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Federica Galetto

24 gennaio 2015

 

 
Traducendo Einsamkeit

E’ il fuoco che m’attraversa
La redine della corsa non tirata
La molle cesoia del corpo in regime
Ad assaltare le curve prive di vergogna
resisto appena
Compulsiva in tendere assoli urgenti
Cavalli bianchi nell’occhio
Variazioni multiple del colore
(E tu vedevi i miei stessi colori
Allunando nelle pause)
nell’imbuto capovolto e la testa,
la testa in incrocio al bacino esposto
Decine le spinte corrotte
per perdere rotte definite
E’ il fuoco che m’attraversa
Nei mondi abnormi della conta
senza resto e senza risparmio che
riempio
Assecondata dai gesti di filo con trama
fitta
districata a matasse nel ventre
Traducendo Einsamkeit rompo le righe
E mi sbrano contenta
d’essere farfalla tinta nella fiamma
e nella parola che trasmuta
di deserto in valle e filo d’erba tenero
Poiché esistono violetti di corporatura robusta
e verdi sfacciati nei rossi della pelle
e miriadi d’occhi veri che attendono risposte
per crescere ancora nei miei geni
come gerani piantati in settembre
a svernare in teche trasparenti e tiepide
Traducendo Einsamkeit di notte
Non c’è che sole quando le brume dormono
Passando dal palco di Keats riemergo
ai boschi di Treichel
In Bellezza

*

A spasso con Proust

Era abbastanza costante
L’andare e venire del ritmo
Costretto nell’immobile rigidità
del presente
[ un’ora non è soltanto un’ora,
è un vaso colmo di profumi,
di suoni, di propositi e di climi]
Secca vena rimarginata di fresco
I passi deserti delle cose e delle idee
alle tempie battevano
Così avveniva nel dimostrarsi meno duro al sentire
che l’amo d’una rimembranza sfiorisse dopo il profumo
(Un tovagliolo inamidato che)
[aveva precisamente la stessa inamidata rigidezza dell’asciugamano
con il quale aveva tanto stentato ad asciugarsi davanti alla finestra,
il giorno del mio arrivo a Balbec]
Rendeva possibile un corso di mite significanza
E gioie insperate all’aprirsi d’un suono
Davanti nulla spiegava l’evento
Si svolgeva contratto e poi assolto dal buio
Nella mente uno spiraglio di luce sognava
tornando alle posate e ai piatti tintinnanti
Rumori decisi a intrufolarsi fra silenzi
senza ricordi
[il passato è nascosto al di fuori del suo dominio e della sua portata,
in qualche oggetto materiale che noi non sospettiamo]
La bellezza di esser stati e di aver toccato e posseduto
L’ematoma sciolto del tempo ora sui selciati
Le paure dei giochi e una bambola rotta
Un melo fiorito nella campagna distratta
Batte forte il lampo contro vetri appannati
Si raggiunge la cosa nella sua concretezza
Dimenticata non più
Adesso che balla il minuscolo lembo di stoffa
alla gonna di mia madre
[Dipende dal caso che noi incontriamo questo oggetto
prima di morire
oppure non lo incontriamo]

Le mille ruggini

Ancora c’erano le mille ruggini
del passato e le torce
accese per sbaglio dai dirimpettai matti (i pensieri)
Che s’abbeveravano come giunchiglie ai fossi
Separando il fango dall’acqua sporca
Così si diceva fosse quella donna
Un incamminarsi eterno di luoghi e passi
Di strade e fratte bagnate sotto il cielo
sperduto di memoria
Le gambe lunghe che attraversavano
parole incipienti, sconnesse
Sottovoce pronunciate come per sbaglio
ai piccoli lucernari nel vialetto di sambuco
Tra le prataiole e le fioriture
Sotto i muretti d’un pozzo oscuro
O ancora, quando si levava il giorno
(scambiato per buio)
a discorrere senza parlare
con i suoi più stretti amici
Anime, Anime erano forse
quelle presenze che battevano sulla sua spalla
Spingendola ad andare avanti e a cercare
davanzali di viole da rubare
La scorgevo in un solo affiancarsi d’ombra
Sui sentieri e nelle curve dei colli
Senza borsa o paletot d’inverno
Senza mai un riparo dal sole d’estate
Di tanto in tanto avevo pensato di voler esser lei,
(avevo sperato) di mischiare le mie frasi di verità
con le sue, o di piegarmi in ginocchio
a chiederle come poteva,
distinguere così bene
i giusti dai mistificatori
Lei non conosceva Keats
né mai aveva odorato le pagine brunite
d’un libro vecchio e stravecchio
che raccontava d’amore
Il suo alfabeto s’impiccava al silenzio
come le ore che assalivano le persone sole
Distaccato dalla lingua e sovrapposto alle spalle
Ma i suoi piedi volavano in immense circonvoluzioni
E passaggi
E danze
I suoi occhi blu d’oltremare sfinivano le intemperie
In quei percorsi distratti dal vuoto e dal furore
Delle mie povere cose non avevo che un occhio
Perpetuo sulla fronte ad intagliarle nella memoria
Lei possedeva il mondo e lo nascondeva
A proteggerlo dai viottoli stretti
Dall’amarognola cicoria del contadino afflitto su per la strada
La mia stessa percorsa a tentoni senza braccia o gambe
A riconoscerla
Era un limpido specchio di myosotis
Un’altalena d’assenza e di stelle sparse sui muri
Era come l’aquilone
nel vento poggiando sui fiati della pioggia
Un ricalcarsi d’invettive al suo Dio
Ma Dio, Dio sedeva a guardarla
Senza fermarla mai
L’osservava tenendo me per mano
e lei alla catena della libera afflizione
Senza perdonarla.
Io avrei voluto andare.
Lei fermarsi.

Testi da “Traducendo Einsamkeit”, Terra d’Ulivi 2014

Federica Galetto

24 novembre 2012

Appare, da queste poesie, un desiderio espresso, anche se molto metamorfico, di comunicazione estesa, come se andasse ritrovata una grazia posseduta e ormai smarrita (involtolate), una capacità di dialogare fra le cose e fra e le cose e le creature, capacità perduta in parlottio disturbante estraneo alla comunicazione, anzi volutamente interessato a che non si compia nessun pacifico dialogo. Si è contaminato e svilito, anche ingannato, ogni verità, ogni stare di pace. Ogni chiarezza, ogni corretta individuazione e distinzione si è smarrita e il buffone quasi non si distingue dal sapente.
Ma continua la Galetto a dirci di questi tempi di sabbie mobili che risucchiano là dove si sarebbe desiderato appena sostare:
“apro la bocca e le mani ingoiando senza masticare
afferrando senza stringere
poiché piegata è la rima dei secondi
senza ristoro e luci
m’imbatto nei prologhi di questo mio disordine
a sbriciolarne contenuti
.
..”; si rimane ai prologhi, agli incipit, alle intenzioni, poi tutto intorno ti afferra, ti trascina, ti porta in un dentro amniotico, abulico, impotente e l’ennui ( la noia) si fa la nuit ( la notte), l’oscurità. L’assonanza del suono dovrebbe manifestare la grande dissonanza del senso e invece l’una si beve l’altra, la ingoia. La cosmogonia di riferimento è tragica, non risponde più a nessuna visione desiderata, a nessuna conoscenza appresa, a nessun movimento docile e dolce.
Un arruffìo di termini traduce la confusione dello stare in un essere privo di riferimenti, ora mascherato, ora smascherato, mai pacificato.
Manca, a mio parere, una qualsiasi indicazione di un mestatore, di una sorgente, o di una banda di briganti che ci hanno condotto a sentirci persone così perse e smarrite, vere o forse solo sognanti , e può dire la poetessa:
“ E le colme giornate
sui bordi del gelo sprangate al cielo
s’infrangono
ai veri dilemmi che non odo
e non accuso
….”
Allora noi , creature complesse e inquiete, siamo anche imbelli? La domanda sorge inevitabile leggendo l’ultima poesia, canto delle cose belle e fragili, della non persistenza della bellezza, dello struggimento che ci lascia questa consapevolezza: vedere, capire, avvicinarsi alla bellezza ed esserne allontanati come reietti: perché? Per chi?
Da tanta amara visione :
“…
In fila a montare croci sulle cime
Che sfavillano prive di pelle e ossa
Come carcasse in culle abbandonate

Risorgo dall’erba sotto i tuoi piedi”

può bastare quest’ultimo verso? E come risorgo? Non ci è detto. Come si era?
Forse per avere una qualche lume occorrerebbe il libro intero, non bastano alcune poesie.

Narda Fattori

.

Mutazioni

Mutazioni
In un filo d’acqua scendono le cose
Ricami ritmici diffusi
Costellate siepi di ginestrone
estirpate e lucide nel grigio stupito
di coltri nebbiose

Involtolate

ai passi corti del giorno
senza ancora lena
S’intromettono gazze e corvi
trasportando suoni d’ovatta

(e allora mi chiedo)

se il melo selvatico
s’invaghisca tremulo dei suoi fiori
appesi senza esser visti
se parlano le ortensie alle viole
come distese nel letto a confessare

Chiarori millesimali fusi nei rami
come allodole non ancora giunte
fuoriescono dai vetri

(che non so mai)

se siano essi specchi d’anima a ritroso
o becchi d’ uccelli nel fogliame
fenici rinvenute per mio tormento
o evoluzione in alto
complesse stirpi di nobili e accattoni
fin sotto la mia finestra.

Della noia

Della noia non cavalco che il dorso
Avrei certo sempre pensato di crearne
altra da impastare ai molli giunti dello
spirito come si fa con i piedi nel fango
quando piove
ovviando al termine del salto in punta di piedi
Ma sono fisse dimore i pantani scoperti
e canestri le ore di un tempo restio ai cardini
di scambio
apro la bocca e le mani ingoiando senza masticare
afferrando senza stringere
poiché piegata è la rima dei secondi
senza ristoro e luci
m’imbatto nei prologhi di questo mio disordine
a sbriciolarne contenuti
per essere sapendo di non esserci
per credere d’impossessarmi quando
nulla è possesso
[la nuit (la notte)
l’ennuie (la noia)]

Cardo notturno/diurno
Le sue spine inflitte
Mi rendono capace di
parlare solo ai fiori
pronunciando le stesse
vocali in confusione
di significati di-versi

Indice determinante delle luci asfittiche

Nelle gobbe d’asperità s’infiltra
l’emozione asettica
Crescendo s’imbatte in gola
un groppo
Trasceso resta appeso ai tendini
Come il collo voltato alle corse
nel sudore della fatica
Implicita suggella un pensiero atteso
Nei rivoli dimessi si scioglie un verbo
cupo di notte salvifica

Malgrado un occhio non guardi in basso
striscia sulla terra come steso al sole furtivo
e raccolgono le membra i grani di polvere
sommersi di neve sporca
Indice determinante delle luci asfittiche
come se non ci fosse giorno nel chiarore
un battito d’ali nel volo

Capivo di non distinguere i riflessi di gioia
nelle stremate amenità dei prati
Esaudivo gli altrui presagi d’attesa

Tremavano le terre scure nei crepacci di sasso
Le mie faccende infinite di crucci esitavano
sui possibili tradimenti dei propositi
Espandendo le agonie come bolle gonfie
a rotolarsi nell’aria senza toccarla
Esito propizio disattendere o vincere
che le salite imparavano ad inclinarsi di meno
come possedute alla radice dai forti venti
e da un blizzard tiranno

Cosmogonia
Tripudio in solo do maggiore

Che fosse solo una inquieta fuliggine
del mondo a spegnersi
nelle mie orecchie fra brulle note
danzanti sulla bocca
Oppure ancora un laccio di fune
attorcigliato e teso
In grado perfetto di estinguere i debiti
violando le serre dei miei fiori
A Nord dell’intelletto puro
Come sepolte le istintive note
nell’adagio

Secondi docili sui petali mi illudono

E scendo

E scendo scendo
nei grani dei cicli lunari
E le colme giornate
sui bordi del gelo sprangate al cielo
s’infrangono
ai veri dilemmi che non odo
e non accuso
tra i fogli di latte
e biscotti
e poesia a mente
nelle stanze uniche
e nelle stufe di legna ad ardere bisogni
Soffrire per diverse corse nella neve
all’interno
perché è questo che faccio
sui toni sbiaditi del pomeriggio sdrucciolo
Mi schianto di versi e di freddo
per sapere ancora di essere intera
e non guardare con l’occhio socchiuso
quei tardi elementi di distanza che scuoiano
come pellami di cervi
dopo una notte trascorsa a fuggire

Infami collere

Infami collere
Inzaccherate
Richiuse
In barattoli a doppio fondo
Lunga conservazione resistente
Le muffe rimosse
I colossi di zucchero dentro
Estensibili ai più genuflessi
ritrattamenti
Estatiche rotture
Bianche
Nelle vacanti spirali di assopimento
Negli urti
Mi risollevano le giornate
So bene andare da sola
verso i chiari di luna
Non aspetto le chiacchiere
dei tacchi altrui
Neanche i tuoi in attesa
di richiamo
Urlante
Che abbasso il tono per
non farmi sentire
Vado senza braccio
Senza sforzo di te o di altri
Vado
Nelle camere distanti
Nei corridoi spinti al fondo delle ragioni
Nei tratti di strada esausti
Nei fienili spremuti di caldo
Il tepore arrugginito nei giunti
dei gioghi delle bestie a dormire
Dopo il pasto
Sottigliezze sono le trame
Gli orditi di futuro zero
Oggi non so se chiamarmi ancora
Con il nome
che io (dis)conosco
Rimuovo
Estraggo
Abortisco
Uno strato senza corpo
che un corpo mai ricorda
Solo richiama
I pomeriggi sul balcone
I fiori della magnolia
La tenda a manovella
Nel giardino le ore
La sera una illusione
lunga vent’anni appena
Di una selva in prestito
e di un bastone
con i diamanti sul pomello
I veli di affetto sugli occhi
riaperti come incubo sul sogno
In questa vita raggrinzita d’esasperato
Effetto/Morte
Per andare andare
Senza sforzo di te o di altri
Nell’invincibile minaccia
del mio aspetto
Nuovo
E senza conservanti

(finestre aperte m’invitano ai davanzali)

M’avresti da dare un secondo d’esitazione- che
ricordo qualcosa, qualcosa da dire, qualcosa
di un corpo sepolto

Meramente sfiorite le calle
E le rose in carta rossa
Fragili paraventi in corsa
immobili sui piedi dell’intenzione
Promesse rinviate in calce
e spassionati drenaggi acquisiti
(dopo le orme scarse che lasci)
Che le trine notturne
in addomesticato soliloquio
s’infittiscono
Estese
ai corti bracci legati ai miei
regno ritmato dai canti e dalle
schiere di angeli
ammansiti dalle falene
senza lume
Fra le cantilene sbordano rime
In fila a montare croci sulle cime
Che sfavillano prive di pelle e ossa
Come carcasse in culle abbandonate

Risorgo dall’erba sotto i tuoi piedi

Poesie tratte dalla raccolta “Stanze del nord”, Onirica Edizioni 2012

Biografia:

Federica Galetto nasce a Torino.
Poetessa, scrittrice, traduttrice, appassionata di lingua e letteratura inglese e americana, scrive sul blog letterario “La stanza di Nightingale” http://lastanzadinightingale.blogspot.com/
e WSF http://wordsocialforum.com/.
Nel luglio 2010 pubblica per i tipi di Lietocolle Editore la sua prima raccolta poetica “Scorrono le cose controvento” e nel  2011 la sua prima raccolta di Poesie in lingua inglese “Ode from a nightingale”, Masque Publishing, l’e-book “Silent is the House” (bilingue, Inglese-Italiano), Errant Editions 2011, l’e-book “Nell’erba il punto”, La Recherche, 2012. Sue poesie, racconti e traduzioni sono stati  pubblicati su diverse riviste e blog letterari, antologie edite da Perrone Editore, Mondadori, Lietocolle, L’Arca Felice, fra le altre. La sua Poesia è stata citata da Maurizio Cucchi su La Stampa e sulla rivista Poesia. Vincitrice del Premio “La vita in Prosa” edizione 2011 e Verba Agrestia 2011.Vive e lavora in Piemonte, in un piccolo villaggio del Monferrato. “Stanze del nord” è la sua seconda raccolta poetica edita da Onirica Edizioni, 2012.