
Ci sono tanti modi per dire la poesia; la sua duttilità si riscopre ogni volta che la si legge; non esistono due poesie uguali, anche se uguale il tema e il contenuto, a volte medesima è la mano. Ma la poesia osa il volo, testarda come il gabbiano Jonathan, così , da un inizio a un altro, s’innalza, fende e plana, si stabilizza su una quota, precipita e torna a rivolare. E’ ciò che la fa grande e immortale.
Vorrei aggiungere un’altra considerazione: a volte mancano le parole per dire la sofferenza e il verso s’aggroviglia, si sporca, ne solleva il vessillo; in altre poesie la parola si porge al gesto, gli dà corpo con leggerezza, in una danza di suoni, ma non inferiore è il dolore che esplicita e nulla sottende, incapace di corroderlo e disarmarlo. Non ne fa epica, ma tragica commedia. O nostalgia, o malinconia di perdute essenze, di sperdute esistenze.
La poesia di Sara ha la grazia di una farfalla in volo; verrebbe quasi da sentire la melodia prevaricare il contenuto, ma basta un verso, una parola sola, perché ci si riappropri del senso, della disincantata pietà della visione. L’ingenuità dei particolari selezionati, la presenza della rima baciata, quasi fosse una filastrocca, la gradevolezza, spesso la bellezza che sfolgora, non riesce a celare un desolante paesaggio umano di soprusi, e soperchierie. Anche Sara denuncia una malessere diffuso, la mancanza di giustificazioni al male che spadroneggia, la scomparsa di valori e lavori umili e, nello stesso tempo è colta dal dubbio (non è la sola) che la sua scrittura non muterà nulla, il mondo continuerà ad andare alla deriva. Eppure la sua formazione di insegnante le fa ricercare le domande che un bambino (anche tutti noi adulti) potrebbe porgerle e alle quali non ha risposte.
“Quando mi chiederai
dove si son nascoste le farfalle
che nei prati non vedi
ma volano nei libri che tu sfogli,
che cosa ti racconterò?
…..”
e continua una rassegna dolente delle violenze praticate alla terra che riverberano sul futuro dei nostri simili e ne decideranno sorte e comportamenti.
Ci sono poesie che con la musicalità del dire sono di alta civilissima denuncia, come in “Raccolta differenziata”:
Fra le lattine colorate getto
l’inutile e la rabbia di un istante
Ciò che pareva colmo ed era vuoto
Ciò che stillava gocce dentro al petto
quando la sete era devastante
Ciò che sembrava oscuro ed era noto.
Dunque l’inganno è nell’uomo che vuole ingannarsi, la verità è faticosa e impegnativa, meglio fingere che tutta vada per il meglio salvo poi ritrovarsi a sguazzare nella melma dei propri intrighi.
Sara piega docilmente il verso al suo dettato, e riesce a tracciare un bozzetto raffinato del vecchio, ormai inutile, calzolaio che, all’ottavo piano della città ha perduto gli odori cuoio e di resina e dunque non lascia più nulla di quello che è stata la sua vita.
La poesia può essere facile e difficile, non è questo il discrimine; può giungere furente come una pugnalata o dolce come un giro di valzer; ciò che le assimila è la verità che si porta appresso, la spessore riacquistato della parola, la corporeità del gesto che lascia il segno. Sara ci regala eleganza e speranza, speranza non ottusa, ma lucida e dubitante.
Sara scrive semplicemente, mai banalmente e forse arriva alla sensibilità che con altri linguaggi e con diverso versificare non si giunge. Si legga con attenzione l’ultima poesia, uomini e donne e poi ancora uomini ………
Nessuno , leggendola o ascoltandola, potrà dire “Non ho capito niente” ( mi è successo di sentirlo dire); lei si fa capire da tutti… come una certa Emily Dickinson.
Narda Fattori
Stella fra tante
Sai, nulla muterà nell’universo
Tutto rimarrà uguale
Se mai nessuno leggerà un tuo verso
Mi disse un giorno un tale
Un editore della mia città
Non ho preteso mai d’essere luna
Solitaria e distante
Che, se scompare, il mondo tutto imbruna
Ma stella sì, fra tante
Credo sia proprio questa la beltà
Essere quel puntino luminoso
A volte unica luce
Quando diventa il cielo tenebroso
Segnale che conduce
Ad un tempo sereno che verrà
Quando mi chiederai se è vero
Quando mi chiederai
dove si son nascoste le farfalle
che nei prati non vedi
ma volano nei libri che tu sfogli,
che cosa ti racconterò?
Come potrò spiegarti il nero
del petrolio sulla sabbia
e fra le dita dei tuoi piedini?
Come potrò spiegarti la fame,
l’arroganza e le guerre
che vedrai sullo schermo
fra le pubblicità di un latte
e di nuovi cioccolatini
e chiederai se è vero?
Quando mi chiederai se è vero
che uomini e bambini
e donne in fila indiana
diventarono fumo
e vorrai un perché, cosa dirò?
Riuscirò a raccontarti
che esiste un Padreterno
che ha programmato tutto
creando il Paradiso in alto
e giù l’Inferno?
Raccolta differenziata
Nell’umido le lacrime versate
Le bucce a serpentina dei pensieri
I torsoli rimasti dopo i morsi
alle occasioni avute e mai sfruttate
e i noccioli con dentro i desideri
e poi tutti gli avanzi dei rimorsi.
E nella carta i giorni come fogli
strappati dal quaderno della vita
Le pagine mai lette e accartocciate
parole come fragili germogli
o testi forti su una trama ordita
e copertine lisce e patinate.
Fra le lattine colorate getto
l’inutile e la rabbia di un istante
Ciò che pareva colmo ed era vuoto
Ciò che stillava gocce dentro al petto
quando la sete era devastante
Ciò che sembrava oscuro ed era noto.
Nel vetro la coscienza trasparente
Le cose dette ad anima scoperta
Fragili sogni e solide passioni
Quello che ben curato è resistente
ma quando sfugge ad una presa incerta
si rompe in mille schegge d’emozioni.
Era un semplice calzolaio di paese
Era un semplice calzolaio di paese
ma riparava scarpe con tocco d’artista.
Narrava storie al cliente in attesa
sulla soglia della bottega vecchia.
A seconda della stagione e del mese
saliva alle narici l’odor del cuoio,
di resina d’abete e cera d’api
che si mischiavano al profumo dei lillà
dall’orto accanto o delle rose.
Lui, la schiena curva sulla sedia di paglia,
diafano e sottile come la sua storia :
“… di prigionia per poco non ci muoio…”
Poi prese a lavorar solo d’estate
quasi per passatempo e per vedere gente
ma intanto lentamente s’annebbiò la vista.
Immergendo la mano nella secchia,
fresca dell’acqua di sorgente
rinverdiva la fronte e la memoria.
L’ultimo autunno chiuse la bottega,
poche cose in valigia e se ne andò a Milano
per invecchiare almeno in compagnia
dei canti dei bambini e i trallallà
dei nonni ai giardinetti e passeggiate
con in mano un gelato che si squaglia.
A primavera lo trovò la strega
che prima o poi si porta tutti via,
affacciato a odorare l’orizzonte
cercando fra lo smog odor di cuoio
dalla finestra a sud, al nono piano.
Notte emiliana
Mi siedo accanto a te amico mio,
tu bevi birra ed io una malvasìa
Straniero in questa terra sono anch’io
Da quando aspetto qui che sera sia.
Sulla via Emilia scorrono veloci
Luci e rumori nella nebbia fitta
Come fantasmi tornan volti e voci
Chiusi da tempo nella mia soffitta.
Pane e salame ed un bicchier di vino
Per festeggiare insieme un buon raccolto
Oppure la bottiglia del nocino
Per rincuorar l’amico triste in volto.
E quando il gelo tutto ricopriva
Sentivo già nell’aria la mattanza
La vita del maiale che finiva
Già prometteva sogni d’abbondanza.
Scompare il viso tuo nel denso fumo
Tu mi sorridi eppure sei lontano
E intanto io ricordo il suo profumo
Di Parma la Violetta e la sua mano.
Sulla via Emilia scorrono i ricordi
Si perdono sull’argine silente
Del “Va pensiero” mormoro gli accordi
Mentre cammino vecchio fra la gente.
Vincitrice II edizione “Tradizioni della mia terra”
Pernumia – novembre 2005
Ricordati di noi
Ricordati di noi che abbiam vissuto
amato e riso e pianto
e calpestato suoli e arato campi
e in casa abbiamo partorito figli
Ricordati del nostro urlare muto
che diveniva immaginario canto
dinnanzi alle vallate e a spazi ampi
o al conturbante profumo dei tigli
Tu che passi soltanto
tu che distrattamente leggi nomi
scolpiti sulla pietra fredda e grigia
nomi che mai metteresti a tua figlia
come Cleonice, Aurelia o Luigia,
ricordati di noi che firmavamo
con tremolanti croci
pesanti per la mente e per il cuore
Noi silenziose voci
nell’opprimente famiglie del padre,
un pugno in tasca e un altro sul costato,
rubavamo i pensieri come ladre
Tu che sorridi e ci regali un fiore
ricorda che per te abbiam lottato.
“Le ragazze nate in primavera
hanno nuvole in testa
e vento nei capelli …”
Sara Ferraglia dice di sé:
sono nata a Pastorello, una piccola frazione in provincia di Parma, nel marzo del 1955.
Ho studiato a Parma , frequentando quello che fino a pochi anni fa era l’Istituto Magistrale.
Ad onor del vero la maestra elementare l’ho fatta per pochissimo tempo, dedicandomi poi a studi informatici, ben poco attinenti alla mia formazione classico/pedagogica.
L’informatica ancora oggi è il mio mondo ma la passione per la letteratura, in particolare per la po-esia, non mi ha mai abbandonata, anzi è cresciuta negli anni.
Ho scritto molte poesie e qualche racconto, ottenendo gratificanti conferme da più parti (miei rac-conti sono stati pubblicati su Stampa Alternativa, Prospektiva, Artemisia) ed ora sono qui, a far parte, con grande soddisfazione, di questo spazio, e di VDBD che ha contribuito più di altri a farmi appassionare sempre di più alla poesia, alla letteratura e non solo.
Pubblicazioni su carta stampata non ne ho e forse non ne avrò mai; preferisco condividere lo spazio web, aperto e soprattutto libero.