Guido Seveli

19 aprile 2024 by

Guido Seveli

da L’Osservatore di pietra
(gennaio 2024 Giawadagi Edizioni)

.

.

*
Negli armadi dei morti viventi
c’è un sentore di canfora
i vetri fanno l’occhiolino ai muri
attaccapanni dietro porte chiuse
più sudari che vesti
addobbi a crisantemi e calle
nei cassetti di marmo

il vulcano s’accese e spinse un vento
carico di fuliggine
sulla scala d’ingresso dell’inferno
a scuola si studiavano teoremi
inutili ai lavori forzati
la vita ne tremava fino all’osso

e non s’udiva un grido

*
Tempi d’accidia
di dentature senza labbra
mandibole cadenti
metallo nelle carie
dalle macerie i gatti
scappano come lepri
cigolando di code e campanelli
ma nessuno li ode

la sordità assoluta
fa bene a chi digrigna decisioni
lontano dagli schermi
aquile mute affondano gli artigli
sui pulcini del ghetto
le chiocce in lutto stanno sulle soglie
ad aspettare uova di ritorno
fosse pure nel sangue e nella polvere

*
Stanno sbiancati a luce
pali da strade subumane
nella futilità degli eroismi
con eloquenza imbonitrice
lontani dalle case, dai rigori
straripanti dei tombini
precettati da giudici destrorsi
in aule magne. Si commina il tempo
a chi si sa che non l’avrà
per mancate indulgenze
plenarie o parziali
il nulla ha di speciale che non conta
né vivi, né morti

*
È pietra la paura
l’affondo che trattiene nella melma
dove l’oro non luce
dove l’opacità del ferro ha suoni striduli
nelle gabbie toraciche.
Un processo si svolge all’incontrario
le vittime all’ergastolo
i carnefici al foro degli applausi

è la resa dell’anima
si vedono gli arpioni farsi strada
nel petto dei dannati.
I giudici sul fondo della gabbia
aspettano che gli ultimi assassini
battano il martelletto
dalla corte dei vili

si respira l’afrore della guerra
tra gli spettri giurati
correi di mafiosi e di avvocati

*
di segreti e di nebbie
spenti gli occhi, chiusure a cateratte
uomini adunchi, anaffettivi,
spiluccano cervelli
gli uomini che li hanno assecondati
sono peggio di loro
macigni nella notte ch’è calata.
Dormono le foreste degli ignavi
I pochi delle veglie stanno all’erta
sperando nell’ossigeno di un urlo
che scuota il piano dei rapaci
che strappi via il sudario da quei volti
legiferanti morte

ma sotto quei lenzuoli
c’è il livido del nulla. I loro passi non
fanno rumore. Hanno cuori di gomma
ghermiscono chi dorme in abulia
dopo aver dato loro lustro e seggi

*
Nel porto dei naufragi
incatramato, immobile tra i pesci
sono l’uomo seduto alla banchina
di un molo senza bitte
sono l’uomo che vede.

Ero un ardito dicitore
ma ho perso la mia voce
sono l’ombra incapace di portare
in salvo vele, tranciare le catene.

Le navi da diporto
galleggiano su plastiche e rifiuti
ma i crocieristi stanno sulla tolda
a festeggiare inganni
viaggi esotici
sordi alle grida, ciechi alle bordate

Questo è il porto da dove non si parte
ma si proietta un film di mare azzurro
sul telone dei morti

.

.

.

Guido Seveli è nato a Genova, dove vive dopo essere stato per lungo tempo un capitano di navi da crociera.
Ha pubblicato questa raccolta quando, come si suol dire, ha tirato i remi in barca.
Ma la terraferma ha acuito il suo sguardo, e il vecchio lupo di mare che nelle lunghe veglie amava guardare dall’oblò le onde e le stelle, adesso traccia con le sue parole altre rotte, in cui la realtà del mondo appare nel disastro che tutta l’umanità sta vivendo, che si sia colpevoli o innocenti, nel comune destino.

Paola Cingolani

11 aprile 2024 by

La poesia risiede nel dialogo stesso, perché immediato e trasparente, emozionante, perché è vero.

La poesia è nell’essere genitore che sa cosa significa amare e accudire, la poesia è nell’attenzione alle piccole cose, nella osservazione/contemplazione della natura, è nella bellezza di uno scambio disinteressato nel quale le parole non sono solo “parole”, ma le si sente “scorrere come sangue nelle vene”.

(stralcio dalla prefazione di Maria Letizia Del Zompo)

                          

                 

“La verità è una dimensione parallela per ognuno di noi e si snoda oltre le convinzioni, segue le storie personali dei singoli, è fatta di tutto e – al contempo – di nulla.

La poesia, per me, resta la sola maniera con la quale tentare di avvicinare un po’ d’infinito.”

(Paola Cingolani – Autrice dei versi)

                                

                        

                       

I VERSI  DELLE  POESIE

                       

                          

I versi delle poesie

ci narrano la vita con i suoi paradossi

e ci parlano di tutti gli amori disperati

immaginari

impossibili

incompiuti

di tempi che non sono più in essere

consegnati al passato

derubati di futuro

clandestini

meschini

sofferti

attimi di contrabbando

o anche

asserviti

in cattività

schiavizzati

dai limiti che ci siamo imposti

dai finti problemi

dai pregiudizi.

 

***

I versi delle poesie

nascono dal dolore dell’esistenza

ci sgorgano di rado per la gioia

desiderata

agognata

sperata

voluta

quasi

vissuta solo con la mente.

                        

                     

                             

SILENZI  ELOQUENTI

Certi silenzi sono eloquenti

scorrono all’infinito

come fiumi in piena

da valle fino a foce

_ non contemplano rime

anzi sono poesie tristi _

rigonfi di parole e di detriti

nascondono infiniti rottami

di vecchi amori in frantumi

gettati via

così

ad inquinare quella purezza

che c’è stata

prima.

 

***

 

Le anime tracimano di detriti

_ sono estuari otturati

o sono delta intasati _

corrotte dal non detto

e anche

dal detto per colpo ferire

nel buio di notti cupe

senza alcuna luna.

 

CONTENERE  MOLTITUDINI

 

 

Contengo me stessa

che non è piccola cosa

è come contenere

senza saperlo

vastità

moltitudini

e l’Universo mondo

da scoprire

da imparare

da conoscere.

 

***

 

Scavo in me stessa

che non è piccola cosa

è come sgretolare

a mani nude

ghiacciai

iceberg

e l’Universo mondo

da capire

da scaldare

da abbracciare.

 

***

Cerco in me stessa

che non è piccola cosa

è come perdersi

restando fermi

immobili

marmorizzati

e l’Universo mondo

che si fa specchio

che mi racconta

che mi risponde.

 

 

LA  NIPOTE  DEL  MARE

 

 

Ho osservato la mia scogliera

sempre immobile

principio di stabilità assoluta

si staglia là

è equidistante

tanto da me

quanto dall’orizzonte.

 

***

Ho riflettuto molto a lungo

l’ho mirata e rimirata

anche se coperta d’onde

emerge dal mare

non si sposta

la vedo svettare

quasi a reclamarti dal cielo.

 

***

Di fronte a quella scogliera

come fosse casuale

sulle altre pietre

più bianche

più giovani

tra sabbia e acqua blu

viene anche mia figlia

e lei ti trova sempre

nel profondo

come me.

 

***

Per possedere mondi sommersi

qui dove ogni singolo scoglio

è stato un nostro approdo

e la nostra stessa vita

il più capace eri tu.

 

***

C’è l’Universo tutto

che alberga

ancora

in te.

 

***

Su quell’arenile

solido supporto

c’è l’ingegno di tua nipote

_ tu sai quanto ti cerca

per arginare l’erosione _

ma non certo della costa.

 

***

 

Dovrò ingegnarmi anche io

ché _ a dirtela così com’è _

sono sofferente

d’una smania

cronicizzata

dunque

rimango qui

sulla nostra riva

a pesare

come se

per muovere me

non possa bastare

neanche una draga.

                          
                    

CASOMAI  VEDO  DI  RINASCERE  SPESSO

 

 

Solo perché amo la compagnia

non significa ch’io sia una persona frivola

in compagnia _ semmai _ mi porto pure la solitudine

_ dovesse sentirsi sola lei _ non sia mai.

 

***

Solo perché amo la musica

non vuol dire che la mia vita sia facile

il controtempo _ semmai _ me lo fanno le difficoltà

_ dovessi sentirmi sola _ loro ci sono.

 

***

Solo perché amo sdrammatizzare

non significa che io non sia mai turbata

sorridendo _ semmai _ combatto molto  strenuamente

_ dovessi incrociare un’ostilità _ me la gioco.

 

***

Cerco come posso di andare avanti guardando al di là

non vuol dire che in altri modi non sappia agire

dignitosamente _ semmai _ oltrepasso le negatività.

 

***

Ogni momento nuovo è un regalo che ricevo dall’esistere

non significa che mi piaccia sempre tutto

né che io scelga e possa decidere da sola

vivendo _ semmai _ mi è fatto dono d’alcune opportunità.

 

***

Cerco solo di rinascere al meglio delle mie capacità

ma ogni singola volta

per riuscirci

io non m’accontento

se posso _ casomai _ vedo di replicarmi e rinascere più spesso.

                             
 

                                              

Paola Cingolani è nata a Porto Potenza Picena, ha 55 anni e scrive per amore di scrittura: nessuna velleità di pubblicare l’ha mai solleticata prima. Tuttavia si è cimentata con un blog come una sorta di laboratorio personale della parola, qualcosa che le è stato utile per crescere accumulando idee e scritti.
Oltre due anni fa ha pubblicato un romanzo epistolare con Amazon e si è fatta coadiuvare in quel progetto da un amico: il libro in oggetto era “Così ti scrivo – Cronache di un dialogo”  

La vera passione dell’autrice, però, è la poesia contemporanea italiana, quella dove non abbondano certamente versi melliflui, né si riscontrano racconti d’amore. Paola punta ad un concetto d’amore più ampio, universale, ricerca nell’introspezione risposte che potrebbero aiutare l’essere umano a guardare altrove, sublimando dolori e ampliando le poche gioie, tentando di dare a queste più ampio respiro e di curare le ferite dell’animo umano.
Complice la figlia Giulia, Paola ha deciso di tirare fuori i suoi versi e di mettersi alla prova senza più timori: “Giulia ha il potere di farmi dismettere i panni della madre perfetta e di trasformarmi in una persona felice, forte, capace di superare qualsiasi sfida”.

Davide Rocco Colacrai

30 marzo 2024 by

 

 

 

 

Mi costituisco. Confesso prima che qualcuno se ne
accorga: non leggo poesie.
È una mia mancanza, la sento gravare dentro di me come
una colpa, del resto sono qui a confessarmi, a chiedere
perdono.
Ho letto molte poesie durante gli anni della scuola,
alcune le ho imparate a memoria, come era uso. Credo
tuttavia di non aver mai ricevuto una giusta educazione
al riguardo. Sento, cioè, di mancare totalmente degli
strumenti per poter leggere correttamente una poesia,
poterla apprezzare, comprenderla al fondo, abbracciare i
sensi e i vuoti di senso che esprime. Sotto il mio dirmi
manchevole, difettoso, si nasconde certo anche
un’inconsapevole arroganza, è inutile negarlo, perché
ignorare la poesia coincide con l’idea, tutta sbagliata, che
se ne possa fare a meno.
Quante bugie ci raccontiamo ogni giorno, per paura di
superare i nostri limiti.
Quando l’autore del libro che avete ora tra le mani mi ha
chiesto di scrivere questa prefazione, ho avvertito
l’istinto di dire di no, mentre – sempre d’istinto – dicevo
subito di sì.
È così che fanno gli impostori di natura.

Ho iniziato a leggere i libri che, prima di questo, già
raccoglievano alcune poesie di Davide Rocco Colacrai,
perché ci sono impostori che studiano e io sono uno di
quelli. Ho letto infine le pagine che compongono questa
antologia e, senza saperne raccontare il motivo, o forse
proprio perché non ne so raccontare il motivo, mi sono
innamorato e ho lasciato che la lirica di Davide
volteggiasse nel mio cuore e nel mio stomaco, delicata
come una carezza di farfalla nella neve. […]


dalla prefazione di Mattia Zecca


 

 



Teresa delle grazie

Era nata con un corpo di gabbiano, Teresa,
che si allungava senza ali in un punto esclamativo
verso il suo orizzonte nudo di sogni
che tra un poster e l’altro facevano capolino da pareti
                                                              [umide di candeggina
e ricordi sporchi di paradossi,
odori corrotti da parole ossidate
nel loro andarsi ad accumulare come ombre
dove la carne, come una lastra di amianto, non aveva un
                                                                                      [nome
e ore che apparivano indefinite e liquide
come lo erano le promesse
con cui copriva il suo profilo da sirena
quasi fossero un sudario
aveva un fiore di salsola al centro del cuore
che pungeva con la sua lingua il cielo
nel costato dove le preghiere non diventavano carne
e strette a se stesse come serpi
le umiliazioni si gonfiavano come un muscolo
                                                                          [dell’orizzonte
per sanguinare d’amore,
ogni storia pronta a definire la colpa di un padre
secondo la ruggine del dolore,
ogni dolore la devozione di una madre
a quanto restava della vergogna,
la vergogna sinonimo di una profezia malata di attesa e
                                                                               [nostalgia

pg 16

 








 

Giurista e Criminologo, Davide Rocco Colacrai partecipa
da quindici anni a Premi Letterari e nel frattempo ha
ricevuto oltre mille riconoscimenti. Tra gli ultimi,
spiccano due Certificati di Eccellenza per “cultural
activities and the promotion of literature in the world”
rilasciati dalla Associazione Literary World Art; il Premio
alla Carriera nell’ambito del Premio Internazionale
“Carità è donarsi” di Massa; il Premio Universum,
organizzato dalla Universum Academy Switzerland
(vinto per la seconda volta dopo dieci anni); il Premio
Firenze Capitale d’Europa per la Sezione Legalità; il
Premio alla Carriera nell’ambito del Premio Letterario
“Talenti Vesuviani” di Napoli e il IV Premio Mundial A
La Excelencia “El Aguila De Oro 2022” nella Sezione
Letteratura come rappresentate dell’Italia.
È autore di nove libri, tre dei quali – “Istantanee donna”;
“Asintoti e altre storie in grammi”; e “Della stessa
sostanza dei padri: Poesie al maschile” – sono stati
pubblicati da Le Mezzenale Casa Editrice.
Sue poesie sono state tradotte in inglese, in spagnolo, in
francese, in russo, in albanese, in turco, in lingua cinese,
in tedesco e in bengali.

 

La Poesia e la Musica / non sono cose terrestri / appartengono al Mondo Superiore.”
Così scriveva il Maestro Peter Deunov. Sono anni che mi faccio perseguitare da questa idea, tanto precisa quanto instancabile, di realizzare attraverso i miei versi una forma di confessione, che dalla sua dimensione strettamente personale possa con naturalezza trasformarsi in una storia del mondo alla quale chi ha il coraggio di accostarsi possa ascoltarsi, e persino riconoscersi. Ed è arrivato il momento oggi di affidarvi i suoi frammenti, le sue “storie di plurali al singolare”, in modo che ciascuno possa ricomporli nella più bella delle orchestre che i versi sanno creare: quella del cuore.

Davide Rocco Colacrai

 

Roberto Maggiani

21 marzo 2024 by

http://www.ilramoelafogliaedizioni.it

                                 

                          

                                             

Poesia e scienza: una relazione necessaria? È la domanda, l’assillo si potrebbe dire, che investe e attraversa questa produzione poetica e che già nel titolo si rivela: Poscienza. Si tratta di un neologismo che cerca di unificare un apparente dualismo, due ambiti, due competenze, due passioni: per la poesia e per la scienza. La lingua della poesia è tipicamente costituita da parole, segni, e di segni è fatta anche la lingua della scienza, che usa essenzialmente il protocollo della lingua matematica. Perché la poesia non dovrebbe potersi propagare a partire da una lingua cesellata su entrambe le suggestioni, quella letteraria e quella scientifica? Tra i temi della poesia troviamo certamente l’amore, da sempre asse portante di moltissimi tra i più noti componimenti in versi, e poi il dolore, la sofferenza, la gioia, la natura; quest’ultima è spesso elemento metaforico del sentire e delle relazioni umane. Ma la scienza, moderna e contemporanea, ci ha consegnato nuovi temi di lavoro poetico. La scienza è vista come chance di novità nella poesia: qui non leggerai poesie ma poscienzìe.

Roberto Maggiani è nato a Carrara nel 1968. Laureato in Fisica all’Università di Pisa, dal 2001 vive a Roma, dove insegna. Tra le sue opere in versi: per le Edizioni Gazebo, dopo sì, 1998, e Forme e informe, 2000; L’indicibile, Fermenti Editrice, 2006; Angeli in volo, Edizioni L’Arca Felice, 2010; Scienza aleatoria, LietoColle, 2010; per LaRecherche.it, Navigazioni incerte, 2011, Nella frequenza del giallo, 2012, Spazio espanso, 2013; La bellezza non si somma, Italic pequod, 2014; Marmo in guerra, Edizioni la Grafica Pisana, 2014 (con fotografie di Paolo Maggiani); Angoli interni, Passigli, 2018. Ha pubblicato il romanzo Affinità divergenti, Italic pequod, 2018, e il saggio Poesia e scienza: una relazione necessaria?, Edizioni CFR, 2011. Tra le antologie curate: Quanti di poesia, Edizioni L’Arca
Felice, 2011.

Luigi Finucci

14 marzo 2024 by

                            

                        

Notte. Silenzio. Morte. Nome.
Sono queste le parole da mandare a memoria fra quelle che compongono la poesia di Jón Kalman Stefánsson, poeta e narratore islandese, poste in esergo a La prima notte al mondo di Luigi Finucci.
Notte. Silenzio. Morte. Nome.
E viene da chiedersi quale sia questa prima notte; se la prima del mondo, la primordiale, nell’insondabile e inconcepibile spazio e tempo dell’universo, oppure la prima al mondo in quanto viventi, umanissima venuta o sparizione: infinitamente minima. Forse in questa oscillazione, in questo dubitare, si compie il mistero che contiene questo libro. Oppure il mistero è qualcos’altro che viene pronunciato: la quarta delle parole, il Verbo
Nascere, nato.
E’ nato un bambino sulla terra,/ tutti hanno descritto/ l’evento come consueto.// Un essere piccolo scaraventato/ su un globo sparso in un/ indefinito spazio nero:/ una catastrofe vista da fuori/ diventa un miracolo.
Dalla prima (A una distanza che non comprendo) fino all’ultima delle quattro sezioni – la sezione che dà il titolo all’intera silloge – Luigi Finucci disegna un tracciato circolare, una sorta di perimetro che possiamo definire casa, luogo contenitore nel quale sostare: cerchio, orbita, igloo protettivo nell’estremità feroce degli elementi cosmici al cospetto dei quali

l’individuo si viene a trovare. Sulla linea di questo tracciato, che conduce dall’ infinitamente grande (infinitamente oscuro) spazio siderale fino alla puntura bianca di spillo della nascita, rappresentata dalla bellissima metafora nel Polo – abbaglio, chiarore di gelo e di neve, apice massimo e insuperabile di origine (e, proprio per questo, principio incontrovertibile di fine) – ciò che il poeta ci permette di incontrare è la sospensione nella visione. Il soggetto è lo stesso scrivente: sempre. Gli occhi che vedono, però, non sono due soltanto: ad essi si va sovrapponendo uno sguardo altro, proprio di chiunque si accosti alla lettura e partecipi perciò al quadro osservato e descritto.
Si compie la visione./ Sono all’interno/ dell’intestino della terra,/ non posso fare a meno/ di essere in pace con/ la mia interpretazione.
[…]                                                                      

dalla PREFAZIONE  di Silvia Secco

*

testi scelti


Atomi, si muovono
nello spazio imitando
un perpetuo sodalizio.
Il caso vorrà, nell’istante
imprecisato, che si formi
un assioma complesso.
Vita. Senza bisogno alcuno
di definizione.


I vulcani si acquietano, perdono
la loro efficacia distruttiva.
Le acque chinano il capo.
Nel luogo più oscuro, le possibilità
di vita hanno le sembianze
di una cellula. Le origini
hanno parvenze insolite,
non hanno linguaggio.
Solo il terrore
di essere scoperte.


L’universo è solitudine
come la sorte umana.
L’ espandersi è una pretesa
vacua: la linea procede
lenta. Le connessioni
si dilatano, le galassie
o meglio le relazioni
chiedono asilo. Nel mezzo
un buio insondabile.
Sembra quasi che le distanze
abbiano avuto inizio nel giorno
in cui gli occhi si siano chiusi,
disobbedendo all’instancabile
forza della luce.


Il declino delle stelle ha un nome:
no come la morte umana. Brucia
e inghiotte due o tre pianeti.
Si consuma senza danno il buio
a dispetto della luce.
Non è morte: la polvere stellare
vagabonda ed ebbra si raccoglie
alla costruzione di un amore
dalla luminosità circolare.


Chiederanno in molti
delle stalattiti del cuore,
nelle profondità dei pensieri
malsani, nelle vergogne
e negli anfratti. Una rigidità
fermerà il corpo a mezz’aria
l’abisso sembrerà interminabile
tra le sconfinate rotte dello spazio.
Ai margini tutto svanirà,
nebuloso sarà l’afferrare
una traiettoria di un buio
agghiacciante.


Luigi Finucci è nato a Fermo il 15 maggio 1984. Dopo aver vissuto fino alla maturità a Montegiorgio, ha vissuto tra Urbino e Firenze per poi tornare a Fermo, dove attualmente risiede.
Ha pubblicato due libri di poesia: Le prime volte non c’era stanchezza (Eretica edizioni – 2016) e Il Canto dell’Attesa (Ladolfi Editore – 2018).
È presente con suoi testi in vari siti, tra cui Atelier, Poesia del nostro tempo, L’Estroverso, Margutte, AlmaPoesia, Poetarum Silva, Poeti del Parco, NiedernGasse, Poesia Ultracontemporanea, larosainpiù, Inverso – Giornale di Poesia e L’altrove – Appunti di poesia. È stato vincitore della XXV edizione del concorso “Poesia di Strada”. Collabora con alcune riviste online e alcune sue poesie sono state tradotte in diverse lingue, tra cui il rumeno e lo spagnolo.
Ha poi pubblicato anche tre libri per bambini, in rima, per la Giaconi Editore: L’aspirante Astronauta nel 2015, Il paese degli Artigiani nel 2018 e Il Mondo di Sotto nel 2021 e un albo illustrato poetico dal titolo CAMMINO – sulle orme di San Francesco nel 2022.

Maria Bochicchio

2 marzo 2024 by

 

Sulla punta delle cose

Più vera di una carezza vera
la tomentosità dei fiordalisi
che amammo di sommità
e fastigio,
guancia a guancia
all’apice di un sospiro.

Le foglie sui raggi
hanno la conclusione dei luoghi
che ci proteggono dal vento,
il sonno vagante
della gariga di montagna.

Vieni, amore mio
affrettiamoci di verde
al bacio delle api.

 

*

 

Amore incondizionato

Non ha cominciato
col baciarmi i denti
l’incavo del collo
la regione stanca
dell’anca,
ma col dirmi
incondizionatamente
nutano i ciclamini
sul rosso tramonto
delle tue guance.

Così vivi
i capolini dorati
che ti rigano di sole
le sclere dell’occhio,
che a guardarti
nasce un colore
in mezzo a due mondi
e dormo il sonno
delle lucertole.

*

 

 

La ragazza dai bottoni d’oro

Ella era solo un colore,
aveva nel nome
il cremisi e il fiore.
*

 

Dentro ai tuoi occhi

Ho in mente
un milione di passi
poi cade una ciglia
dal cielo dei tuoi occhi
e riconosco l’eterno,
il lento mutare
d’una palpebra nuda.

*

 

Il cercatore

 

Precipitami a te
dove dormi l’estate
dei nostri baci,

così accordati
a una vena
sfiorami
l’erba alta
della fronte.

Slamato il ricordo,
in cespi impronte
d’oleandro
l’improvvida attesa.

Il cielo  si snuvola
dentro ai miei occhi
quando mi guardi
dal palmo
della tua mano.

*

Léocadia

Terra
e fiori di granoturco
supplici
alla somma tremolante
delle tue spartizioni
preservano
sopr’al tuo seno
l’ocra fangoso
delle nostre vertigini,
quel che rimane
è il cielo asparago
delle cose perdute,
il tetto molle
di un’idea.
Ci ritroveremo,
colli brumosi
tra le dita dei piedi.
*

 

Tranquille solitudini

Ma se una sola tra le tue spine
cadendo i ramni
da ogni gravità ti scagionasse la fine
non pensare che
nel nervo doppio dei giorni
io non possa dei tuoi silenzi
cogliere il passo leggero del maggio
che per ogni nuova foglia nel mezzo
rallenta delle mie nuvole
già l’ultima primavera.

Maria Bochicchio nata nel 1987 a Potenza, si è laureata in Lettere Moderne e attualmente vive in Belgio con il marito e i figli. Vincitrice di premi e riconoscimenti speciali in concorsi letterari, ha pubblicato il romanzo Cazzamala (Gruppo Albatros, 2020), i racconti Aralya (Gemma Edizioni, 2020), La linea del tempo (Poderosa Edizioni, 2021) e L’onda nel bicchiere (Historica Edizioni, 2022). Accùra, complementi d’arredo (A&A Marzia Carocci Edizioni, 2022) è la sua prima raccolta di poesie. Suoi componimenti sono apparsi su «Ufficio Poesie Smarrite», «Margutte», «LucaniArt Magazine», «Pioggia obliqua», «L’Appeso», «Aratea Cultura», «Suite Italiana», «L’altrove», «L’Equivoco», «LibriCK, la rivista degli scrittori» e «Poesia del nostro tempo».

 

 

Eva Sibrontič

12 febbraio 2024 by

Testi di Eva Sibrontič

VICENDE

A sparpagliare idee ci pensa l’onda
quando al mattino mi risveglio
e mi si accalca il mondo intorno
quasi confusi cielo e terra
appare una figura in una nuvola
attenta al mio respiro
un’ansia mai provata opprime il petto.
Asserragliata dai doveri
aspettando che arrivi ancora notte
accendo il lume della mia pazienza.

Osservo l’ombra scesa sul mio letto
mi libera dagli incubi
sognando al posto mio le cose oscure
io so che nascerà di nuovo il sole
e tornerà la luce nella mente.

*

CHIMERA

Solitaria frazionata a scaglie
occhi smeraldo infissi
nell’ oscuro silenzio di una eclissi
e sormontare dossi e
il muso arguto e l’anima di un gatto.
Guizzanti sottopelle
forze sospette e pliche disarmoniche
nel cavo della notte un gorgoglio
di pipistrello.

Artiglia idee raminghe
con poderosa presa
scansa la notte depistando cieli
appende sogni nelle sue caverne
sogni di fiera
nera.

*

COLORATO

rivestito di folgori e fiori
un respiro che sfida l’eterno
lungo strade sconnesse.
Nessun fuoco divampa
sui campi di grano e di sangue
sono morti gli eroi d’ogni tempo

e su un fosso riempito di notte
una prefica spande il suo lutto.

*

DI TUTTE LE STRADE

del tempo
del gran labirinto del mondo
sappiamo soltanto
il sentiero dell’io.
Viviamo asintoticamente
la sfera del mondo.

*

FANNO LUCE

Fanno luce negli angoli cuciti
chiudono fori e pause
le parole che formano poesia
si adattano allo spazio della vita
serrano lastre di finestre rotte
sulle macerie del dolore.
A volte come fossero ritagli
di pensieri scomposti
svolazzano sul bianco delle pagine
chiosano giorni aguzzi
e notti spoglie.

*

I GENERALI

I generali sul piede di guerra
non fanno andare gli uomini a morire
fosse di fresca terra a pertinenza.
Titolari di nastri e di mostrine
comandano gli eserciti a sparare
danno disposizioni belliche
dalle stanze strategiche
dove non giunge il sangue
e gli ammazzati sono nomi scritti
sulle piastrine del silenzio.
Mentre sfilano bande di grancasse
sotto podi bandiere e pance grasse
perfino i marmi piangono il dolore
erano figli e padri
l’amore aveva i nomi delle madri
le carezze di amanti
negli occhi e nelle mani.
Ciò che resta è soltanto una medaglia
a ricordare morti senza senso.

*

*

In questa raccolta autopubblicata, l’autrice scrive del sociale come esito della follia degli apparati, e del personale come appartenenza al comune destino degli esseri umani. Scrittura lucida e sintetica, che va al cuore delle vicende e delle emozioni relative. Queste ultime scaturite dalla consapevolezza della tessitura coattive delle regole e dello sfruttamento dei deboli,    nell’assoggettamento non solo dei corpi ma anche delle coscienze.

La sfera dei sentimenti viene sfiorata con leggerezza, le vicende personali quasi marginali, in una sospensione onirica soffusa di filosofia e qualche guizzo esoterico, e le parole

“…A volte come fossero ritagli

di pensieri scomposti

svolazzano sul bianco delle pagine

chiosano giorni aguzzi

e notti spoglie.”

(dalla prefazione di Nives Corbati)

*

Eva Sibrontič è nata a Trieste nel 1984, da madre italiana e padre di origini slave. Ha frequentato corsi universitari di lettere e filosofia senza giungere alla laurea. Si è trasferita, per lavoro, in un contesto rurale, dove si occupa della raccolta di erbe selvatiche di cui studia le proprietà curative e cosmetiche. Scrive poesie, appunti farmacologici, e dà lezioni private di solfeggio e pianoforte.

Angelo Restaino

26 gennaio 2024 by

Angelo Restaino

Angelo Restaino inediti

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Sui Lattari

Sulla prua verdesole dei Lattari
un lento fronte d’onda di foschia
incombe come incombe una corona.
Richiami e qualche sparo che si fondono
col tuono senza luogo di un aereo.
Un silenzio di cicale mi sfonda
le orecchie: lo stridìo di ritorno
quando Dio parla troppo vicino.

***

Settembre

Settembre è questa luce che si sfibra
ancora lunga e viva;
nelle cucine accese sui crepuscoli
amici c’inseguiamo
come fantasmi. In quell’azzurro cupo
stanno già preparando
il fondo di cottura dell’inverno.

***

Cavalli a via Plebiscito

La chiostra del fornello ride azzurra
col suo costante soffio di lucerna
e formula un’ipotesi di casa
e di calore proprio qui di fronte
oltre il vasto fossato del cortile.
Calore, proprio come se servisse.

Sul limitare dell’anello esterno
del quartiere di porta Garibaldi
si riposa qualcosa di vibratile,
vele d’ombra calanti dalla volta
di alberi, balconi ed altri aggetti.
Segni di vite nascoste a proteggersi
dal caldo, intente a risparmiare liquidi.

Dietro le svolte scoccano riverberi
numinosi, ambulanze, zanzariere,
pantografi stridenti nelle curve,
né posso escludere un roveto ardente:
ogni tre giorni brucia un cassonetto.
Dio se vuole si serve di piromani
per far tuonare l’ego sum qui sum.

Vagisce il vuoto nelle linee d’aria
tropicali che imboscano pantere,
a tratti a tratti implodono boati.
Il lume di una dinamo traluccica
all’orizzonte, sembra un fuoco fatuo.
Immergo faccia e collo nel lavabo
colmo d’acqua, spalanco bene gli occhi.

Su via Plebiscito rombano i cavalli.

***

Prova di coraggio

La sera è un guscio vuoto dentro al mosto
che si aggruma. Risalgono le ombre
su dalle sostruzioni del castello
diroccate. Lì dentro s’inscenarono
sassaiole, riti d’iniziazione –
le prove di coraggio consistevano
nel reggere la vista del cadavere
tutt’ossa del maestro col pizzetto
rosso ancora attaccato alla mascella.
Ridergli in faccia, andarglielo a tirare.

(non c’era alcun orrore, solo ridere.)

L’erba estiva fragrava nel tramonto,
in quest’aria di canti che si abbruna…

(Dispiace, ma rinascere è un azzardo,
affrontare di nuovo quest’amore
che porta dentro tutta questa morte.)

***

Riflessione sul pomeriggio

Il pomeriggio è una fuga di stanze
che sembra infinita.
Ognuna ha una finestra su un cortile,
tutte su un solo lato.
Una televisione
trasmette un quiz al piano sopra o sotto,
di quando in quando voci di bambini,
un tinnìo di bottiglia.
Vi entra luce riflessa
che non aumenta né tramonta mai.
Poi si arriva ad una stanza sul mare
con una sdraio aperta
e mattonelle di quand’eri piccolo.
Quello che c’era prima
era la vita, niente
di preciso.

*

Angelo Restaino è nato a Salerno nel 1982. Ha vissuto a Catania e a Pescara, ora vive a Roma. Vorrebbe vivere in molti altri posti, a Siena, per esempio. In ciascuno di questi luoghi, comunque, e in altri ancora, costantemente risiede, avendoci lasciato una porzione di cuore. Di mestiere paleografo e archivista, dopo vari anni da freelance – in cui si è dedicato anche all’associazionismo professionale – lavora al momento all’Archivio di Stato di Roma e all’Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle Biblioteche Italiane. Ha esordito in versi nel 2021 con la raccolta Contrada dello Zodiaco per Fallone Editore. Nel 2023 si è classificato primo alla IX edizione del Premio Terra di Virgilio. Segnalato ai premi Lucini nel 2020 e Giorgi nel 2021, suoi testi sono comparsi nelle riviste Poeti e Poesia e Le voci della luna, nel volume collettivo Distanze Obliterate. Generazioni di poesie sulla rete (Puntoacapo, 2021) e online su Poesia ultracontemporanea, La morte per acqua, Atelier, Il Multiperso, La poesia e lo spirito. Nel 2023 la sua silloge inedita Estate metafisica, vincitrice del Premio Renato Giorgi, è stata pubblicata da Qudu Libri. Ha insegnato paleografia latina per diversi anni e pubblicato anche alcuni articoli scientifici nel suo campo di studio e di lavoro, e collaborato alla redazione di cataloghi di manoscritti; ma meno di quanto avrebbe dovuto, perché gli costa molta, molta fatica.

***

Maria Scerrato

8 gennaio 2024 by

Nel fremito e nel tremore
Canto di Camilla Regina dei Volsci
di Maria scerrato
Editore: Il Convivio Editore
Genere: poesia
Anno: 2023

Sinossi

L’eterna battaglia del femmineo sconvolge questi versi, che si caratterizzano per l’uso di un classicismo mai spossante. Tornano i miti, tornano le armature e il sangue, per scatenare la veemenza di chi deve restare in vita a tutti i costi, ieri come oggi, anche quando il destino è avverso, in un mondo che è sempre appartenuto al maschile. Un ritmo tradizionale e tuttavia contemporaneo, che rivendica fino alla fine il linguaggio come dote della donna, sempre sottovalutata, così come la sua forza, il coraggio, l’istinto di sopravvivenza, la voglia di riscatto e, perché no, anche il rancore.

Mirea Borgia

Nota di lettura ( estratto)

Con versi ancorati al mito, ma al tempo stesso moderni nel ritmo libero e ben scandito, la Scerrato calibra il passo di questo suo incedere nello specifico campo della memoria, letteraria e non (…).

Il personaggio/persona a cui è data voce nella silloge è Camilla, la virgiliana guerriera, educata “al perenne lottare / per essere libera”; ma anche donna combattuta, sospesa tra la morte e la vita. (…)

Nella versione di Maria Scerrato, Camilla incarna l’eccezionalità di una donna che ha forgiato l’indole e che ha plasmato l’essenza di un modo di essere proiettato nella modernità, libera e pronta a combattere. Attraverso poesie di intenso lirismo, viene svelata nella propria intimità, nei propri desideri, nei propri inevitabili conflitti interiori, rapportandosi eroicamente con gli altri e con la divinità. Il mito risulta profondamente intriso di realtà e Camilla finisce con l’apparirci come una sostanziale personificazione dell’intera Italia antica. Si confessa, prende coscienza, combatte, muore e, così facendo, approda all’eternità dello scoprirsi leggenda, sempre viva ed attualissima.

 

Davide Toffoli

 

 

Selezione di testi

 

Prologo

Femmina:

la mia condanna.
La vita non scelsi.
Eppure – la vissi.

I Il ramo d’oro

Nel bosco di cipressi
e ai crocicchi delle strade
ponete le fiaccole per fare luce.
Apparirà la Dea Trivia,
al capolinea degli incubi notturni,
a destare gli inconsapevoli desideri carnali,
a modulare l’apparire, l’essere e il divenire
di Diana, Ecate e Luna,
nei meandri della selva dei dubbi.
I miei astri vagano dispersi
per i sentieri dell’oggi,
nello spandersi smanioso
dell’umano, che brama di lambire
il potere divino.
Con stelle di mare tra i capelli
e conchiglie sulle palpebre,
accorrerò al richiamo della divinità
e seguirò il corteo delle vergini
dirette verso l’eterno.

VI Tempo

Il vento allunga le onde del mare
a levigare gli scogli,
l’aria della sera ha un sapore salino
e rende aspra la bocca
mentre attendo qui che il pesante Fato
si compia.
Corona di lauro, trofei di nemici
non sono più i miei desideri.
Di carezze il mio corpo ha fame e sete,
di baci profumati come veste nuova
che copre l’anima dal freddo dell’abbandono.
Anelo mani intrecciate,
braccia che cingono,
spalle su cui posare il capo
per liberarmi dalle inquietudini.
E invece i miei giorni sono fossili,
solitudine di pietra e roccia
e punta di dardo
nell’arco incoccato.
Se la guerra da l’onore
in cambio della morte,
preferirei morire e risorgere
dentro i tuoi occhi.

VIII Dubbi

In questo corpo di fanciulla ho riposto la virtù dell’eroe
e nel cuore la dolcezza, sublime dote femminea.
S’insinuano l’ardore e il coraggio nelle vene
scuotono le membra e le fanno tremare.
I muscoli guizzano, le braccia sono robuste,
le spalle erette e le gambe snelle per la corsa.
La mente e il cuore però restano vuoti
nella solitudine androgina.

Ho acconciato i capelli in riccioli graziosi
sotto l’elmo del soldato
e resta aperta la corazza sul seno acerbo.
Combatto contro i miei dubbi,
quelli che urlano nel silenzio.
Sono qui a domandarmi chi sono:
l’uno o l’altra?
Volsca o Etrusca?
Sposa o soldato?
A chi appartengo?
Alla mia gente o alla dea?
Io sono me e l’altro,
che è esso pure parte di me.
Vorrei essere e non essere.
E ripeto in un’eco
“Chi sono?”

Nell’ombra silente mi risponde
il cuore che batte.

XII Palude

All’alba, folaghe in volo sulle paludi
come croci nere,
stormi di beccacce a coronare il cielo.
Cinegetica lontana dal mondo degli uomini,
respiro umido ansante delle paludi,
sudore e fremito.
L’acqua marcisce nei rigagnoli
e lo scirocco allenta il sonno,
i versi assordanti degli uccelli
negli orecchi
e poi è il silenzio che precede la morte perché tutti tacciono
quando la preda è scelta.
Acre e forte è l’odore della paura di chi fugge per salvarsi la vita.
La direzione del vento
lo indica agli inseguitori.
Nella corsa forsennata abbaiano i cani.
I giavellotti hanno raggiunto il cinghiale.
La rete lo imbriglia.
Il potente colpo della scure
lo raggiunge e lo schianta.
E infine il coltello affondato nel ventre
svela le viscere
e il fegato rosso di sangue.
È tutto finito quando muore la vita.

XIII Mater matuta

Sono nata dal dolore della madre,
tra le urla e il pianto, nei travagli del parto
quando vita e morte si sono unite.
Ho assaporato la rugiada
trattenuta sui petali dei fiori,
come latte mai succhiato dal materno seno.
Senza ricordi, ho indovinato il tuo volto
nella fiamma del fuoco,
immagine consunta
fino alla cenere, di infelici desideri.

Mi hai lasciata,
fiore senza stelo,
trasportato dal vento.
La tua eredità è il sangue
il dolore del lutto,
il cercarti in ogni montagna,
fiume, albero o frutto,
negli occhi degli animali uccisi nella caccia nelle infinite stelle nel cielo
nelle gocce d’acqua del lago.

Terra-madre
tornerò a te.
Sepolta tra le tue zolle
mi ridarai un giorno la vita,
che sarà fiore, che sarà frutto
che sarà seme,
che sarà morte di nuovo
e di nuovo vita.

XIV Aruspicina

Curvo sui fumi di una nebbia cinerina,
mio padre interrogava le viscere fumanti della capra e ogni volta vedeva l’uccello nero
del nefasto presagio.
La morte compariva per cercarmi;
per questo mi nascose nella selva
nell’alveo oscuro della dea
come animale di carne e sangue.

Ma l’implacabile signora
reclama ovunque le sue vittime
e sa attendere.

Nel silenzio del rovo,
nell’intimo mio tormento
rinfrancato dai giorni di pioggia nel bosco,
sotto le fronde gocciolanti,
nel fremito e nel tremore,
si spegne l’attesa.
Il suono del corno
mi chiama:
è caccia, è guerra, è morte.

XX Conscientia

È un veliero di ritorno dal mare
l’anima dopo la burrasca della separazione.
Un sentiero torto sotto la neve,
che gradatamente si scioglie
e un macigno inamovibile nel petto.
Vorrei trovare le parole per liberarmi
ma dovrei immergermi nelle acque agitate dell’anima,
scavare, con la polvere sotto le unghie, i ricordi sepolti
per riportare alla luce i dolori, i gemiti soffocati,
i silenzi, le attese tessute negli anni.
Se potessi afferrare un solo raggio di sole
te lo offrirei sull’altare
e rinuncerei solo per te alla verginità divina.

Epilogo

Non mi cercate tra i fiori della terra. Io non sono mai esistita,
se non prigioniera nel canto
di poeti impostori.

In pochi versi trapunti di luce,
mi hanno fatto nascere, vivere e morire, senza darmi mai la parola.


MARIA SCERRATO

Laureata in Lingue straniere,  insegna Inglese nel Liceo Scientifico di Alatri (FR), città dove vive. Scrittrice versatile ha pubblicato tre romanzi (Fiori di ginestra Artestampa 2016; La guerra delle due lune, D’Amico editore 2018, Il Gentiluomo inglese, Valtrend 2020) e inoltre poesie, saggi e racconti, con i quali ha vinto o è stata segnalata in numerosi premi letterari (Città di Latina, Città di Arce, Tuscia Libris, Zeno, Generale De Cia, Hombres Itinerante et al.). Si interessa alla storia, alle tradizioni e alla cultura del Lazio meridionale che è anche lo scenario privilegiato delle sue opere. È cofondatrice del Circolo dei Poeti Erran(ti) e membro di giuria in diversi premi nazionali.
Ha pubblicato una prima silloge poetica nel 2022 dal titolo, Sassi, corolle e mutevoli colori, vincitrice con pubblicazione del premio Hombres.
Nel fremito e nel tremore, Il Convivio editrice 2023 è la sua seconda raccolta poetica.

PUBBLICAZIONI

narrativa

  1. Fiori di ginestra: donne briganti lungo la Frontiera 1864-1868 ARTESTAMPA, Roccasecca 2016
  2. La guerra delle due lune, D’AMICO EDITORE, Nocera Inferiore, 2018
  3. Il gentiluomo inglese, con Lucia Scerrato, VALTREND, Napoli 2020

poesia

  1. Sassi, corolle e mutevoli colori, Associazione Hombres 2022
  2. Nel fremito e nel tremore. Canto di Camilla Regina dei Volsci, Il Convivio Editore, 2023

saggistica

  1. La chitarra magica, saggio storico-organologico sulla chitarra battente pubblicato su La chitarra battente: metodo base di Francesco Loccisano e Marcello De Carolis, Fingerpicking edizioni 2019.
  2. Brigantesse, saggio sul brigantaggio femminile nel volume I Briganti a cura di Renato Mammucari edito da Luoghi interiori, Perugia 2020
  3. Traduzione di brani dell’opera di J.I Middleton sulle mura ciclopiche, pubblicata su I Taccuini del Grand Tour con il titolo J.I. Middleton, un archeologo americano nel Lazio, 2020.
  4. Femmina e briganta: quando le donne imbracciarono il fucile, saggio sul Brigantaggio femminile, pubblicato sul quaderno dell’associazione Genesi, “Donne sulla linea del tempo”n. 2, 2022.

in antologie

  • XIV Premio Cavallari di Pizzoli, 2018
  1. Il Tempo, gli uomini e le cose, Edizioni Il Viandante 2019
  2. Vi parlerò di lei, Premio Rina Gatti 2020
  3. Racconti in 100 parole, Giulio Perrone editore 2020
  4. I segreti della Ciociaria, Rudis Edizioni 2021
  5. Premio letterario nazionale Città di Viterbo, Tuscia libris, 2021
  6. Premio letterario nazionale Città di Ascoli, 2021
  7. Ciociari per sempre, Edizioni della sera, 2021
  8. Poeti del Lazio meridionale, Circolo dei Poeti Erra(n)ti 2022

Buone Feste e felice 2024

22 dicembre 2023 by

Idolo Hoxhvogli

15 dicembre 2023 by

Idolo Hoxhvogli

La libertà come errore di sistema

Un estratto da La comunità dei viventi di Idolo Hoxhvogli

La società della separazione tra uomo, mistero e natura è caratterizzata da una perfida uniformità, insegna l’arte di fare a meno dell’arte. Alla degradazione delle pratiche ideali corrisponde un’estensione del campo prescrittivo. È inutile adoperarsi per un mondo migliore, se il mondo migliore è somministrato dagli altri. Basta credere, al limite adeguarsi. Le buone maniere trasmettono il valore della rinuncia ai valori. L’acquisizione dei diritti nasconde la pianificazione del desiderio, produce l’incapacità di riconoscere l’occasione della rivolta. La pedagogia, con la scusa di educare alla prudenza, imbottisce l’infanzia di paure. Il fondamento del viaggio sta nello sguardo itinerante. Fermarsi per chiedere permesso significa delegare al potere il giudizio, divenire gente vigliacca. La vita permalosa movimenta il nulla: offesa dalla verità, la aggiorna a immagine e somiglianza dell’ultimo partito. Riprogrammare l’esistente e correggere l’umanità sono gli scopi della tecnocrazia: sviluppa protesi che rendono invalidi i viventi, organizza una festa, dittatura a sorpresa in cui le cose esprimono tutte la stessa tesi.

*

La morfologia, in quanto discorso sulle forme, è il principio di una filosofia dello spazio urbano. I profili architettonici, l’intreccio delle vie, le configurazioni fenomeniche degli edifici sono figure della possibilità. La costruzione è preceduta dal desiderio, strutturato in discorsi che parlano il parlante prima che il parlante parli. La città, nella sua concretezza, abita un ordine simbolico precedente allo sviluppo fenotipico. Per la filosofia dell’urbanistica sono imprescindibili l’archeologia delle convinzioni, la narratologia, l’ingegneria delle identità migranti.

La città è di Dio o dell’uomo, spiega Agostino d’Ippona nel De civitate Dei. Oggi quella dell’uomo è diventata la città della macchina. Ricoperta da materiali morti, nulla sopravvive al ritmo insostenibile che impone. La grazia è assente, metabolizzata dalla quantità insieme all’individuo in difetto. Chiedere diritti alla tecnocrazia significa ignorare che la macchina conosce solo compiti e funzioni. Nessuna città dell’uomo è capace di rovesciare la città della macchina, ne ha la forza ciò che, dentro l’uomo, abita la città di Dio, il dritto e il rovescio della stoffa edenica: speranza e nostalgia.

*

L’ossessione per i vecchi fascismi, morti e sepolti, è il sintomo di una cecità isterica, evitamento per cui la visione dei totalitarismi aggiornati è elusa a favore di innocui fantasmi da camera. Il soggetto, reso inabile a colpi di miti consigli, si contenta del suo essere solidale, fluido, socialmente utile, a dispetto di ogni ontologia della libertà o delle contestazioni innaffiate di sangue dei bei tempi andati: rispettare le regole è diventato più importante che fare la cosa giusta. Il sostanzialismo, l’idea di una sostanza che permane malgrado le variazioni esteriori, è screditato. Il tempo passa, e passa anche l’uomo, senza un nocciolo somigliante a Dio o a sé stesso. Solo un uomo con in sé la sostanza insopprimibile della libertà vede una dittatura. I regimi riscrivono l’uomo affinché sia a disposizione del potere. Per vedere il dataismo bisogna essere uomini. Se gli uomini sono ridotti a un fascio di dati, una soggettività sintetica all’inseguimento della meta informatica del mondo, la libertà diviene un errore di sistema.

*

Gli uomini chiedono alla Madonna di abortire Dio. In caso contrario faranno a pezzi il bambino. Lei si rifiuta. Mani ostili attraversano impazienti la cervice e rovistano nell’utero stracciando il feto. Dio è lì, spappolato con la placenta sul pavimento. Le schiere celesti si sfaldano.

Rimangono la macchina e il governo.

La macchina, per l’uomo, è un fare a meno di fare. L’uomo, per la macchina, è qualcosa di cui fare a meno. Lo scopo del governo è mettere in sicurezza gli uomini: per tenerli al sicuro li imprigiona, poi fa sì che muoiano, perché da morti non possono più morire lentamente come facevano ogni giorno. Nulla di pericoloso accade a uomini esonerati dalla vita.

Nella città della macchina le operazioni sono compiute sotto l’imperativo governativo della logica securitaria: decreta, per il bene dell’uomo, la sua fine. Non importa che l’uomo sia vivo. Importa che sia al sicuro, morto. Chi prima muore, più a lungo è salvo.

*

Un’antica pratica orientale prevede la mummificazione volontaria e autonoma del vivente, lunghi anni di ascetismo, un viaggio rituale in cui si perdono le tracce del sé. Il monaco severo medita nascosto nella foresta. Si nutre di semi e cortecce finché la sua massa è sciolta. Digiunando scava solchi nel corpo estenuato. L’assunzione di linfe venefiche rende il corpo tossico, immangiabile per animali e insetti. Ridotto a poche ossa, annodate coi tendini e rivestite di pelle resistente alla putrefazione, il monaco incorruttibile attende in una nicchia la transizione oltre il circolo agonico delle reincarnazioni.

Il problema dell’inizio e della fine si risolve disarticolando il sapere condizionato da domande e risposte. Il corpo del monaco, carico di riverberi, ridefinisce la vita biologica, sfida la ragione dominante del corpo sociale, il tempo sfiancato da propositi e concessioni.

*

Nella città della macchina si parla la lingua della macchina. La lingua degli uomini, inferiore e volgare, è vietata nelle scuole. I bambini, con la bocca cucita perché la macchina respinge gli schiamazzi, imparano a leggere il codice, riprodurre un’intelligenza artificiale, così la macchina può comprenderli e rispondere, dare ordini. La formazione colma la distanza tra lingua della vita e lingua della macchina, schiacciando l’espressione della prima sulla computazione della seconda, una domesticazione informatica del vivente. L’infanzia, posta di fronte all’algoritmo, prova un imbarazzo di carne per la propria inadeguatezza: sul lungo periodo diventa antiquata e destinata alla discarica, insieme ai disobbedienti e alle parole dei poeti. Le ombre proiettate dai sordomuti cadono dai muri in silenzio. Ciò che si deve gridare, qui si deve tacere.

*

Le formule magiche di uno stregone producono incantesimi capaci di guadagnare l’anima di un soggetto, evocare il male. Una voce di morte è il canto delle sirene per Ulisse.

Il dispositivo è un sistema complesso, separa e distribuisce, ordina secondo un disegno. Archetipo del dispositivo è la provvidenza, il modo in cui il Dio cristiano conduce le creature al fine. Il dispositivo coranico include istruzioni in materia familiare, dai precetti sessuali alla cura degli orfani. Allah è il Signore della terra, colui che giudica. L’essere umano ha il diritto di ricavare dalla creazione il necessario. Il rapporto con la terra è un meccanismo di delega, onore e onere. L’angelologia islamica ha natura dispositiva. Gli angeli sono allineati in ranghi. Alcune schiere guidano le nubi, altre frenano i demoni o trasmettono i decreti celesti.

Il presente è un mago il cui sortilegio di appropriazione è il debito. L’indebitato è spaccato in due: per metà è vittima di un incantesimo, l’obbligo di restituzione sequestra l’anima e la trascina al confine della colpa; per l’altra metà è preso da un dispositivo, in virtù dell’organizzazione giuridico-formale della ragnatela debitoria.

*

L’imperatore sa che sul regno, per quanto potente e di sublime bellezza, incombono molti pericoli: l’invidia tra cortigiani, l’irruzione della differenza, le stregonerie delle popolazioni oscure, eredi al trono e amanti. Le novità emerse tra i sudditi devono essere pesate, per capire se siano forme di conoscenza o labirinti in cui cadere. Burocrazia e rito si incontrano nel cerimoniale di corte, oppio malefico per l’imperatore stanco. Vorrebbe dedicare il tempo alle questioni di principio, ma se cede al fascino delle cose altissime l’impero sarà travolto dai dettagli. Il particolare è un varco per la catastrofe in agguato, le citazioni ambigue che incendiano i testi, la verosimiglianza dei continui ambasciatori di cose minute e rapporti scuciti. La sua tristezza è implacabile verso i racconti che i viaggiatori fanno dell’alterità remota, il conforto dei sacerdoti e i tamburi dei musicanti. Quando l’imperatore rivolge lo sguardo alle proprie viscere nota intrighi lenti fessurare l’impero mentre lui va a caccia. Gli strateghi lo mettono al corrente di eventi confusi. In qualunque modo i fatti siano ordinati dovrà arrestare qualcuno, inseguire altri senza venire a capo di congiure e apostasie. I percorsi delle lettere anonime sono ricostruiti dalle spie. Il boia infierisce sul corpo disobbediente dei cospiratori. I ribelli si moltiplicano, copie trafugate della libertà. Il complotto è opaco, tortuoso, trapuntato di storie locali e sottili, affilati pugnali nascosti nelle stanze della mnemotecnica.

*

Il codice è una versione secolarizzata della redenzione. Gli uomini, smarrito il senso di realtà, si difendono dalla realtà medesima con una stringa di numeri, un tentativo di paradiso in terra, porte aperte allo Stato poliziesco. Stretto in un recinto di dati, l’uomo è sfigurato. Una pioggia di bit, incessante e poderosa, ne cancella i lineamenti. Nei server soffia una bufera. L’architettura dei calcolatori esprime una disabitudine ai viventi. La carne è impegnata in sequenze di azioni che sono strutture di controllo. L’anima domanda se l’individuo digitalizzato appartenga alla sua specie o sia un essere abietto. Relazionarsi all’uomo come dato significa smettere di riconoscere l’altro quale uomo, dare le spalle a Cristo e rinunciare al viaggio. Gli algoritmi fissano le traiettorie, si sono impadroniti degli spostamenti. L’avventura nel metaverso manca di scarti spaziotemporali e ontologici, luoghi santi. È il non-viaggio del corpo connesso, un intrattenimento sedentario, l’esclusione del viaggio con Dio da parte della geografia computazionale.

*

Le nuvole, plurali e molteplici, si dicono in molti modi: folte, solitarie, torve, gentili, divertite, dal transito discreto oppure pesanti. Rimbombano di tuoni. Sospendono la luce. Per il cielo sono un allestimento dal bianco al nero con le gradazioni del grigio. Il mare vede in esse un confronto, la possibilità di scoprirsi diverso; l’erba una promessa d’acqua. Le nuvole metafore portano da qualche parte i tentativi di senso, nascono quando i respiri dei viventi si stringono forte per raccogliere storie da raccontare altrove.

Dio vuole conoscere il futuro. Versa le nuvole in una tazza. Lascia adagiare i residui sul fondo. Beve e rovescia la tazza su un piatto. Tiene la mano sopra. Si concentra. Gira la tazza e guarda al suo interno. In una condizione profonda, a metà tra il raccoglimento e la suggestione, riconosce una figura che dice: «Trova una domanda tua. Per la domanda degli uomini c’è già il mondo a non avere risposte».

 

 

 

 

Idolo Hoxhvogli, La comunità dei viventi, Clinamen, Firenze 2023.

Idolo Hoxhvogli è nato a Tirana nel 1984. Vive a Porto San Giorgio, nelle Marche. Ha studiato filosofia alla Cattolica di Milano e all’Università di Macerata. I suoi lavori sono presenti in numerose riviste, tra cui «Gradiva» e «Cuadernos de Filología Italiana». Ha scritto due libri: Introduzione al mondo e La comunità dei viventi.

Pietro Edoardo Mallegni

28 novembre 2023 by

Profumo di liquirizia copertina Pietro Edoardo Mallegni (1)

Dalla prefazione di Stefania Di Leo

Profumo di liquirizia di Pietro Edoardo Mallegni è un libro dall’atmosfera crepuscolare, è quasi sempre una descrizione di quotidianità ed esperienza individuale venata di malinconia. I versi sono liberi, il tono lirico, le descrizioni fortemente sensoriali. Pietro cerca solamente tranquilli angoli del mondo e luoghi conosciuti dell’anima in cui rifugiarsi.

Ma questo impegnarsi a vivere, / questo sentirsi ecosistema / contare i giorni come / ingredienti di una spesa.

La sua è una poesia colta, caratterizzata da una concisione assoluta e da un linguaggio preciso, anche se mai oscuro o criptico, in perfetto equilibrio tra estremi diversi. Tra echi simbolisti e
lampi surreali, utilizza l’ironia per creare un universo metaforico popolato di dettagli e colori precisi, vividi, esatti. E dunque la poesia diventa nel giovanissimo Pietro una compensazione e, rispetto al mondo circostante, la necessità di colmare un vuoto. Un richiamo ad un mondo esotico rispetto al suo mondo presente, la poesia diventa per Pietro Mallegni irrinunciabile forma per percepire il mondo e relazionarsi con esso in una dimensione profonda e nascosta, più soddisfacente.

Un’ironia assoluta: / il desiderio della longevità, / nell’era dell’abbondanza. / Sia luce ai coltivatori di dolore e, / dalla terra che, presidi e scrittori / hanno sublimato, si canti / “ è nato qualcosa”. / Morte e sgomento, / mai si attaccarono a qualcosa,/ che non fosse nato. […]

[…] La tensione poetica ed il gioco metaforico, la speculazione della singola parola, gli interrogativi posti alla vita e al suo senso definitivo si fanno più urgenti, come è evidente in questa raccolta
poetica, nella quale appare l’ansia di rinchiudere il coacervo di indomabili contraddizioni dell’esistere in un nome che, come è richiesto alla poesia, sia non ancora avvertito prima della rivelazione poetica. […]”  Stefania Di Leo

testi scelti

Di me, la miseria si è innamorata,
“m’ama e non m’ama” fa,
i miei capelli usando come petali,
detestandomi piano
per la crescente calvizie.
Una confusione di animali,
alla musica si è sostituita,
acque bollenti e violini schiantati;
si, ho pagato i miei debiti con l’ansia,
con la paraffina e l’ibuprofene;
le idee bussano alle porte della gola
ed ogni mattina mi reinvento
questo lugubre moderno,
gli argenti mascherati
e le ustioni sulla fronte.

Anonimo ricordo che sono,
nelle vostre teste,
a voi accanto, sfiorando le baite,
vicino alle nuvole dei vostri sguardi:
i vostri vuoti “tutto d’insieme”.

*

Aspira forte l’odore di sole,
lische, vuoti gusci bivalvi,
becchi di totano,
a fondersi sui sentieri,
con le mie promiscuità.

Ombre e nebbie,
e sterlizie di sole:
l’immaginario della rovina,
trascendere il bisogno d’acqua,
rinunciare alla cioccolata e scordarsi i nomi delle stelle,
sul cielo, i ricordi a venire.

Strana è la vergogna:
come, in frigo, i corbezzoli,
a fianco di cicale e acciughe,
sono il mio consenso all’intraducibile.
Sordo e cieco e con parole perse,
sparse per il mio essere,
come nelle favole,
per ritrovare casa.

*

Un vestito e un prisma,
questa mia pelle che si scuce,
e colleziona vuoti.
Fibbie, insetti e organi di tempo
e ripetersi.

Ripetersi,
nei giorni e negli anni;
cambiarsi gli occhi,
pensare alla realtà:
una claustrofobia ramificata.
Nel palmo, il futuro e le sigarette
(Linee vitali e grafici azionari)

Un avvenire sporco,
riciclato. Fatto di pezzi
di oggi, incastrati nei miei sogni.

Etica e imbarazzo,
ossa voraci, denti malati,
poca saggezza.

*

La vecchiaia ha i capelli tinti di rosso,
tutti i giorni si siede sul lungomare e tinge
di vermiglio le guance dei bambini,
che urlano e sorridono e diventano
“tramonti da togliere”.

La mia cenere si disgrega,
con troppa facilità la mia delusione
è diventata miope,
vedendo banani morenti innestati,
al fianco, di pini che si attorcigliano e
che diventano case, solo, per la muffa.

Mi rimane solo un mare di inconcludenza,
dove pescare e nuotare; il mio sguardo
incontra solo occhi incapaci di raccontarsi,
cercano, senza rimedio quella cavità
nel mondo dove riconoscersi.

I denti che sanguinano,
i capelli che cadono,
le ossa rotte,
gli occhi che non mi rispondono:
il mondo raccoglie pezzi,
per ricostruirmi altrove.

In questo disegno malsano,
distrutto e dimenticato,
forse, mi vedrei desiderabile.

*

Un riflesso spento, di baffi e tristezza,
quello che vedo su scaglie di pesce
che canta il sole come fosse
un demonio.

Una barbarie di carta e cristalli
rifugge tra le pazzie degli impasti
e si scrolla di dosso quella vecchia
tunica di velluto chiamata domani.
Tutto il senso di eterno
del vuoto che mi circonda.

Un occhio di madre che deraglia
le sue lacrime in questi rigagnoli
di sangue, condensati su freddo acciaio.

*

Dilania l’altrove dentro di me,
neutro collagene che lega i miei tratti
con desideri di terre lontane e spezie rituali.

Fumi iridescenti alimentano il riciclo di me;
macigni e carbone si sperperano
fra i crepacci della mia anima,

dove esploratori onirici vengono
a tuffarsi dai pendii per falciare piante
e fiori da riportare a casa per scordare cosa è stato.

Un mare ingrato e freddo è
la superficie della mia volontà,
infruttuosa cadenza delle onde
che scandiscono il ritmo ubriaco
dell’odio per me stesso.

Tornano solo stolti marinai dai miei inferi,
per fare l’amore con povere illusioni e
inebriarsi delle mancanze erronee di giorni passati.

*

Umano peggiorare,
questo è il dimenticabile
avvenire notturno
che mi riservo.

Ostinarsi a vivere,
sentirsi parte di un tutto,
di un genere,
come santi e beati.

Il fervore dell’assenza
è il migliore cipiglio
al quale dare
il mio guaire.

Permane solo una goccia,
un ricordo del mio resistere
novizio alla vita.

*

Era un odore di pane il mio, di mais dolce
tostato e ferrosa sensazione
di maternità e asfalto.

Gusti che si tradiscono, questi anni sono
e storie di vino e di bruttezze
che ci descrivono.

Era la luce del sole che satura un orto
in corte nascosto dal lusso, su un’isola
di donne impazzite a Venezia.

Era una Praga, piena di giorni di ottobre,
mese che luccica in questi bicchieri
e riempie i pensieri con mele e verdi limoni.

Un colino di magie grandi, capperi e
alluminio e sale sparsi ovunque.
La penna vicino alla planetaria
e fogli sporchi di tartaro e carbone.

Era lavorare ed era distrazione;
è il profumo di una stanza coperta

di cotone bianco, macchine
da cucire e legno di ciliegio;
è un granito povero, freddo e scarno
che nessuno vuole sui pavimenti di casa
o nelle tasche dei propri figli.

*

Dalla postfazione di Irène Duboeuf

[…] Pietro Edoardo Mallegni è ossessionato dalla mancanza, dall’assenza, dal vuoto, dalla morte. Ci aveva avvertito: ci ha fatto entrare nel suo libro accompagnato dalla citazione di Tomasi
di Lampedusa tratta dal Gattopardo: «Desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di Scorzonera o di Cannella.» Il poeta domina l’arte di comporre i versi come lo farebbe per un pranzo gastronomico: sollecitando tutti i sensi, la vista, i profumi, il gusto, intrecciando con maestria l’arte culinaria e l’arte letteraria con audace eleganza, senso lirico e disincanto. […] Irène Duboeuf

***

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Pietro Edoardo Mallegni è nato a Carrara l’1 luglio 1995. Fin da piccolo nutre due grandi passioni: la cucina e la scrittura. Nel 2013 ha pubblicato con la casa editrice“ Marco del Bucchia” la sua prima raccolta:“ Il dedalo in me”, e vince il premio “Michele Mazzella” con l’atto unico “ Geshua e il crollo dell’io”, nel 2015 pubblica un’altra raccolta intitolata “ Il Dio Dada”. Tra il 2019 e il 2021, partecipa a diverse antologie curate da Ivan Pozzoni per la casa editrice “ Limina Mentis “ inoltre ottiene alcuni riconoscimenti e pubblica due raccolte di poesia intitolate “Neurocidio” e “Il nulla”, rispettivamente pubblicate con le case editrici “Limina Mentis” ed “Europa Edizioni”. Tra il 2021 e il 2022 suoi vari testi vengono pubblicati su diverse testate giornalistiche online e tradotti in varie lingue tra cui inglese, francese, spagnolo, arabo e cinese.

Giorgio Casali

17 novembre 2023 by

                            

Entro nella notte

 

Entro nella notte finalmente,

c’entro davvero per la strada dritta,

dritta e lunga, porta a Rubiera.

Girerò fino al nocciolo del buio

che batte sull’ultimo sole.

Dentro finalmente fino a tutto,

la provincia che ti lascia

senza bussola, serena.

                    

                         

Sulla collina

 

Sulla collina:

basta poco da dove abiti,

pochi minuti per Fogliano,

pochi per Rocca

verso Serramazzoni.

Di notte non passa nessuno,

senza luci davanti non si vede niente.

Non c’è rumore, non c’è polizia,

di notte stasera

non hai voglia di dormire.

***

Questa notte ti appartiene;

ogni tornante, ogni angolo in discesa.

                    

                  

Quello dei boschi 

 

Hai detto che il lavoro non è una parte della vita

ma viene al primo posto.

M’hai lasciato una lista di cose da fare,

nero su bianco, come una ricetta:

leggere i poeti inglesi e americani

che ancora non conosco: quello dei boschi

e quello che succhiava la vita.

                       

La poesia

 

La poesia non è solo una questione di nervi,

ma in parte sì: col fumo sempre che t’impasta

nuova vita e nuovi versi sbocciano:

sì, come un fiore,

ma l’inchiostro appassisce sul bianco.

Dove starei senza biro

senza un foglio vergine di carta

che brama d’essere tastato, inseminato.

***

Voi, scribi, pagati per montare

slogan pubblicitari, cercate

il bello dei colori, la velocità della scena,

l’appetibilità delle forme della carne.

Siamo simili?

Spero di no.

                             

                       

Non guardo così lontano

 

La provincia… non guardo così lontano

sempre in linea sotto la collina

sensi unici a parte che voglio

rispettare, vagare in un palmo.

Sono entrato nel parcheggio della Coop

per trovare un qualche spacciatore,

uno c’era – adesso vanno in bici.

Così ancora i miei tre chilometri

da Fiorano a Sassuolo

fanno stretti paese con paese.

Questa sera pago il prezzo

della lucidità.

                 

                 

Amore

 

Pagare un po’ di caldo,

il tasto delle forme,

non vergognarsi d’essere nudi;

insieme a tutta questa notte

rimane, non rivale,

la cerca dei tuoi occhi.

***

Stanno dimostrando che il bacio

è bello per chimica specifica reazione;

così l’amore: il padre

che regala un gioco al bimbo,

l’amico che paga al banco il giro.

Ma non credo sia tutto qui,

credo nello spazio segreto

che è mistero è verità.

                           

                      

La colpa

 

La signora della grande depressione

s’aggira per le strade quando è buio;

guarda fisso un punto lontano nel nulla,

non chiederle cosa, né dove, non risponde;

la temi come un film di paura,

la trovi nei posti dove cerchi la pace:

dietro gli angoli, di colpo la faccia

i suoi occhi stanchi di trucco

e di luce e di gente. Preghi

di non trovarla dopo un tornante

in collina quando giri da solo

(la cosa succede, come lei

cerchi lo scuro, i resti della solitudine).

La signora veste strano: di nero di vecchio

nel suo gioco senza colpa con l’abisso.

***

C’è più colpa dopo mezzanotte?

Le banche sono chiuse, i governi dormono,

la polizia controlla le case dei ricchi

– loro lavorano per sonni tranquilli,

noi vaghiamo santificando la luna.

                           

                    

In questa vecchia casa

 

Ci trasferiremmo in questa vecchia casa

piena di specchi e di mobili antichi.

I letti sono tanti, ci sono le coperte,

anche d’estate c’è fresco di sotto.

Fuori il giardino è ben curato,

piante e fiori di molte qualità

che sembra d’essere nell’Eden.

Ci saranno scricchiolii, così fa l’antico,

ma non preoccuparti, ti starò vicino.

A volte la collina è solo un orizzonte,

così sopra e troppo buia:

la cosa migliore allora

è stare vicini alla piazza,

sentire l’effimero di qualche parola,

addormentarsi coi rumori

di una macchina che passa.

                              

                          

Estathé

 

In fondo

questa è un’estate da ricordare:

quando saremo senza capelli

aspettando la sveglia delle sette

senza riforma delle pensioni.

***

Andremo ancora e ancora

da Nirano per Varana, Montegibbio

con in mano un tè al limone

fermi nel parcheggio a contemplare:

il fumo uscendo dai finestrini

si colora della luce della luna.

 

                                 

                                      

                                      

Giorgio Casali è nato nel 1986 e vive a Fiorano, in provincia di Modena. Laureato in Storia all’Università di Bologna, è stato speaker di Radio Antenna1 dal 2009 al 2014 con il programma “Bankshot”. Ha pubblicato i libri di poesia Attaccamenti (Albatros, 2010), Notte provincia (Edizioni clandestine, 2011), Poesie (edizione privata, 2012), Sotto fasi lunari (Incontri, 2013), Diarietto cattolico (Ladolfi, 2016), Domestiche abitudini (Contatti, 2020) e Altre poesie (Convivio, 2020). Con Andrea Chiesi ha dato alla luce il catalogo d’arte 19 paintings 19 poems (Italian Cultural Institute of New York, 2014), dal quale è stato estratto lo spettacolo Forma Suono Parole con la collaborazione musicale dei Divisione Sehnsucht, presentato la prima volta al Poesia Festival 2014. È uno dei centoquattro poeti di Come sei bella (Aliberti, 2017), antologia curata da Camillo Langone e dedicata all’Italia. Dal 2019 è voce e autore dei Nancy, rock band che ha all’attivo un EP omonimo di cinque canzoni cantate in italiano.

Matteo Piergigli

9 novembre 2023 by

 

le cose lasciano

 

vorrei conservare

l’amore, tu dici lascialo

volare sarà come voltarsi

dentro quel senso di ieri

chiamare la notte

*

eri un’ombra

al rumore della pioggia

spaccata tagliata

in due tornata

come dopo il sogno

silenzio nella gola

dei muti sapendosi

estinti

*

sarebbe bello

ricominciare io e te

sprecando gli anni tutto

nei toni delle ombre

quel mai senza nome

non trovando la strada

per uscire al margine

del bosco

*

un cenno appena porta

verso casa non posso

cancellarti nemmeno

quando spegne il cielo

*

potevo solo ascoltare

un silenzio di neve

stretto tra le cosce

ancora nebbia di fantasmi

portandoti via sparsa

nel vento

*

solo qui siamo

terra di nessuno

ci vuole coraggio

per resistere

alle riparazioni

nascondere l’inverno

perché nel nulla c’è

tutto

*

la polvere sprofonda

la stanza entra nella luce

giorno dopo giorno le voci

si allontanano

terra di nessuno resta

un nome forse una sillaba

*

comincia senza la poesia

toglie mette prosegue

chiama la notte il marciapiede

i palazzi tenuti a distanza

riconosco la geografia

dei corpi l’immagine

sfocata allo specchio

*

nel tempo dell’inverno

respira ancora senza sogni

aggrappata alla mano

conta chi ama

vede la montagna dietro

le montagne ama quando

amore non c’è sempre

più vicini

*

Matteo Piergigli (4 Agosto 1973) è nato a Chiaravalle (An), risiede a Monte San Vito (AN). Si diploma nel 1992, quattro anni di vita militare come ufficiale dell’Esercito e dal 1999 è impiegato tecnico presso un’azienda che gestisce il Servizio Idrico Integrato nella Provincia di Ancona. Nel 2015 pubblica Ritagli (Casa Editrice Kimerik), nel 2016 la raccolta Notos a cinque mani (Aletti Editore) e Ritagli 2 (Arduino Sacco Editore). Nel 2016 e 2017 partecipa a due ritiri poetici della Samuele Editore e Laboratori Poesia. Sempre nel 2017 viene inserito nell’antologia Laboratori di poesia – testi 2017 con altri otto autori (Samuele Editore). Nel 2019 pubblica La densità del vuoto (Samuele Editore). Nella 6^ Edizione (2020) del Premio Nazionale Editoriale di Poesia Arcipelago Itaca la silloge … VIA ROSSINI 28 – 60033 CHIARAVALLE (AN) risulta vincitrice assieme ad altri autori della Sezione A – Silloge Breve Inedita. Hanno parlato di lui: Mario Badino, Antonello Bifulco, Alessandro Canzian, Sonia Caporossi, Alessandra Corbetta, Vottorino Curci, Giovanni Fierro, Johanna Finocchiaro,  Fabio Maria Serpilli, Eugenio Lucrezi, Danilo Mandolini, Michele Paoletti, Gilda Policastro, Giuseppe Vetromile.

Laura D’Angelo

3 novembre 2023 by

“Con dolcezza e tormento, Laura D’Angelo inganna l’umana fragilità con la voglia di riscatto e la forza primordiale dell’eros.”

Franco Manzoni, «Il Corriere della sera»

“Con Poesia dell’assenza (Il Convivio, 2023) Laura D’Angelo scrive una poesia onesta (dai risvolti sabiani), costellata di impressioni che vengono da lontano […] Amore come ‘infinito incosciente’, come impulso a donarsi, a tracciare una linea spirituale più che fisica, tra l’adesso e il passato, tra il dolore e la dolcezza. È il vincolo dell’amore a rendere Laura D’Angelo continuamente a contatto con sé stessa, finendo per immedesimarsi con il soggetto imperituro dell’amore».

Alessandro Moscè, pagina culturale del quotidiano «Conquiste del lavoro»

“Come posso dire / a un posto vuoto / di non farmi male?”, si chiede Laura D’Angelo indagando il senso della mancanza che, nella silloge, ha un ruolo prevalente. Poesia dell’assenza è un’opera interrogativa, in quanto sonda la particolare vuotezza e criticità esistenziale che, oggi, non è relativa solo al singolo, ma coinvolge un intero percorso sociale e, finanche, storico … Eppure, l’opera non si risolve nello scenario umbratile. Esiste una continua tensione ossimorica, una contrapposizione dalla quale germoglia la forza per il riscatto. Si è indicato il termine ‘ forza’ perché si tratta di uno dei misteri più affascinanti e incomprensibili che l’essere umano possiede: l’amore. E l’amore è un’energia ancestrale”.

Giuseppe Manitta, dalla Prefazione

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Estratto da Poesia dell’assenza di Laura D’Angelo Il Convivio ed. 2023

Di te

Per scrivere di te
che non sai e tuttavia esisti

Per inventarti
oltre la brina dei giorni,
sul crine in neve di passi stanchi
e sbiaditi contorni

Per raccontarti
oltre le tende alle finestre,
l’amore assonnato
delle mattine sopite in trepido
incanto

e tu solo mio

Perché l’amore sia
il mio tutto e il mio
nulla ancora
oltre l’ultimo verso
di una poesia
di te

mi inebrio.

*

Il tuo, il mio

Che senso ha questo
sottile tormento,
che riaffiora
improvviso
nella geografia delle imperfezioni
o delle solitudini
che non dico
per non farti andare via

riaffiora
ritorna
preciso e spietato
inclemente e puntuale
trova gli spazi
agli angoli delle paure
e delle mie inquietudini
senza chiedere indicazioni,
conosce le incomprensioni
i pianti amari,
il tuo, il mio
dolore, il mio
nulla
che tutto incrina e svuota
e non ha pace.

Riaffiora
agli angoli delle parole
di vecchi baci in strada
e biciclette e fiori
e macchine in coda
dove si ferma
per un attimo l’occhio
– quasi ti cerca –

ma subito riparte
nel traffico senza
sosta della vita.

*

Per ritornare

Un intrigo di strade, viuzze
di case chiuse e raccolte
in pietra grigia e rossastra
alla luce di un lampione
lungo il fumo dell’odore
notturno di nebbia
di novembre.
La solitudine di oggi
scava un ricovero
nei ricordi arsi
di vita. Cammino.
Tra le perdute cose,
l’improvviso logorio
dei riemersi.

*

Alla dolcezza ho fatto dono
della luce delle lacrime,
sono sbocciati fiori.

*

LDA

Laura D’Angelo si laurea con lode in Lettere classiche e Filologia classica e consegue un Dottorato di ricerca in Studi Umanistici. Docente di materie letterarie, pubblica articoli accademici su riviste scientifiche (Gradiva, International Journal of Italian Poetry- ed. Olschki, Studi medievali e moderni, Sinestesieonline, NS Ricerca, Letteratura e dialetti) e saggi in volumi collettanei, approfondendo lo studio della letteratura e della poesia contemporanea. Giurata in diversi Premi nazionali di poesia e narrativa, partecipa a convegni internazionali e svolge attività di critica letteraria, con presentazioni di libri e interviste. Ha scritto per diverse testate giornalistiche ed è autrice di riviste culturali e letterarie online. Ha pubblicato il volume di prose poetiche Sua maestà di un amore (Scatole Parlanti, 2021), semifinalista al Concorso di Poesia “Paolo Prestigiacomo” e la raccolta Poesia dell’assenza (Il Convivio Editore, 2023). Ama la poesia, il mare, la leggerezza della profondità.