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Riccardo Renzi > Novalis

20 Maggio 2023

Novalis: la poesia che generò il romanticismo tedesco

Novalis, alla nascita Georg Philip Fredrich von Hardenber barone di von Hardenberg[1], fu colui che più di ogni altro autore romantico dettò un prima e un dopo all’interno del movimento letterario. Nacque nel 1972, secondo degli undici figli di Auguste Bernhardine Freifrau von Hardenberg, nata von Bölzig, (1749-1818) e Heinrich Ulrich Erasmus Freiherr von Hardenberg (1738-1814). Dopo aver frequentato il ginnasio luterano a Eisleben, si iscrisse nel 1790, come studente di giurisprudenza, all’Università di Jena. Lì il suo vecchio tutore personale Carl Christian Erhard Schmid (1762-1812)[2], che nel frattempo era divenuto professore di filosofia e uno dei maggiori rappresentanti del kantismo a Jena, lo presentò a Friedrich Schiller[3]. Tale conoscenza permeò profondamente il giovane poeta, infatti risulta impossibile comprendere a fondo la poetica di Novalis senza conoscere la filosofia di Schiller, che a sua volta è permeata da quella di Johann Gottlieb Fichte[4].

Se volessimo tener il senso proprio, quello ficcante, filosofico e teologico, e non meramente letterario del termine “romanticismo”[5], dovremmo sostenere per onestà intellettuale che esiste un unico romanticismo: Novalis. L’unico vero testo romantico, intriso in ogni sua sillaba di tutta la filosofia del romanticismo, sono gli Inni alla notte[6]. Si può sostenere fermamente che Novalis sia l’unico autore romantico per un semplicissimo motivo, in lui i motivi teorici della Romantik nascono, si sviluppato e raggiungono l’apax di tutto il movimento. Il romanticismo, senza troppa audacia, possiamo sostenere che nasca e muoia con Novalis. Tutta la poetica di Novalis si basa sull’opera la Dottrina della scienza di Fichte, che gli fu introdotta dall’amico Schiller. Il romanticismo è per prima cosa una questione di magia e la prima formula magica è quella costituita dall’io fichtiano. Il primo mago del movimento fu proprio Fichte, l’anima di Jena, che il poeta studiò e commentò a più riprese. Tale lato magico in Novalis si mischia ad un profondo cristianesimo protestante imbevuto di misticismo.

Passo dall’altra parte

ed ogni pena

diventa un pugno

di voluttà

Ancora un poco

e sarò libero

giacerò ebbro

in grembo all’amore.

Vita infinita

fluttua in me potente,

dall’alto guardo

laggiù verso di te.

Su quel tumulo

Il tuo fulgore si spegne

un’ombra reca

la fresca corona.

Oh suggimi, amato,

con forza in te,

ché assopirmi possa

ed amare.

Sento della morte

il flutto giovanile,

il balsamo ed etere

trasmuta il mio sangue

vivo di giorno

con fede e fervore,

di notte muoio

nel sacro ardore[7].

La poesia di Novalis si caratterizza per una miscela sempre volta al vitalismo di vita e morte, nella quale funge da elemento di equilibrio, quasi come la bilancia della giustizia, l’amore. Quest’ultimo è l’elemento basilare della concezione vitalistica del creato.

Ti vedo in mille immagini,

Maria, amabilmente figurata,

ma nessuna può rappresentarti

quale la mia anima ti ha veduta.

So solo che il tumulo del mondo

da allora mi è svanito come un sogno,

e un cielo d’indicibile dolcezza

mi sarà nell’animo per sempre[8].

Ecco il misticismo della poetica di Novalis si mischia con un profondo credo cristiano.

Le fonti dell’immaginario novalisiano possono essere rintracciate in numerose tradizioni letterarie e religiose: si va dalle opere dei mistici tedeschi, tra tutti Meister Eckhart e Jakob Bohme, alla lirica romantica e cimiteriale di Edward Yoing, passando per Shakespeare, Schlegel, Herder, Schiller, Fichte e Goethe.

Novalis è un autore immenso, fondatore del romanticismo, al quale però nelle antologie scolastiche di mezz’Europa ancora si continua a concedere poco spazio.

Quando in ore di tormentosa angoscia

il nostro cuore quasi si arrende,

quando sopraffatto dal male

il nostro intimo è roso dall’ansia

pensiamo ai nostri fedeli amati,

come miseria e cure li opprimano;

nubi limitano la nostra vista,

raggio di speranza non le passa:

Allora Dio si china su di noi,

il suo amore ci si avvicina,

allora desideriamo quell’altrove

in cui un angelo è accanto a noi,

reca il calice della vita giovane,

ci mormora conforto e coraggio;

e non invano allora imploriamo

pace per i nostri cari[9].

In Novalis il male incombe sempre dietro l’angolo, l’uomo è perseguitato costantemente da esso, che spesso all’ansia si accompagna. Il male non colpisce mai il singolo uomo, ma ingloba tutto il suo universo, i suoi affetti e i suoi cari. Le uniche figure salvifiche in un mondo luciferino sono Dio e la Madonna. La concezione luciferina di Novalis spesso si mischia a magia e occultismo. Qui troviamo un evidente richiamo al Graal, «calice della vita giovane»[10], nella concezione dei trovatori provenzali[11]. È proprio in questo periodo che in Germania si radicalizzerà il mito del Graal.

In Novalis anche l’immaginazione e l’immaginifico permeano profondamente il suo poetare. L’immaginazione di Novalis è quella intesa fichteanamente, dove finito e infinito si compenetrano. Essa produce magicamente una sintesi finzionale, rappresentativa, indugiando nel conflitto, oscillando tra gli estremi e cogliendone sempre un sunto. Essa è l’unica a vedere realmente l’unità originale della coscienza, cioè l’Io.

Novalis fu tutto questo: magia, occultismo, profondo credo e innovazione filosofica. Novalis fu il romanticismo.


[1] Per la biografia di Novalis si veda: G. Fontana, Novalis, Venezia, Marsilio, 2008.

[2] Carl Christian Erhard Schmidt è uno dei primi divulgatori della filosofia kantiana.Nel 1778 si immatricola a Jena, dove studia teologia e poi anche filosofia (con Johann August Heinrich Ulrich, un filosofo molto interessato alla filosofia kantiana). Nel 1781 è precettore presso la casa del padre di Friedrich von Hardenberg, in arte Novalis. Nel 1782 è Hausmeister a Schauberg e nel 1784 ottiene l’abilitazione (Magister) anche in filosofia, titolo grazie al quale può insegnare all’università di Jena. Nel 1785 tiene per primo lezioni sulla Kritik der reinen Vernunft. Proprio come ausilio per i suoi studenti nel 1786, pubblica un commentario di questa opera cui aggiunge un breve glossario, che, ampliato, costituirà il dizionario kantiano. Dal 1785 collabora con Christian Gottfried Schütz alla «Allgemeine Literatur-Zeitung» una rivista pubblicata a Jena che contribuì fortemente a diffondere il pensiero di Kant. A Jena è in contatto con molti esponenti del romanticismo, ma anche con Schiller e Goethe. Nel 1787 è nominato vicario e ordinato sacerdote a Wenigenjena, paese in cui suo padre è parroco dal 1777. Il 22 febbraio 1790 celebra le nozze tra Friedrich Schiller e Charlotte von Lengfeld. Nel 1791 è, a trent’anni, professore di logica e metafisica a Gießen. Nel 1793 torna a Jena sempre come professore di filosofia e, nel 1798, diventa professore anche di teologia.

[3] Per la biografia di Schiller si veda B. Von Wiese, Friedrich Schiller, Stuttgart, Metzler, 1959.

[4] Johann Gottlieb Fichte (Rammenau, 19 maggio 1762 – Berlino, 27 gennaio 1814) è stato un filosofo tedesco, continuatore del pensiero di Kant e iniziatore dell’idealismo tedesco. Le sue opere più famose sono la Dottrina della scienza, e i Discorsi alla nazione tedesca, nei quali sosteneva la superiorità culturale del popolo tedesco incitandolo a combattere contro Napoleone.

[5] M. Freschi, Mito e utopia nel Romanticismo tedesco, in Atti del Seminario Internazionale sul Romanticismo tedesco, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1984.

[6] Novalis, Inni alla notte, Canti spirituali, Traduzione a cura di Susanna Muti, Milano, Feltrinelli, 2012.

[7] Novalis, Inni alla, cit., pp. 71-72.

[8] Novalis, Inni alla, cit., p. 147.

[9] Ivi, p. 141.

[10] Novalis, Inni alla, cit., p. 141.

[11] Durante i secoli centrali del Basso Medioevo (1100–1230), il trovatore (o trovadore o trobadore – al femminile trovatrice o trovatora o trovadora – in occitano trobador pronuncia occitana: era un compositore ed esecutore di poesia lirica occitana (ovvero di testi poetici e melodie) che utilizzava la lingua d’oc, parlata, in differenti varietà regionali, in quasi tutta la Francia a sud della Loira. I trovatori non utilizzavano il latino, lingua degli ecclesiastici, ma usavano nella scrittura l’occitano. Indubbiamente, l’innovazione di scrivere in volgare fu operata per la prima volta proprio dai trovatori, supposizione, questa, da inserire nell’ambiente di fervore indipendentistico locale e nazionalistico (vedi età dei Comuni, nascita delle Università, eresie e autarchie cristiane).

Riccardo Renzi

Riccardo Renzi > Baudelaire

13 aprile 2023

Baudelaire e il male interiore

Pensando alla letteratura francese dell’Ottocento, la prima figura che verrebbe in mente ad un medio lettore, nel 90% dei casi è quella di Charles Pierre Baudelaire. Ma perché proprio Baudelaire? Perché la sua figura ha ormai subito una canonizzazione all’interno dei vari sistemi scolastici europei e da cinquant’anni a questa parte e impressa nella memoria dei più. A tutto ciò si aggiunga che il suo spirito rivoluzionario lo rende assai attraente, in particolar modo appetibile per ragazzini in piena età dello sviluppo[1], con la loro voglia innata di cambiare il mondo.

Baudelaire nacque a Parigi, in Francia, il 9 aprile 1821 in una casa del quartiere latino, in rue Hautefeuille nº 13, e venne battezzato due mesi dopo nella chiesa cattolica di Saint-Sulpice. Il padre si chiamava Joseph-François Baudelaire. Era un ex-sacerdote e capo degli uffici amministrativi del Senato, amante della pittura e dell’arte in genere, e come prima moglie ebbe Jeanne Justine Rosalie Jasminla, dalla quale ebbe Claude Alphonse Baudelaire, fratellastro del poeta. La madre di Charles era la ventisettenne Caroline Archimbaut-Dufays, sposata da Joseph-François dopo la perdita della prima moglie[2]. Suo padre morì quando egli aveva soltanto sei anni e il matrimonio della madre, che si risposò poco dopo, determinò in lui una profonda sofferenza destinata a durargli tutta la vita, camuffata spesso da cinismo e spavalderia. Dopo aver conseguito la licenza liceale, Baudelaire cominciò una vita sregolata; il patrigno, il generale Auspick, sperò di ottenere un cambiamento persuadendolo ad un viaggio nelle isole dell’Oceano Indiano, ma al suo ritorno, ormai maggiorenne, Baudelaire riprese la vita stravagante, dissipò rapidamente il patrimonio ereditato dal padre, si avvilì sempre di più nell’alcool, nella droga, nella frequentazione di ambienti malfamati e di personaggi sempre più equivoci. Per vivere fu costretto a fare i più strampalati lavori, ma continuò sempre a scrivere e a lavorare per giornali e case editrici. Agli inizi del 1857 pubblicò I fiori del male, raccolta che gli procurò subito un processo per alcune liriche considerate immorali, fu dunque, pubblicato in seconda edizione, riveduta e purgata, nel 1861. L’opera non ebbe risonanze e il poeta, amareggiato e prostrato nel fisico e nel morale, si allontanò da Parigi la cui atmosfera gli era diventata insopportabile, e andò a vivere a Bruxelles[3]. Il cambio di città non gli giovò, nel 1866 ebbe il primo attacco di paralisi e l’anno dopo morì in una clinica di Parigi[4].

Les fleurs du mal, sono il suo capolavoro per eccellenza, una raccolta di liriche suddivisa in sei parti: Noia e Ideale, Quadri parigini, Il vino, I fiori del male, Rivolta, La morte. Esse costituiscono l’unità delle riflessioni del poeta. Sono un organismo di tenebrosa e profonda unità, con spiragli di ciceroniana saccenza, più propri di un oratore che di un poeta. Al momento della stesura, non vi fu volontà architettonica, ma fu guidato da l’esigenza di raccontare con modalità stratigrafica di opposizione: Noia e Ideale, Vita e Morte, Rivolta e Conservatorismo.

Tra foreste di simboli s’avanza

La Natura è un tempio in cui pilastri vivi

a volte emettono confuse parole;

l’uomo, osservato da occhi familiari,

tra foreste di simboli s’avanza.

Come lunghi echi che di lontano si confondono

in una unità profonda e tenebrosa,

vasta come la notte e come la luce,

i profumi, i colori e i suoni si rispondono.

Esistono profumi freschi come carni di bambino,

dolci come oboi, verdi come prati,

ed altri corrotti, ricchi e trionfanti,

che hanno l’espansione delle infinite cose,

come l’ambra, il muschio, l’incenso e il benzoino

e cantano l’estasi dello spirito e dei sensi.

In Baudelaire troviamo sempre un intimo rapporto con la natura, derivante dagli studi che egli fece su di essa, dallo studio della luce in campo pittorico, a quello sonoro. In lui inoltre è sempre presente, anche se a volte celato nell’ombra, lo Spleen, termine inglese che indica una forma malinconica e dolorosa di noia, di cui è vittima fin dalla tenera età il poeta. Questo sentimento può prendere forme diverse, legate a differenti luoghi chiusi, quali tombe e prigioni.

Spleen

Quando il cielo basso e oppressivo pesa come un coperchio

sull’anima che geme in preda a lunghi affanni,

e versa, abbracciando l’intero giro dell’orizzonte,

una luce nera più triste di quella delle notti;

quando la terra si è trasformata in un’umida prigione,

dove la Speranza, come un pipistrello,

va sbattendo contro i muri la sua ala timida

e picchiando la testa sui soffitti marciti;

quando la pioggia distendendo le sue immense strisce,

imita le sbarre di una grande prigione,

e un popolo muto d’infami ragni

tende le sue reti in fondo ai nostri cervelli,

a un tratto delle campane sbattono con furia

e lanciano verso il cielo un urlo orrendo,

simili a spiriti erranti e senza patria,

che si mettono a gemere ostinatamente.

– E lunghi funerali, senza tamburi né musica,

sfilano lentamente nella mia anima;

vinta, la Speranza piange; e l’atroce Angoscia, dispotica,

pianta sul mio cranio chinato il suo vessillo nero.

Nel componimento sono posti in parallelo lo spazio esterno e quello interiore del poeta, entrambi rappresentati come prigioni dalle quali ogni tentativo di fuga risulta vano. Nella prima quartina il cielo è paragonato a un “coperchio” che schiaccia l’animo del poeta, già oppresso da dolore e preoccupazioni, e che porta sulla terra oscurità e tristezza. Nella seconda quartina la terra diventa una “prigione”, nella quale non c’è spazio per la Speranza, che è paragonata a un pipistrello che sbatte da ogni parte poiché non trova il modo per uscire. Il corpo è sempre concepito come prigione dell’anima, mentre la terra come prigione dell’uomo. In tutta la sua vita Baudelaire, proprio come Rimbaud e Campana, dopo di lui, si sentirà un estraneo tra gli uomini, un migrante errante, senza patria e senza meta.

  Riccardo RENZI   Dopo la laurea triennale in Lettere classiche presso l’Università degli studi di Urbino, discutendo una tesi recante titolo La nobiltà in Francia nei primi due secoli dell’età moderna (febbraio 2017), ha conseguito la Laurea magistrale in Scienze Storiche presso l’Università di Macerata discutendo una tesi dal titolo Latin historian’s manuscripts and incunabola preserved at Fermo Public Library Romolo Spezioli (ottobre 2020). Ha inoltre conseguito una Summer school in metrica e ritmica greca presso la Scuola di metrica dell’Università di Urbino (2016), il percorso psico-pedagogico per l’insegnamento (24 CFU) presso l’Università di Macerata (2019) e i diplomi in LIM e Tablet. Nell’ottobre 2022 consegue il Master di primo livello in “Operatore delle biblioteche”. Nel 2022 entra a far parte del Centro studi sallustiani, dell’Unipop di Fermo, del comitato scientifico della rivista di filologia greca e latina Scholia (didattica), in qualità di vicedirettore e in qualità di socio-amico dell’Aib. Insegna materie letterarie presso l’Istituto di Formazione Professionale Artigianelli di Fermo. Appassionato di storia greca e romana, e di poesia, ha pubblicato numerose monografie sugli storici latini e alcune sillogi poetiche (Renzi Riccardo, La tradizione delle opere sallustiane dai manoscritti agli incunaboli della Biblioteca civica di Fermo, AndreaLivi Editore, 2020; Renzi Riccardo, Tito Livio. La fortuna del più grande storico romano, Primicieri Editore, 2021; Renzi Riccardo, APPIANO ALESSANDRINO. Dall’età classica all’età contemporanea, Primiceri Editore, 2021; Renzi Riccardo, Rufo Festo Avieno, la fortuna di uno storico minore, Ipazia: collana di antichità classiche, Arbor Sapientiae editore, 2021; Renzi Riccardo, La fortuna di uno storico minore: Lucio Anneo Floro, i manoscritti e gli incunaboli della Biblioteca Civica Romolo Spezioli, con prefazione di Alessandro Cesareo, Amarganta, 2021; Renzi Riccardo, Svetonio. Dall’età classica all’età moderna. Gli esemplari della Biblioteca civica Romolo Spezioli di Fermo, con prefazione di Alessandro Cesareo, Padova, Primiceri, 2022; Renzi Riccardo, Frammenti poetici, BookSprint, 2021; Renzi Riccardo, ἀλήθεια, Sonnino, Edizioni La Gru, 2022; Renzi Riccardo, Studi e riflessioni sull’evoluzione del ceto nobiliare: tra la fine del medioevo e la prima età moderna, Padova, Primiceri, 2022), collabora inoltre con le riviste: «Scholia», «Scholia didattica», «Il Guerrin Meschino», «Storia Libera», «Riscontri», «Il Borghese», «Il Polo», «Marca/Marche», «Inchiostro», «Avanguardia», «Italia medioevale», «Prometeo», «Miscellanea francescana», «Schede Medioevali», «Il Sentiero Francescano», «Civiltà Romana», «Studi Francescani», «Versi diversi», «Poets and Poems», «Italia Francescana», «Voce Romana» e «Il Mago di Oz».  

[1] Nel sistema scolastico italiano solitamente si affronta in IV° superiore.

[2] Introduzione a I fiori del male, Cronologia della vita e delle opere, a cura di Giovanni Raboni, Milano, Giulio Einaudi Editore, 2014.

[3] C. Baudelaire, I fiori del male, a cura di Gesualdo Bufalino, Milano, Mondadori, 2018, p. 30.

[4] S. Guglielmini, Guida al Novecento, Milano, Principato editore, 2009, p. 29-30.

Acruto Vitali – Riccardo Renzi

10 marzo 2023

Acruto Vitali: un poeta dimenticato

Acruto Vitali fu uno dei maggiori interpreti di quella temperie culturale che tanto animò il territorio fermano[1] tra gli anni quaranta e sessanta del Novecento.

Era nato a Porto San Giorgio il 5 ottobre del 1903 da Primo, uno dei più grandi industriali della zona, proprietario di una fabbrica di ghiaccio tra le più grandi delle Marche, e da Ada Cestarelli. Frequentò l’Istituto Tecnico Industriale di Fermo. Agli inizi del 1926 si trasferì a Milano per studiare musica e canto. Qui fu allievo di Alessandro Bonci[2], mentre a Roma di Sammarco. L’esordio avvenne nel 1929 ne I Pescatori di perle di Bizet, nel ruolo di Nadir. Negli anni Trenta si esibì come tenore nei maggiori teatri nazionali e internazionali, ma lo scoppio della guerra interruppe le sue attività. Nel 1940 si vide costretto a tornare a Porto San Giorgio, dove aiutò il padre nella gestione dell’azienda di famiglia[3].

Risulta assai difficile parlare di Acruto Vitali poeta e pittore, senza parlare di alcune amicizie illustri che ebbe nel corso della sua vita e che condizionarono il suo gusto poetico e artistico. Per quanto concerne la poesia, la coltivò fin da adolescente assieme a un suo caro amico, Sandro Penna[4]. Il poeta perugino trascorreva infatti tutte le estati con la famiglia a Porto San Giorgio e proprio sulle spiagge di questa cittadella dell’Adriatico i due fanciulli strinsero una salda amicizia. Vitali, anche in tarda età, ancora raccontava di quello splendido periodo della sua vita trascorso con l’amico Sandro a leggere Rimbaud sulla spiaggia. Fu proprio Vitali nell’estate del 1925 a far conoscere la poesia di Rimbaud a Penna[5]. Spesso i due discutevano anche di letteratura francese, in particolare di Gide e Proust[6].

Gli amici illustri di Vitali però non si esauriscono qui. Egli parlava infatti dei poeti francesi anche con Ubaldo Fagioli e Franco Matacotta[7]. Mentre con uno dei più grandi pittori del primo Novecento, Osvaldo Licini, parlava di Leopardi.

Per il pittore di Monte Vidone (Osvaldo Licini), Leopardi fu un’ossessione. Spesso si recava a casa dell’amico sangiorgese per farsi recitare qualche verso del poeta recanatese e puntualmente al termine di ogni recitazione, affermava che prima o poi avrebbe dedicato al poeta una serie di quadri. Un giorno Licini si recò da Vitali con un piccolo quadro sotto braccio e gli disse: «Ecco qua il mio Leopardi», era un’Amalassunta luna. Chiusa questa breve parentesi su un altro grandissimo artista del Novecento, continuiamo ad esaminare le amicizie illustri che Vitali ebbe[8].

Durante il soggiorno milanese, nonostante lavorasse come musicista, mai tralasciò l’amore per la poesia e dalle lettere con Penna sappiamo che in quegli anni intratteneva rapporti con Leonardo Sinisgalli, Giovanni Titta Rosa e Sergio Solmi[9]. Nel 1937 anche Penna si trasferì a Milano, ove lavorava come correttore di bozze presso l’editore Bompiani, in quei tre anni i due si incontravano quotidianamente la sera presso la Galleria Il Milione. Quando Vitali era a Roma per motivi lavorativi lasciava le chiavi del suo ampio e confortevole appartamento a Penna e un giorno accadde un curioso episodio, Vitali tornato in anticipo da Roma trovo la porta dell’appartamento chiusa dall’interno e bussando gli venne ad aprire Umberto Saba, che a sua volta aveva ricevuto le chiavi da Penna. Da questo simpatico episodio nacque un’amicizia tra i due. Dunque, ai tanti amici illustri si aggiunge anche il nome di Saba[10].

Vitali aveva iniziato a scrivere poesie fin da giovanissimo, la prima di cui abbiamo testimonianza risale all’estate del 1909:

Fui un passero, socchiuso tra le ciglia

d’un alba, a la gronda del cielo.

Ora, conchiglia mi nutro di sole,

e mi muove la luna sulle sabbie nei pleniluni[11].

In questi anni ancora non si era legato così profondamente alla poesia rimboudiana, ma prendeva a modello i grandi della poesia italiana, in primis Leopardi e Pascoli. Nel 1925 pubblicò sulla rivista «La Lucerna» la poesia La forma della sera:

 Quando il vespro adunò l’ombre ed il cielo

fu come il grande specchio della sera,

io vidi profilarsi la chimera

nel colore del tuo pallido velo.

E un tremore m’invase, uno sgomento,

una paura folle e indefinita

quand’io tentai l’indugio delle dita,

in quella forma vana come il vento;

nulla: parvenza della sera azzurra

coi suoi misteri, in giochi di penombra,

intorno al lembo del tuo lieve velo…

Tu mi scuotesti: Senti? Non sussurra

foglia; il silenzio come un fiume d’ombra,

scorre così che noi sentiamo il cielo[12].

L’onda musicale è prettamente italica, forti sono gli echi pascoliani, ma anche il primo Rimbaud inizia a farsi sentire nella trasmissione di una profonda inquietudine.

Vitali amò e coltivò sempre la poesia, dall’adolescenza sino alla piena senilità, ma della sua attività poetica si curò sempre poco. Non putò mai a farsi conoscere dal grande pubblico, preferiva recitare i suoi componimenti con gli amici cari. Gli amici erano attratti da lui più come cantore/musicista che come poeta.

Il presente lavoro ha solamente introdotto minimamente l’immensa figura intellettuale di Acruto Vitali, poeta, pittore e tenore. L’obiettivo è quello di far riemergere questa figura dall’oblio e le tenebre nelle quali per troppo tempo è risieduta.


[1] Territorio dell’attuale provincia di Fermo, un tempo sotto quella di Ascoli.

[2] Nacque professionalmente al Conservatorio “Gioachino Rossini” di Pesaro, dove ebbe modo di lavorare con Carlo Pedrotti e Felice Coen. Fece il suo debutto al Teatro Regio di Parma nel 1896, nel Falstaff di Giuseppe Verdi. Tale fu il suo successo che prima della fine della stagione fu ingaggiato dal celebre Teatro alla Scala di Milano, dove esordì ne I puritani. Seguirono apparizioni in tutta Europa. Il 3 dicembre 1906, salì sul palco della Manhattan Opera Company, ancora ne I puritani. Stette ben due stagioni nella famosa Compagnia, diventando per il pubblico una sorta di competitore di Enrico Caruso, il quale era allora la maggiore attrazione della rivale Metropolitan Opera, per il quale, peraltro, Bonci avrebbe poi firmato nel 1908. Dopo la sua esperienza newyorchese, Bonci intraprese un lungo tour canoro intercontinentale durato più di un anno, fra il 1910 e il 1911 e, quindi, fu messo sotto contratto dalla Chicago Opera, nel 1914. Il 30 dicembre 1913 fu iniziato in Massoneria nella Loggia Otto agosto di Bologna, divenne Maestro massone il 19 marzo 1914. Scoppiata la prima guerra mondiale fu richiamato alle armi e servì fino alla fine del conflitto. Immediatamente dopo tornò negli Stati Uniti d’America per un tour di tre stagioni, che lo riportarono sul palco del Metropolitan e a Chicago. Fra il 1922 e il 1923 fu primo tenore del Teatro Costanzi di Roma. Dopo il 1925 cominciò a diradare i suoi impegni e a privilegiare la sua attività di maestro a Milano.

[3] Acruto Vitali poeta e pittore (1903-1990), a cura di E. Pecora, A. Luzi, S. Papetti, Fermo, Andrea Livi Editore, 2017, p. 12.

[4] G. Altamura, E. Pecora, M. Verdastro, Sandro Penna: il dolce rumore della vita, Asola (MN), Gilgamesh, 2022, p. 34

[5] Acruto Vitali poeta e pittore (1903-1990), cit., p. 9.

[6] Le letture e i discorsi tra i due amici sono comprovati da una fittissima corrispondenza ancora oggi conservata dalla famiglia Vitali.

[7] Si veda: A. Mastropasqua, MATACOTTA, Franco, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 72, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2008. Matacotta dopo l’infanzia e l’adolescenza trascorse a Fermo, si trasferisce a Roma per frequentare l’università. Matacotta ha pubblicato con lo pseudonimo di Francesco Monterosso alcune poesie sparse su riviste. Poi il 20 dicembre del 1941 pubblica i Poemetti col suo vero nome nelle edizioni di “Prospettive” dirette da Curzio Malaparte il cui vero nome era Kurt Erich Suckert. Nel gennaio del 1936 inizia la corrispondenza con Sibilla Aleramo, a quel tempo sessantenne; insieme intrecciano una relazione amorosa difficile e complessa che durerà sino al marzo 1946. Grazie a questo rapporto, Matacotta può consultare numerose carte di Dino Campana custodite dall’Aleramo (che aveva avuto col poeta una relazione durata dall’agosto al dicembre del 1916), e pubblica nel 1949 il cosiddetto “Taccuino Matacotta”, in cui riunisce alcuni testi inediti del poeta dei Canti Orfici. Nel 1939 si laurea con una tesi dal titolo “Giuseppe Ungaretti o della parola come mito”; due anni più tardi, nel 1941 parte per la seconda guerra mondiale ed è di stanza in Sardegna; più tardi si unirà ai partigiani. Finita la guerra, collabora con Il Mattino e Paese Sera. Nel 1946-47 fu insegnante di lettere nella Scuola Media di Civitavecchia, di cui era preside Guglielmo Cascino. Nella scuola si volevano portare avanti alcuni esperimenti di “scuola attiva” sui quali Guglielmo Cascino riferisce in un suo testo: Nuovi orientamenti per la scuola secondaria, edito presso Paravia nel 1951.

[8] L. Trapè, Licini, Leopardi e il paesaggio sublime, Macerata, edizioni Ephemeria, 2019.

[9] G. Altamura, E. Pecora, M. Verdastro, Sandro Penna, cit., p. 56.

[10] G. Altamura, E. Pecora, M. Verdastro, Sandro Penna, cit., p. 60.

[11] A. Vitali, Il tempo scorre altrove, All’insegna del pesce d’oro, Milano, Scheiwiller, 1972.

[12] A. Vitali, Il tempo, cit., p. 19. La medesima poesia era già stata pubblicata nella presente raccolta nel 1921.

Riccardo Renzi