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Giovanni Baldaccini

21 novembre 2018

foto baldaccini

Una sera di vento

Senza troppi saluti
alla fine ce ne siamo andati tutti
e abbiamo lasciato che cadesse
quello che doveva cadere (nessuna mano si è sporta).
I cappotti sapevano di caldo (come era necessario)
ma le mani erano fredde (intendo dire che intorno si gelava)
e forse è per questo che non ci siamo salutati abbastanza.
Tuttavia era previsto
che le luci si spegnessero all’improvviso
come se non ci fosse nulla alle spalle
e che si scivolasse
e dunque non capisco quegli sguardi di scomposizione
che ci raggiungevano a tratti
(la mia faccia e la tua, bellissima)
ma una sera di vento scompiglia i capelli
e le idee si ficcano nelle tasche, misteriosamente.
Non c’erano foulards a disposizione e il mio cappello è stretto
a tratti floscio, direi, per cui non potevo raccogliere i tuoi nei
e tutto ciò che volava (lo sai che la notte vola e non è prudente
trattenersi a lungo sotto il fuoco incrociato delle stelle)
tanto più se minaccia pioggia.
Per questo ti ho preso sotto le mie ali
(saranno vecchie, ma ancora riescono a proteggere un pulcino)
d’angelo un po’ bagnato.

 

Ad un’amica

La mia amica ha delle belle mani.
Hanno una bella forma e fanno forme.
Quando le muove il vuoto si avvicina
e sembra che si vesta in una forma.
La mia amica è una forma.
Una forma che pensa con la testa
ed ha una bella testa la mia amica
la sua è una testa triste e la tristezza
è la forma che assume con le mani
quando modella il vuoto e pensa forme
come credo le sembri la tristezza.

 

Dove eravamo perduti

Ti trovi in quella stanza, ne sono certo,
ma non saprei descrivere altro che il mio pensiero
inaffidabile come la città
dove una volta lumi alle traverse
incoraggiavano le nostre passeggiate
notturne, come i ricordi che
ancora
non avevamo – ti ricordi? – come non ne avessimo
ancora.
Ma tu sei in quella stanza, sono certo,
che non saprei individuare neppure se passassi sotto casa
perché forse non c’era e forse non era che la casa
dove avremmo voluto
trascorrere pensare suscitare
altri momenti di deviazione dal solito percorso
ed è per quello
che stavamo nei vicoli dove la mia città sembra la tua
ed è facile sperdersi, per ritrovare ancora qualche strada
e sperdersi – ti ricordi? – sperdersi
senza la luna senza le caviglie
che facevano male
ma sperdersi è come ritornare
dove eravamo perduti
e ritrovare.

 

Stelle in alto

Poi la sera c’è vento
e chiedi se è di mare
o dalla terra
come talvolta capita ai pensieri
e ha odori
e porta foglie
che non vedi ma senti camminare
i rami in alto e il mondo
assume un’altra forma di spessore
stelle in alto
e sembra scivolare
allora i vecchi siedono vicini
che non sanno se torna
mentre le mani cercano le mani
e hanno niente in testa
niente hanno
che a volte fa paura ricordare.

 

Ad ogni battito di una campana breve

Nessuno mi venne a visitare a quell’ora di notte
e questo fu l’inizio di un’abitudine.
Non era facile individuare gli uccelli tra le nuvole e i vetri
e la pianura fino a dove il monte
chiude gli occhi del mondo.
Tanto valeva mettersi a dormire.
Nessuno mi venne a visitare a quell’ora del giorno
e nelle successive l’abitudine si consolidò.
Non era facile individuare il silenzio tra i tappeti
e lentamente rotoli di senno
tra una biblioteca e l’altra.
Questo fece sì che l’abitudine si arrotolasse su se stessa
e ai miei pantaloni senza piega.
Decisi di studiare il pomeriggio e le sue variazioni della luce
tra un’atmosfera e un’altra
e questo per l’abitudine fu un colpo decisivo:
ne persi ogni costanza.
Disabituato, mi fu difficile raffermare il pane;
fortunatamente lo fa da solo dopo ore isolate di digiuno.
Vacillammo, io e la mia testardaggine,
ad ogni battito di una campana breve
ma alla fine mi abituai.

 

Settembre

Abitavo settembre
quando ci tornavo per sentire freddo
e magari inventarti
come fanno le onde con la brina
quando si bagna il mondo ed io mi asciugo.
Ci abitavo quando mi abitavo
ed era sempre settembre
perché era difficile tenere il conto
mentre passeggi i giorni che ti passeggiano
e non riesci a trovare un’altra data
un po’ per la solita pigrizia
un po’ perché non abito né mi sento abitato
e non trovo più nessuno.
Oggi settembre è malinconia
un vuoto
che mi costringe sempre a immaginare.

 

Piccole delusioni verso sera

Ci si vive strisciando le comete, ma non si sente il ghiaccio
il sibilo, il cammino, come se l’universo fosse fermo
e il tempo non si muove, ma non sei tu quel tempo
e non sei suolo, una conchiglia, un faraglione, un sonno
e non sei suono, neppure quando suona
né potresti sentirlo, perché non sei una forma dentro l’aria,
non sei una vibrazione, una scintilla
e non ti accorgi della tua tristezza, del cuscino sudato, del barlume
che forza le persiane e la finestra, penetra, sguscia, cade sul selciato
perché non hai una stanza e la strada di sera tira vento
spazza, ma tu non sei una foglia, non hai fruscio
e non vai nel cimitero di novembre
e l’acqua nei tombini ti trascina, trasformandoti in fiume
di cui non hai un’idea e quando il mare
avvolge, ti consegna a una costa ma non hai
piedi sparsi di sabbia
e le orme che lasci, o lasceresti, se ne sentissi il peso,
stanno alla notte come sta il tuo guscio
che i gabbiani rovistano col becco, ma non sei una testuggine
e lo sconforto del pianeta resta una frase ignorata
che non ha orecchie, occhi e non ha voce
ma non è colpa mia se l’universo
ignora la sua stessa vastità.

 

Tanto basta

Una volta avevo un nome e mi chiamavo come mi chiamavo.
Qualcuno me l’ha imposto; non io.
Un nome non è un’essenza e posso cambiarlo quando voglio
che mi trovi con te o con altri o persino nessuno.
Anche se ne parlino per radio e il mio nome venga affidato alle onde dell’aria
o un uccello notturno, questo non compromette nulla
e posso essere riconosciuto in ogni parte del mondo senza essere conosciuto.
L’importante è che non mi perda di vista.
Posso essere riconosciuto a Parigi come a Londra o agli antipodi
con qualsiasi nome mi presenti: da quel momento sarò identificato con quel nome.
In apparenza, basta che risponda.
Qualche volta pensavo di essere una musica e il nome lo scrivevo sul pentagramma
ma nessuno sa cosa ci sia dietro quel suono, neppure io.
Alle strette, un documento certifica. Tanto basta.

 

 

Giovanni Baldaccini, psicologo e psicoterapeuta, traduttore di testi psicoanalitici per le case editrici Astrolabio e Liguori; è autore di alcuni articoli a tema politico-sociale e di critica letteraria pubblicati su Rivista di Psicologia Analitica e Rivista Fermenti. Ha pubblicato per la Fermenti Editrice la raccolta di racconti Desiderare altrimenti, il romanzo L’osservatore e la raccolta di aforismi, poesie e racconti 3 d’union insieme a Luciana Riommi e Antòn Pasterius. E’ presente in alcune Antologie di racconti e di poesia della Fermenti Editrice. Ha pubblicato “Lettera dal Ponto” in AA.VV. Monologhi da camera e da volo per Perrone Editore. Con La Recherche ha pubblicato tre e-book “Il posto delle piaghe lucenti”, “Oltre il varco di notte” e “Tre notti”. Con youcanrint ha pubblicato il romanzo “La notte degli orologi”, la raccolta di poesie e racconti “Metafisiche a terra” e il saggio “Il declino dell’impero del nulla”. Alcune sue poesie e saggi sono presenti in rete  e su “la Rivista “L’EstroVerso”.
Cura il blog personale  Scrivere per immagini

Vive e lavora a Roma.

Giovanni Baldaccini

19 febbraio 2018

riproposte

 

g. baldaccini

 

Giovanni Baldaccini

Giovanni Baldaccini

14 giugno 2017

 

Metafisiche a terra

 

Le poche cose che so di lei

Le poche cose che so di lei
che poi non mi ricordo
come una nuvola adagiata
che ci sono caduto dentro
ma non mi ricordo
e vento non ce n’era
si restava appoggiati
e la sera una mancanza enorme
che di sera le nuvole scompaiono
e scomparivo.

 

terza giornata di sciocchezze enormi

Ora non c’è una piega in questa stanza
che non abbia vissuto le giornate
che ti tracciano gli occhi
né angolo che ignori
i nostri inseguimenti nella sera
dove vanno gli amanti
o chiacchiere avventate che non sappia
mentre ti scrivo quello che non so
di questo mondo
piccolo
insoddisfatto
a rotazione.

 

Inedita

Siamo venuti dove si riposa
sperando tu non debba mai appassire
un amore da dire
il tuo silenzio.
E ascolto.

 

Il posto delle piaghe lucenti

Sollevami le ali sulla schiena
e guardami il dolore
che si ricordi di formare figli
che mi portino pace
che Cristo s’è fermato in questa casa
e non posso dormire.

 

Senza filo

Telefonami possibilmente a primavera
quando i cisti preparano i boccioli
e le viole si svegliano
ai salti delle rondini
chiamami verso sera
quando avrò espulso il vuoto che mi copre
e potrai riconoscere la voce
che altrimenti sembrerebbe l’avamposto
di una città perduta
un temporale
un transito di sogni senza voglia
ma non farmi aspettare più di un anno
che non saprei distinguere tra i giorni
di un’attesa stentata
ma se vorrai non farlo non chiamarmi
e farò finta di telefonarmi
quando viene l’estate
e i cisti hanno riposto lo splendore
e la sera le viole.

 

Senza una goccia di vino

Credo che del tempo si possano dire molte cose
e definirlo ad esempio
lineare o circolare
perfino inesistente
al di là di una coscienza
che lo contempli nella categoria dell’esistente.
Secondo me può essere alto o basso:
alto quando ti sfugge
basso se ti schiaccia
in quella stasi che chiamiamo noia.
Da ciò consegue che la morte
deve essere una noia terribile.

 

Pensieri involontari

Come di temporale né riparo
che ti bagna la faccia e meravigli
s’allaga e s’allarga quando scoppia
tutti quelli che siete
senza oblio
che poi sarebbe come una mancanza
che ti presenta il conto
e s’allaga, s’allarga, si riempie
piove d’incontro
e i fazzoletti li ho portati ai morti
l’altra sera al convento dietro casa
e la pioggia
ha un rumore di passo
di quelli che si sentono la sera
scrivi o non scrivi: scrive
porta via
e me la bevo dentro una bottiglia
al fondo
senza lasciare traccia
né goccia
altrimenti domani piove ancora
la faccia, il firmamento, la stesura, l’astro, l’aurora, la vescica rotta
la mia nutrice vecchia, la portiera, i secoli, l’ottundimento
l’aria, la notte, le bugie, la luna
bagna
questa precarietà delle stagioni
e non so come dirtelo.

 

Samarcanda

Quindi mi trovo in piazza paradiso
senza alcuna ragione
e non saprei orientarmi
se non fosse la polvere che mi ricopre i piedi:
forse stelle.
Noi restavamo ignoti
e il viso mi sembrava la stanchezza
di una ripetizone che conferma
ma non dai garanzie
quando i cigni volano l’inverno
per sostenere l’integrità dei gelsomini
e la penombra
una fuga instancabile
di questo immenso privo di confini
da dove ci scrutiamo nel passaggio
d’ore d’affitto
vento a scivolare.

 

 

Angolo

Spostati verso un angolo di luna
che mi serve uno spazio categorico
per rovistare
e una bandiera bianca per cadere
nel caso non ti trovi.

 

 

 

Giovanni Baldaccini, psicologo e psicoterapeuta, consulente A.I.E.D. di Roma; traduttore di testi psicoanalitici per le case editrici Astrolabio e Liguori; è autore di alcuni articoli pubblicati su Rivista di Psicologia Analitica e Rivista Fermenti; ha pubblicato per la Fermenti Editrice la raccolta di racconti Desiderare altrimenti, il romanzo L’osservatore e la raccolta di aforismi, poesie e racconti 3 d’union insieme a Luciana Riommi e Antòn Pasterius; Il quasi nulla il praticamente tutto, Antologia, AA.VV.; ha pubblicato “Lettera dal Ponto” in AA.VV. Monologhi da camera e da volo per Perrone Editore; è autore di due presentazioni di mostre fotografiche svoltesi a Roma e Parigi; ha pubblicato con La Recherche l’e-book “Tre notti” e l’e-book “Oltre il varco di notte”. Alcune sue poesie e saggi sono presenti in rete su “Il giardino dei poeti”, “La Recherche” e “L’EstroVerso”. Cura il blog personale “Scrivere per immagini.
Vive e lavora a Roma

Giovanni Baldaccini

23 ottobre 2016

Oltre il varco di notte

LaRecherche.it [Poesie immagini prose brevi]

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baldaccini

Inediti

 

Cose appena d’amore
                          
                         


Senza altrimenti

Amo la solitudine del tuo pensiero
la tua diversa fonte
il tuo sostare
in un credo capace di smentire
amo di te l’essenza
le tue nuvole a getto
che trasportano il mondo
lungo passaggi di definizione
e la dissomiglianza
dall’esistenza inabile
senza connotazione di frontiera
mentre ti affermi stabile
nella mutevolezza che conferma
l’enorme vastità del tuo dissenso
come un’inesistenza nella vita
la sostanza
nel sonno che sorveglio
mentre ascolto il respiro
che si muta in linguaggio
per avvertirmi della tua esistenza
che conferma la mia
senza altrimenti.
                               

                            

Senza farne parola

Non c’è ancora nessuno questa sera
ed io mi chiedo cosa penseresti
di questo vuoto intenso
se il tuo sentire ancora mi parlasse
del senso
e il mio dissenso
dove spesso mi seguo
per il gusto malato di inseguirmi
ma non c’è ancora nessuno
ed ignoro
se mi verrai a trovare con gli amici
o resterà la solita mancanza
o magari sarò io
a mancarmi
come è molto probabile
dato che non riesco mai a capire
se davvero mi manchi o se non sia
il mio sentire autistico
che in qualche modo o altrove qualche sera
mi porterà un rimpianto
o forse un soliloquio
che ti dedico spesso
senza farne parola.
                        
                                

Crepuscolo

Ce ne andiamo divisi
come due sconosciuti
e il tuo vestito non è rosso
come il tramonto in fondo
ma non saprei distinguere
tra le cose che cadono intorno
e il volo degli uccelli verso casa
malinconici
come la sera quando aspetta il sole
e le cose da dire
che non sai mai da dove cominciare.
                           

                                    

Suggestioni

Ti ho amata a dispersione aperta
che neppure la vita
a pioggia
a dimensione diseguale
quanto le forme dell’immaginario
neppure che tu fossi un’illusione
che vaga altrove e costruisce mondi
io ti ho amata reale
e questo mi stupisce.
                            

                           

Le notti belle

A Parigi
c’erano le candele
per traversare ponti dal mio letto al tuo
e tetti con le stelle.
Verso l’alba
qualcosa ritornava
a rimestare le mie rimanenze
su pochi appunti persi tra i cuscini
sai quelle forme a caso che camminano
senza arrivare mai
e non sai come dire.
Poi scendevamo scale d’illusioni
a scaldare castagne sulla Senna
e i fiori che compravo
avevano un odore di cipolla
acre
come un sorriso sperso
tra i riflessi dell’acqua
concessioni
che sanno di sparire.
Qualche volta diverse
grida al suolo
ricordavano sogni andati a male
e le cose
che non sanno tornare
perché l’inconsistenza le spaventa
e dubbi
cianfrusaglie
vecchi libri
riempiono le casse
d’anni
che s inseguono in alto
mentre mi sento nudo
quando serro l’armadio e i tuoi capelli
perché non ho più perle per i fili
e spesso non riesco a dormire
mentre ripenso a tutte le stampelle
dove appendo le sere.
                           

                            

Nostalgia

Appena vento
forse
nostalgia
senza di cosa
né ripensare
attesa
e tu che mi domandi scosta l’orlo
di questa sera lunga
che la dimenticanza sa di viole
e cade il ricordare.
                                  

                          

Madre

Quando passano i giorni e tu ti adegui
a un lento scavalcare questa vita
senza attesa
io mi ricordo Madre di morire
e ti tengo le mani


L’Autore

Giovanni Baldaccini, psicologo e psicoterapeuta, consulente A.I.E.D. di Roma; traduttore di testi psicoanalitici per le case editrici Astrolabio e Liguori; è autore di alcuni articoli pubblicati su Rivista di Psicologia Analitica e Rivista Fermenti; ha pubblicato per la Fermenti Editrice la raccolta di racconti Desiderare altrimenti, il romanzo L’osservatore e la raccolta di aforismi, poesie e racconti 3 d’union insieme a Luciana Riommi e Antòn Pasterius; Il quasi nulla il praticamente tutto, Antologia, AA.VV.; ha pubblicato “Lettera dal Ponto” in AA.VV. Monologhi da camera e da volo per Perrone Editore; è autore di due presentazioni di mostre fotografiche svoltesi a Roma e Parigi; ha pubblicato con La Recherche l’e-book “Tre notti” e l’e-book “Oltre il varco di notte”. Alcune sue poesie e saggi sono presenti in rete su “Il giardino dei poeti”, “La Recherche” e “L’EstroVerso”. Cura il blog personale “Scrivere per immagini.
Vive e lavora a Roma.

Giovanni Baldaccini

25 marzo 2014

giovanni baldaccini

ritrattistica a tempo

Racchiuso verso te partire allora
diversamente statico tra noi
considerando appena la valigia
del mondo che succede
nelle ripetizioni da portare
e le foglie di sera
attimi
come fanciulle brevi tra le dita
quando ti sfoglio i petali
le ore
i medaglioni chiusi
le incisioni
ritrattistica a tempo
colature
strette nelle cornici della sera
che passa
mentre mi saldo all’anima
e la cena tra poco
nella solita stanza col camino.

verso ancora

Aspettami sotto casa
verso dopodomani o ancora
e se il cielo è di pioggia
indossa
qualche nuvola sparsa.
Poi la finestra è aperta
e le domande
tirale sottovento
altrimenti gli odori copriranno
tutto il gusto d’amaro.
Non assicuro niente:
tu rimani
e l’ombrello appoggiato contro il muro
legaci fazzoletti
e vento
che lo gonfi di sera
come una spedizione di confine.
Mandami qualche cosa da scordare
ciclamini
un biglietto forato.
Io non lo so se vengo:
capirai.

Lontano

D’altronde conoscevi
l’anonimato della porta accanto
e l’iceberg
dove a volte m’imbarco
ma non sapevi se sarei venuto
quando le scale cadono
senza vento di sera.
E tuttavia
scrutavi nella posta
recapitata da anni precedenti
in cassette e cortili
dove le palizzate chiudono
e il mare non arriva.
Dunque come potevo
attraversare
dove l’acqua si scioglie
e le rondini fanno naufragio
né scriverti
perché l’inchiostro è scuro
e senza luce
le parole non scorrono lontano.

flusso
e contumaci versi di notturni
rapaci d’alto volo
lievitavano ombre nel cervello
teso verso distanze non colmate.
Rimbalzavano scrosci i miei ricordi
nel vento che solleva
creste
fino approssimazioni d’incompiuto
e decadenti
come quando è d’inverno
colme di neve foglie dentro gli occhi.
Impossibile coglierti
se mi circondi.
Io non ho spento questa luce assente
né sono
diverso da alternanza
di viaggi e soste
malvolentieri accolte nella casa
dei giorni
nella ripetizione che attanaglia
né sfogo
di racconti di sera
inviti
lungo il fruscio del vento.
Vorrei scriverti ancora…
… scriverti
vorrei…
ma la penna si piega
e la parete
non offre sufficienti scrostature
per risalire
lungo un’ombra di sonno.
Deluso
tentavo trasfusioni…
… e sale… scende…
… eterno defluire…
… io…
… non vedo più nulla.

inedito

Fulminanti e grottesche
creature in cielo d’ocra
spargono
forme d’avviso
a terra
lingua a pioggia
come l’anima al freddo.
Briciole
dietro l’assurdo
sperdutamente intenso
scorre
a lume di candela la bufera
dentro la casa futile
luna assente
sempre imprecise: stelle.
Fonti d’azzurro altrove:
tu declini
io m’assopisco inedito.

Giovanni Baldaccini

Giovanni Baldaccini

2 gennaio 2013

g. baldaccini

Giovanni Baldaccini è poeta agli esordi, stante la nota biografica, ma che si presenta, all’appuntamento con il richiamo della poesia, carico di umanità ed esperienza, non solo umana, ma professionale e culturale e di una professione particolarmente vicina al sentire poetico, quella dello psicoterapeuta. A partire da questa situazione storico-esistenziale, ben si comprende l’intrapresa di percorrere una strada nuova come quella poetica, nella quale, di norma, confluisce più naturalmente l’esigenza di dare forma ad una sorta di biografia personale, di cui, nelle poesie che vengono qui offerte alla lettura, si avvertono presenze cospicue, seppur confuse nell’esemplarità dell’esperienza comune.

L’io poetico dice “io” principalmente attraverso due usi espliciti: l’io, “senza residui” (direbbe Francesco Orlando)  dei verbi alla prima persona, e il “tu” che presuppone l’io che lo nomina. Il “du” è stilnovisticamente una donna, in ordine ad un principio di eterno ritorno dei “fondamentali” nella poesia scritta dagli uomini. In Baldaccini essa ha fattezze di compagna di lunga data che conosce i silenzi dolorosi, gli atti di rinuncia dell’uomo: il quale, a sua volta, di rimando coglie con mestizia il trascorrere del tempo, fino ad immaginare, come in Sera, il “dopo”. Colpisce la rappresentazione di un post-mortem in quasi nulla diverso dalla vita: vi regneranno sovrani il silenzio e un sopravvissuto grado di incomunicabilità rassegnata tra i due amanti, lui nascosto dentro il legno degli scaffali dove tutto, già ora, odora di tardivo, di irrimediabile (naftalina, stampelle appese, linimenti, vecchi fiori scoloriti, passione morta). Il sentimento della sera e della notte è insistentemente rappresentato: in Inverno muto, Vento, Due parole, a ritrarre metaforicamente una condizione esistenziale di pacatezza desolata, di malattia incurabile a cui il soggetto si rivolge con un sopito sentimento di rivolta, tratto comune dei sette componimenti offerti alla lettura.

Meno compatto appare il fronte formale, segno di una ricerca, di un work in progress che, se non può mai darsi come concluso in chi scrive, tuttavia mostra sempre, da un certo punto in poi, i segni caratteristici di quello che “anticamente” chiamavamo stile, maniera, modus. Baldaccini sta sicuramente cercando una sua via alla comunicazione: sintomo di tale indagine in corso è la distanza che separa, sul piano stilistico, i componimenti. In quasi tutti si avverte l’intenzione di rinunciare ai tratti più strettamente considerati, di norma, poetici: rime, assonanze, allitterazioni e altri giochi fonici; sono rare le rime e le rimalmezzo. Ma, rispetto ai componimenti sunnominati, i verbi all’infinito in Passi d’acqua rispondono ad un canone tra l’ungarettiano  e  l’ermetico, che sconsiglierei all’autore, così come il ricorso di sostantivi privati dell’articolo, della troppo frequente congiunzione “e”, di mot-valise, neologismi non del tutto ben congegnati con il contesto che è tendenzialmente e positivamente narrativo; il “poetese” andrà evitato, avendo l’autore una sicura capacità di scavo e di rappresentazione emotiva, che non potrà che trarre giovamento da quel famoso invito a togliere (less is more) che in poesia è fondamentale.

Lucia Tosi

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Sera

E tu, amica mia,
dove m’appenderai quando sarò
sporadico ritorno di un ricordo
e come sosterrai il mio vagare
da un’anticamera all’altra della mente
chiusa alla voglia di ricominciare
vecchi dialoghi spenti
e la paura di un dolore
noto e perduto sempre da schivare
che tuttavia trasporto se m’affaccio
appena un attimo dentro il tuo pensare?

Tu conosci le spille
che attraversano l’anima muta
che mi porto dietro.
Soprattutto i silenzi: quelli temi.
E lo sguardo diffuso dentro il tuo
che legge taciturne sfumature
cui non rispondo altro che con niente.
Siamo un incontro vago trasversale
spazio poco battuto
e paura di soglie senza accesso
e sbarre che impediscano la fuga
nella salute cupa dove aspiri
dimenticanze di normalità.

Non so darti ragione oppure torto
dai sogni chiusi a chiave nell’armadio
generazioni di compiacimenti
rimpianti desideri annotazioni
svogliate di un colore un po’ sbiadito
con acre odore di naftalina
lungo stampelle appese ad un bastone
che non sostiene. E tarli.
Me ne starò tranquillo dentro il legno
poggiato tra scaffali e linimenti
cassetti vecchi fiori scoloriti
lettere scure di passione morta.
Resterò qui disposto a rimediare
o meno.
D’altra parte non è tempo di slanci:
semplicemente sera.

             

Inverno muto

Bassa marea stasera; cielo a picco.
Piegato sul riflesso di un pensiero
lancio stelle filanti in dispersione.
E traballante sogno.

Si riduce l’inverno se ti accosti
ma il tuo calore è tenue.
Viene voglia di andare
dove sei stata e dove ti ritrovo.

Odori d’aria e pascoli perenni
abiti e sfuggi: bosco.
Una traccia sommaria.
Ritornerò quando sarò partito.

Io svernerò dal ghiaccio che mi chiude
e pulviscoli d’ombra veglieranno
sere d’estate e reti.
Sei stata mare e mare ti ricordo.

Sei bella. E non m’appaga dirlo
mentre bevo la fame che m’infondi.
Ma lo dico, seduto nella sera dove vivo
stanco di me. E d’abbandono.

       

Vento

Dunque vale la pena?
E una tempesta aspra s’avvicina.

Vento frugava cose.
Annaspa la persiana e si rivela
lampo fugace a est. Chiudere gli occhi.
Sorseggiare un cognac
mentre la notte spande folte ombre.
E si richiude.

Per te è semplice, Ofelia: è un rifugio sicuro la pazzia
e un monastero è doppia protezione.
Ma io, che pazzo sono nato e non ho fede,
dove riparo?
Non c’è più sguardo al fondo dei tuoi occhi:
sei già salva.

In ginocchio sul plaid.
Diffusi i tuoi capelli. E il velo delle ciglia.
Con gesto involontario della mano: sfiorarti.
Vale la pena Ofelia?
C’è sonno in questa stanza.
Chiudo il libro.

E dissaldare vetri di piombo e sconsiderazione.
Che penetri la notte e la tempesta.
Penetri. E scompigli pagine assommate
di paura e violenza e dissuasione.
Dissuadimi, se la pena vale.
Tarda sera.
Non resteremo oltre
tra veleni di amori mai pensati.
Cigola l’acqua; e increspature fonde.
Ottava ora di navigazione.
Siamo soli Parola e il vento sale.
Vento.

            

Ospedale Paradiso

Lo spirito in cui vivo figlio e padre;
sono orfano.
Se santo è peccatore sono santo.
Sono materia morta
che un soffio irrefrenabile respira.
Spesso un destino dato
almeno verso il fondo della fine.
Il percorso lo faccio: sono errore.

Sono pietà e mancanza, delusione.
Frequento senso, spesso il suo contrario.
Cammino evoluzione, conoscenza
subito dopo sconosciuta assenza.
Vivo nell’ospedale paradiso:
presto cura
ma non ho cura per il mio malore.

“Tutti i mali del mondo”: sulla porta.
Per entrare mi piego; non ne esco.
E quando è ora e la candela sfuma
io mi rintano, lecco le ferite.
Guardo in alto:
non trovo luce che non sia di stelle.
Quando ricado; striscio volosera.

           

Due parole

Siamo così sorella, due parole
contrarie ripetute insieme sole.
Genuflesse e velate, prepotenti
spicchiamo a volte in alto sotto terra
altre precipitante appiattimento
olio nel piatto scivoloso dire.

Siamo vento canale incanalato;
violento come l’aria verticale.
Orizzontale a volte sopra l’onda
che solleviamo fino sulla luna
Soffio di stelle: ghiacciobrace.
E scuotimento che trascina. Sta.

Siamo lische di pesce sulla carta
indecifrato segno di pensiero.
Stimolazione, pallido alfabeto
occasionale breve suggestione.
Siamo la morte, definito inganno
col dubbio che sospende cognizione.

Siamo ombra sfuggente spentemute
riflesse dentro un suono d’altra specie.
A sera; e sogni sparsi
tra voci gialloacute di civetta
sinistra come Atena che scortiamo
verso l’Olimpo o l’Ade. Alternativa.

Noi siamo tempio e desolato niente
siamo quello che siamo e che non è
a meno che non parli qualche voce
e dica le parole da tacere.
Silenzierò e tu sarai silenzio.
Appena un soffio: ti percepirò.

           

Canone a una voce

Parlami dei tuoi sogni e dammi luce
i miei stanno sul ciglio della sera
afoni.

Sperduta tra visioni d’incostanza
nebbia vagava intorno a una lanterna.
Vento filtrava lembi di parole
minime.

A volte come forma che ristagna
sostano scalze pagine sfumate
aride.

Immerse dentro un mare prosciugato
appese a filiraggi della luna
o ali di farfalle sanguinarie
cadono

mentre mi spalmo verde nel mio affanno
frugando suoni e occhi d’irreale.
Creature dal mio fondo fanno eco
spandono

richiami di improbabili presenze
lontane irrinunciabili vicine
incerte e profughe come il mio vagare
futile

tra i resti del mio tempio immiserito
sfogliando fogli gialli di rovine
in cerca di una notte ancora viva.
Madido.

Parlami dunque dei tuoi sogni ancora
sorgenti di vociare di parole.
Parlamene – sono muto – te ne prego
anima.

       

Passi d’acqua

Azzurrare di nebbia.
Un suono trascurato di campana
attutiva le voci
che tuttavia sgusciavano la sera
con rinserrati canti.
Trasandato m’avvio.

Non c’era spazio tra la notte e il passo.
Cisti spogli d’intorno
e la scogliera in basso è solo vento.
Nell’aria senza ali: galleggiare.
Mentre luna a raggiera s’allontana.
Tremolante la scia.

Trasvolare mare: ondulature.
Corsica quindi. Vento laterale
smuove ombre di luci strette al fondo.
Brume se punto a nord verso Bretagna
e un monastero grande frange onde
e codici del tempo.

Genuflettersi di fronte alla marea
cogliere l’onda.
Che tarda, nell’attimo che annega decisioni.
E l’abbandono infradicia le membra
e una sciarpa rappresa stretta al collo.
Scivolante la mano.

Non è diversa l’alba dal tramonto:
declinare è salire d’altre terre.
Ma l’orizzonte chiude:
non c’è prova d’altrove se non vai.
Non mi va di svuotare altri cassetti
e fantasie sperdute.

Dipingerò vetrate con la sera
per figurare eco di visione.
Rovescerò lo sguardo:
naufragare
nella corrente che trascina sonno
e lente involontarie sfumature.

E s’accostavano scarlatte scarne voci.
Con la pena che danno.
Mare sommerge scogli e bianche forme
d’acqua avvolgente. E spruzzi sulla faccia.
Dicono che Maria cammini accanto.
E le madri di tutti gli annegati.

 

             

Giovanni Baldaccini è nato il 23 ottobre 1944 a Roma, dove vive e lavora. È psicologo e psicoterapeuta, scrittore e traduttore di opere psicoanalitiche per le case editrici Astrolabio-Ubaldini (Roma) e Liguori (Napoli), collabora con l’A.I.E.D. presso il “Centro Adolescenti” di Roma. È da sempre appassionato di letteratura e musica e da poco più di un anno sta tentando la strada della poesia. È autore di alcune pubblicazioni:

“Joseph Roth e l’anima che muore” (con L. Riommi), Rivista di psicologia analitica, 1999.

Desiderare altrimenti e altri racconti, Fermenti Editrice, Roma 2011.

“L’inattuale attuale. Riflessioni sul leaderismo patologico”, rivista Fermenti, n. 237/2011.

“Il tempo della crisi”, rivista Fermenti, n. 238/2012.

“Lettera dal Ponto”, in AA.VV., Monologhi da camera e da volo, Giulio Perrone Editore, Roma 2012.