette di sviluppare e donare a sua volta poesia.

Ed è proprio il dialogo con un’entità dai contorni poco definiti che sembra aprire il libro, con la sezione “D’Assonanza”. Un dialogo serrato tra l’autrice e un’entità indefinita e indefinibile, che potrebbe essere qualsiasi cosa: un poeta, un amante, un figlio, un padre, un compagno di vita, la poesia o la vita stessa. Emerge sin da qui, come in tutto il libro, una percezione della vita che incide fino in fondo l’anima dell’autrice: il mio cuore è una pista/ in un mare di ghiaccio/ dove in pattini d’oro/ tu mi solchi e io vivo. Un vivere appieno il quotidiano che non risparmia nemmeno la più intima goccia di energia, come nella poesia “Poeta” e io bevevo palpiti/ stagioni di germogli/ lampare modulanti e/ fiotti di veleno/ per riprodurti immenso/ maestrale del mio volo/ sussurro da ingoiare/(un divenire muto). Un bisogno di rapportarsi incessantemente col mondo esterno per modulare e rimodularsi con un sentire immerso profondamente nella propria funzione. Sentire da cui scaturisce una conoscenza di sé e del mondo fortemente filtrata dall’emozione. Una conoscenza parziale, spezzettata e abbacinata, profondamente incisa dall’istinto e dalla carnalità.

Istinto e carnalità fortemente permeati da una femminilità affermata decisamente e chiaramente, indagata su sé stessa in prima persona in tutte le sue sfaccettature. Nelle poesie della Bragagnini infatti c’è la donna che ama come un’amante passionale: Come faccio adesso io/ a tracciare idee/ pulsazioni di carattere/ o tragitti d’emozione…/ arrivi tu – ed è la fine -, la donna che ama come una madre: Breccia dolce nel ritorno/ resti ostaggio del mio seno/ del respiro che ti manca/ mano aperta, che lo sfiora e la donna ancora bambina: Hai presente una bambina/ con le mani chiuse a pugno/ sui pastelli dietro schiena/ che ti guarda a bocca aperta?. Istinto e carnalità però, che non sono mai gli argomenti principali, ma che piuttosto diventano mezzo di espressione e resa stilistica poetica di altri temi come l’amore, le difficoltà di comunicazione nei rapporti umani, la sofferenza, l’affettività e la poesia stessa.

Uno stile, quello dell’autrice, che, proprio perché fortemente permeato dall’istinto inteso come mezzo stilistico, si rivela particolarmente affine alla fotografia di Tina Modotti (citata all’inizio del libro) e di tutti quei fotografi di recente scoperta, come ad esempio Anke Merzbach o Susan Burnstine. Fotografia fatta di contrasti marcati, ma anche fortemente manipolata in post-produzione con l’intento di accostare gli oggetti più disparati al soggetto predominante della figura femminile. Manipolazioni atte proprio alla ricerca dell’affermazione di una forza espressiva che va oltre la semplice resa poetica della realtà delle forme e delle espressioni. D’altronde l’immagine sembra essere un altro dei principali fili conduttori del libro. Gli aforismi di Tina Modotti e di Rainer Maria Rilke nell’incipit del libro e la foto stampata in copertina, opera dell’autrice stessa, ne sono una prova inconfutabile. Le immagini evocate dai versi inoltre, proprio per i continui capovolgimenti di fronte e di senso legati agli accostamenti di parole più impensabili, che ne fanno una poesia in continuo ed incessante movimento, fanno sconfinare l’opera dalla fotografia al cinema, e più marcatamente sembrano richiamare nel lettore le atmosfere dei film di Alfred Hitchcock, di David Linch o di Stanley Kubrick nelle sue pellicole più oniricamente estreme, dove la predilezione per le scene che creano emozioni forti, forti fino a dare le “vertigini”, la fanno da padrone.
E se c’è appunto una parola che può sintetizzare fedelmente il libro, questa è proprio “vertigine”, parola che indica lo smarrimento che si prova nel momento in cui ci si spinge oltre, ma un oltre a tutto tondo: oltre il quotidiano, oltre l’affettività, oltre il verso, oltre l’immagine, oltre l’arte tradizionalmente intesa e oltre sé stessi.”

                                                                                                                                                   Fernando Della Posta

.

oltreverso

.

.

Verso Oltreverso

Nel nido più alto
lo squarcio nel cielo
induce al raggiro
che io torni e traduca
il verso oltreverso

Ed appare e ferisce
ma ti salva il lambire
dell’onda bugiarda
di velieri agitati

che torna e ti prende
mi trattiene e mi squassa
il mio cuore è una pista
in un mare di ghiaccio
dove in pattini d’oro
tu mi solchi e io vivo

.
*

Come faccio adesso amore

Come faccio adesso io
a tracciare idee
pulsazioni di carattere
o tragitti d’emozione…

arrivi tu – ed è la fine –

hai presente una bambina
con le mani chiuse a pugno
sui pastelli dietro schiena
che ti guarda a bocca aperta?

.
* *

:
Seguire la tua pista per l’ovunque
dietro strade accarezzate con un dito
– la tua bocca – disegnata nel profilo
mentre irrompi nella mente
danni un angolo d’assurdo
pronto a sgretolare ancora e
la rincorsa sulle scale
per la nostra stanza “illesa”
ridi, ridi e invadi il cuore
mentre sali e chiedi
amore… amore… amore…

.
* *

.
Notti di metallo fuso
di armature sciolte a ritrovare il fiato
nella corsa di una vita in cono d’ombra
dove non ci venne dato di guardarci gli occhi o
stelle, a baluginare sogni
che ora fremono sulla nostra pelle nuda e
sono docili le nostre meraviglie
– esplodono all’unisono –
s’incontrano nell’estasi di questo nuovo mondo

la mia spada è anima, il mio scudo è amore...”
…………………………io mi arrendo, e chi si muove?

.
*

.
Film

Mi pervade questo vuoto di te, ora
così implicito, metamorfosi di un sogno
(misticismo improprio o credere bambino)
quando proseguire contando passi
nel ripetere il tuo nome (all’infinito)
è stato dirmi – tu – chi eri
celebrando il nientenulla muto
come appropriazione debita
a riprodurti dentro senza lembo di confine
nell’appartenermi ancora

Potrei scendere all’inferno non sapessi di trovarti
è che – fino al certo punto – non mi basta

Voglio toccare il fondo di valigie controluce
sapere che all’aperto si spiegano teloni
per il film del nostro ieri
prima fila e denti bianchi
smerigliati dal sapere carne figlia di enne enne
il delirio di un amore che sparpaglia
questi sensi disparati, dove affondi mentre godi
e io muoio sul
………………………….THE END

.
*

hungry sweet melody

sweet, sweet, my hungry sweet melody, sweet…

osserverò le piume alzate contro il vento che
il tuo gorgheggio solleverà nel vuoto intabarrato
e lì, a colpire dove il fianco è muto e
cola l’ombra – rovesciata –
sulla rotondità del giglio oscuro
reciderò gli stami
scivolando al fondo di quel ringhio d’altro canto
da serrare, tra le mie parole nude

erano i giorni delle unghie scheggiate
tra gli spazi tanto freddo e
il ruvidore precipitava l’ululo
a lisciarle sulla faccia ma, non era la paura
a stringere nei nastri l’andirivieni di quel fronte
che vedevo nei suoi occhi
piuttosto un velo, patinato su quel bianco
sopraggiunto come schiuma di

– distacco –

 

diffrazioni d’osservanza (fard à paupière)

non un vuoto contundente, così ampio
da tacermi – il luogo esponenziale è filmico
una ghirlanda d’aglio e fiordalisi morbida nel fiume
e un collo troppo piccolo per sostenere il cappio

sorprende poi di frodo come un letto richiudibile
due ante sulla steppa, il freddo dei natali di ogni giorno
lampadine ciondolate sopra il piatto da cocomero
(se non per questo – me – adesso
o la brina nei campi d’inverno quanto il fiato
avvampare d’incenso, braccia spiegate, all’essere viva)

mi tagliarono la coda, giace lì nel nylon, il colore sbiadito
nero pervinca di notti a venire, nello zoo del Tennessee
….qui tra le stecche di un video su strada filtrano bucce
………………………………………………………..per fard à paupière
– fiori di vetro – a due passi dal mondo, piena una slitta
…………………………………………………………..da riempire galere

*

.

ring

ho provato a mantenerti sogno, annientarti
dentro al ring di un modo d’essere, ammansendo il gesto
trattenerlo dentro, pensando cosìpiano da stordire l’intrusione

avrei chiuso il giunco dentro l’onda di salsedine
e tracciato nel profilo un trampolo di morte
incubo incapace a sospendere giudizio

se ciò che chiamo è furore cieco
che si addormenta attento, forse sciame, di brividi retrattili
sotto il bordo di un così vasto soliloquio, come una lisca
a consegnarmi ferma, stivo il dolore a rostro così scoscesa da salirti

e se spingo sull’orecchio, dove si annida il fiato
una colata a bassa distorsione non risparmia – accordi osceni –
corde d’ultimo piacere i nostri vincoli, il mio succhiare spago
che sfilaccia di sapore lungo l’argine che ci siamo dati

tu vieni e sverni, dentro le fessure della mia levigata inapparenza
un lampo d’improvviso, fame, a incupirti gli occhi
diagonali di controllo in briglie un po’ allentate, scioglimenti al ruolo
sotto ciglia di ragazzo, pronto a mietere respiri

altro Qui

.

 Doris Emilia Bragagnini nata in provincia di Udine (dove tuttora risiede), definisce così la sua essenziale biografia: ”nata nel nordest vive da sempre a due passi da sé, qualche volta v’inciampa e ne scrive”. Suoi testi sono presenti in alcuni periodici online e cartacei tra cui Carte nel Vento a cura di Ranieri Teti, EspressoSud a cura di Augusto Benemeglio, Noidonne a cura di Fausta Genziana Le Piane, in varie antologie (tra cui Il Giardino dei Poeti ed. Historica e Fragmenta premio Ulteriora Mirari ed. Smasher), in blog e siti letterari come Neobar e Il Giardino Dei Poeti (collabora in entrambi come redattrice), Carte Sensibili,  Via Delle Belle Donne, La Poesia e lo Spirito, La Dimora del Tempo Sospeso, Poetarum Silva, WSF, Linea Carsica. Ha partecipato ai poemetti collettivi “La Versione di Giuseppe. Poeti per don Tonino Bello” e “Un sandalo per Rut” (ed. Accademia di Terra d’Otranto, Neobar 2011). Il suo libro d’esordio è “OLTREVERSO il latte sulla porta” (ed. Zona 2012). Menzione speciale per il testo  Claustrofonia sezione “Una poesia inedita” Premio Lorenzo Montano 2013 e per il testo “Di fuga Soluta” nel 2016. E’ stata premiata con segnalazione la silloge inedita “Claustrofoniaal Premio Lorenzo Montano 2017, e premiata ancora con segnalazione al Premio Lorenzo Montano 2018 per la poesia inedita “Determinismo Verticale“. Edito Claustrofonia. sfarfallii – armati – sottoluce  (Giuliano Ladolfi Editore 2018).

*

Fernando Della Posta è nato a Pontecorvo e vive e lavora a Roma nel campo dell’Information Technology. Ha scoperto la poesia da pochi anni e come per Pessoa, anche per lui la poesia non è un’ambizione ma una maniera di stare solo. Molti suoi testi sono apparsi sul web, riviste e antologie. E’ redattore del blog di letteratura e poesia Neobar. Ha partecipato con suoi testi al poemetto collettivo “La Versione di Giuseppe. Poeti per don Tonino Bello”, edito da Accademia di Terra d’Otranto, Neobar 2011. La sua prima raccolta di poesie, “L’anno, la notte il viaggio” è nella collana “Le gemme” edita da Progetto Cultura, 2011. Nel 2015 esce con la silloge “Gli aloni del vapore d’inverno” ed. DivinaFollia. Il suo blog personale “L’anno e la notte.poesia”. Il presente articolo ha ricevuto una segnalazione nella sezione saggistica alla seconda edizione del  Premio di letteratura “Ponte Vecchio – Firenze”

 

.

Fernando Della Posta

7 marzo 2013

 Fernando Della Posta

        

Normalmente le poesie di Fernando Della Posta qui raccolte iniziano da un punto culminante addensato, da cui il pensiero si dispiega concentricamente come un sasso nel fiume. C’è una grande ricchezza umana dove la coscienza del dolore si intreccia a una profonda delicatezza di sentire l’amore. In Versi sfusi, dove sfusi significa liberati o anche usciti con prepotenza in casualità apparente dalle proprie radici, il poeta è “un avventore che paga da bere a tutti…con versi viscosi come alcolici oleosi – sierosi – – quasi purulenti”.

La vita, ne “Il deserto dei Tartari” è desolazione in un continuo entrare e uscire, andare e venire vano, ma poi interviene la speranza in “La favola dell’albero di Allah” dove le prime due strofe sono un’autoaccusa: “Ho tradito…Ho tradito“, ma subito dopo, imprevedibilmente, si addolcisce fino alla tenerezza: “È così fragile l’amore in boccio, è così improbabile che scoppi un terremoto, eppure accade”. Qui il “terremoto” è l’amore che arriva, impetuosamente, a maturare e realizzarsi nel vicendevole possedersi e riconoscersi. Ma la precarietà dell’amore è subito puntualizzata nei versi immediatamente successivi: “Possono incontrarsi foglie mentre cadono, si girano di scatto, s’abbracciano cadendo. Un alito di vento le separa, un alito di vento unisce“.

Saltano all’occhio l’incisività e la semplicità espressive: lo stile è equilibrato.
E c’è l’intreccio di suoni e sogni in Kaleidoscope mentre ne Il quartiere S. Lorenzo il luogo diventa stato d’animo che si allarga oltre la terra: “È una donna che fuma. È una goccia di liquore sulla faccia bianca della luna”.
En passant: la storia umana è sfuggente e zigzagante come il passo dell’ubriaco e non è fatta “dell’ostinazione delle date“, ma di vita al cui calice il poeta beve fermamente.
In Visi c’è l’amore di compassione per gli altri e quello sguardo poetico intenso con cui l’autore li distingue, sicché la loro vita diventa dolore o allegria per chi li sa vedere.

Domenica Luise

                         

Versi sfusi

Prendete il poeta come un avventore
che paga da bere a tutti.
Conosce tutti i suoi compari
– non li conosce – ma ci parla –
compagni di bevute e shortini
di sambuca – ma ci parla
con versi viscosi come alcolici
oleosi – sierosi – quasi purulenti.
*
/ Qualcuno va via e resta parziale.
/ Un cilindro tagliato obliquo
/ con gli occhi da sole. Gangster
/ dal cravattino rosso rosa nero.

Boccia sul biliardo, la biglia otto.
Si gioca una partita dove chi si vede
è uno solo. Ha un contorno nero
ma dentro è nudo come il bianco.

Si rientra al bar – riparte la cinepresa
col suo ticchettare a raggi, da bicicletta –
se riboccia ancora, la otto al centro
o se stecca, ancora una soffiata.

Il deserto dei Tartari

Un essere umano è i mondi che si sceglie,
alcuni li percorre, altri li oltrepassa.

“Accetta gli scompensi dei pesi
e le bilance sempre in mancamento!
Sono l’equilibrio, che più ha di vero!”

Quest’eterno contraddire il senso,
che con la parola di rado si accorda,
l’ho trovato nell’essenza del fiore
che di continuo si apre, di continuo avvizzisce.

Ho visto camminare soldati di pattuglia
davanti a muraglie senza fine,
– in una ricognizione – che non ha mai fine

… tirare avanti dinanzi a certe porte
in altre ancora entrare, poco dopo uscire

La favola dell’albero di Allah

Ho tradito il mio sguardo pensando
che fosse tutto un arrendevole abbracciarsi
e strascicarsi di parole appese al labbro.
Virgole negl’interstizi, o nell’intervallo
della carne rossa,
e opposizione nell’unione dello spirito
che tutto separa tutto include – adolescente.

Ho tradito il mio sguardo pensando
che un filo rosso che si slaccia da una guancia
e si posa lieve su una bocca
ha a che fare poco, con l’amore in boccio.
Un occhio presentito e prematuro
lascia travisare una scelta che c’è stata
ma potrà non essere.
Basterà un cadere lungo i fianchi delle braccia,
uno scostar di lato il guado, una triste vela
a terra che si posa.

È così fragile l’amore in boccio,
è così improbabile che scoppi un terremoto,
eppure accade …
Possono incontrarsi foglie mentre cadono,
si girano di scatto, s’abbracciano cadendo.
Un alito di vento le separa, un alito di vento
unisce.

Dalla mia terra

Dalla mia terra non ho più nulla da imparare.
La poso al suolo come il cane posa l’osso,
ne ho lo stesso suono.

Di tanti amori prematuri io qui ti porto il frutto.
Un po’ consunto, un po’ sgualcito.
Vi s’intravede l’appassire zuccherino,
che saggi poco a poco con il tocco.

Abbine la stessa cura, con cui lo custodisco,
perché – per amarti io ti amo, più di me stesso.

Kaleidoscope
“canterebbero corde più libere
oltre la parola”.

Di fini intessuti occhi e caleiscòpi
è un intreccio di suoni e sogni,
visione di rammaricante nostalgia
persuasa dai sentieri di maggio,
pietraie secche e fili d’erba
come draghi smerigliati;

un’acqua acuta e fredda sotto l’ombra
di chiome vermiglie, trapunte di sole.

E i raggi di luce intèssono
maglie d’intricati rami, lingue di foglie
venate e pendenti, asparagina secca
dal granulare grigio,
monti di terra rossa, semioscura,
nel crepuscolo.

Quartiere San Lorenzo

San Lorenzo è come un tassello scheggiato.
Ha le case scure come il caffè.

“Mettiamogli dei guanti imbottiti!
Proteggiamone i muri scoloriti!
La neve potrebbe, ammorbidirne i risvolti,
… dei palazzi seghettati.”

Sembra una grande fabbrica dimessa,
un dormitorio londinese.

“Rilassati nella piazzetta!
Rilassati sul suo cuscino!
Li senti i cocci di bottiglia
che danno carattere all’ovatta?”

È una donna che fuma. È una goccia di liquore
sulla faccia bianca della luna.

Vicino la casa del Manzoni, Milano

Mi s’innesta qui, sull’avambraccio
un incanalarsi calmo, di stecche di bambù,
mentre da un riflesso al vetro,
di Porto, mi s’insinua rubino un volto
di Omenone stanco, pensoso.

Entra nell’assimilazione, linfa di sapienza
e ancora protetta si sfalda
la struttura ch’egli regge. Va via il peso,
vino e alambicco, deflagra
pietra e marmo, come canta un girotondo.

En passant

Ho dato di matto a una gara di storia.
E’ che fanno coincidere le date
col districarsi delle ere,
delle correnti e degli imperi.
E tant’altre lagne non ve le concedo.
Il medioevo alto … Chi l’avrebbe mai detto?
Scuro come l’orzo, sbriciolato come il malto.
Volete dare confini – al darsi il passo
dell’ubriaco?

Che il mio cuore lo porto nascosto
dietro il colletto, al margine del gozzo
di Adamo che non ho. Pulsa come
il tamburo dei tuoi eserciti schierati,
che fanno l’imboscata a un pigro vecchio
ma non lo colgono né in fallo né in arrivo.
Dell’arroganza, dell’ostinazione delle date
si può morire, ci si può marcire
pur bevendo fermamente al calice – della vita.

L’ammutolito dietro il suo difendersi
e le definizioni di razza e di omogeneo
del diritto dei pochi acquisito per nascita
e delle sprezzanti rivelazioni di un dominio
superiore, lo getto nelle fauci del drago
della mediocrità di un piccolo mucchietto
mascherato da cervello. Vi faccio battaglia,
non vi do il mio benestare, più di voi tutti
– scellerato – è chi non vi pone l’attenzione.

Visi

Come dei momenti d’allegria
ce ne prendiamo gioco,
così della tristezza
su un viso o su uno scritto,
ne prendiamo allegria – oppure
ne guardiamo il tristo accrescersi
di un sorriso
che nasce o che si spegne,
che sboccia o che si chiude
alla notte.

Vorrei tanto non essere banale
ma la pelle si piega e si può accendere
un disegno
– chissà da quale parte arriva.

Non ne segniamo il tempo e l’ora
sui taccuini.
La tristezza e la felicità – restano
nell’anima sola – di chi sente

              
              

                  

Fernando Della Posta è nato a Pontecorvo e vive e lavora a Roma nel campo dell’Information Technology. Ha scoperto la poesia da pochi anni e come per Pessoa, anche per lui la poesia non è un’ambizione ma una maniera di stare solo. Molti suoi testi sono apparsi sul web, riviste e antologie. E’ redattore del blog di letteratura e poesia Neobar, http://www.neobar.wordpress.com/. Ha partecipato con suoi testi al poemetto collettivo “La Versione di Giuseppe. Poeti per don Tonino Bello”, edito da Accademia di Terra d’Otranto, Neobar 2011.

La sua prima raccolta di poesie, “L’anno, la notte il viaggio” nella collana “Le gemme” edita da Progetto Cultura, 2011: http://www.progettocultura.it/le-gemme/379-lanno-la-notte-il-viaggio-9788860923875.html.

Il suo blog personale, “L’anno e la notte.poesia”:  http://versisfusi.wordpress.com/.