Archive for the ‘Maria Carmen Lama’ Category

Carmen Lama – Valentino Vitali

15 gennaio 2023

I confini dell’acqua. Fotopoesie.

di Carmen Lama e Valentino Vitali

Ed. Youcanprint



D’un istante perfetto

Non lumi di memoria né ricordi

ma solo la bellezza dell’istante

che non si perderà

incastonato com’è fra cielo e lago

mentre vagano gli occhi alla ricerca

dello sguardo poetico che ha colto

lo stupore il silenzio l’abbandono

                 



Anche se il lemma non compare nei vocabolari (e non soltanto in quelli italiani), il termine fotopoesia  e le sue molteplici varianti tra tante: fotopoema, fotopoetry, fotoverso, fotograffiti,  – vengono ormai da lungo tempo impiegati per designare una forma d’arte in cui poesia e fotografia, poste su un piano di pari dignità, si intrecciano simbioticamente per dar vita a un prodotto artistico nuovo, originale, complesso e unitario al tempo stesso. 

La prima attestazione dell’uso della parola si fa risalire al 1936, e per quanto l’accostamento tra immagini e versi sia già ampiamente praticato, la sua presenza nel titolo di una raccolta (Photopoems: A Group of Interpretations through Photographs  di Constance Phillips) offre al termine una indiscutibile legittimazione.

Sin dalle esperienze pionieristiche delle avanguardie novecentesche, poi riprese con interesse crescente dalla fine degli anni ’50, si osserva come e quanto gli artisti subiscano il fascino dell’interlinguaggio, derivandone sempre nuove posture nei confronti della realtà e raffinando strumenti per operare feconde intersezioni tra le arti. È indubbio che la pratica fertile delle contaminazioni tra discipline artistiche abbia contribuito a sfumarne i contorni, lasciando emergere aspetti di sorprendente continuità al di là degli steccati categoriali.

In generale, gli studi che nel corso del Novecento affrontano le questioni messe in campo da questo genere di fenomeni artistici, anche muovendo da vertici e prospettive diverse,  pongono comunque l’accento sull’importanza di non limitarsi a pensare alla ‘con-fusione’ delle arti come a mere sovrapposizioni o giustapposizioni, come esito di una semplice sommatoria, ma di coglierne la costituiva natura di eventi dotati di nuova e diversa dinamicità, interattività, imprevedibilità, ed esortando a pensarle come vere e proprie simultaneità produttive, secondo l’espressione che Adriano Spatola utilizza nel suo celebre saggio  Verso la poesia totale (1969).

Non difformemente, del resto, pur non muovendo da interessi estetici quanto piuttosto di ordine conoscitivo, nel campo degli studi sperimentali sulla percezione la Psicologia della Gestalt perveniva già a inizio secolo a conclusioni analoghe, quando affermava che il tutto è più della somma delle parti, sancendo definitivamente un principio che avrebbe mostrato la propria forza investendo ogni ambito culturale e ponendosi come premessa a ogni discorso sulla complessità.

Ed è proprio avendo bene in mente tale stimolante complessità che si offriranno giusto ascolto e aperto sguardo al libro di Valentino Vitali e Carmen Lama, dichiarata e ottimamente compiuta opera di fotopoesia, affascinante simbiosi di luce e parole, di immagini visive e verbali, intreccio originale di immediatezza visiva e condensazione semantica.

Se è vero che nella fotografia come nella poesia il significato non è mai fissato definitivamente e, soprattutto, non è contenuto esclusivamente all’interno dell’opera ma dipende invece (anche) da un fruitore che – ne abbia coscienza o no – lo costruisce e ricostruisce in base a un numero inafferrabile di fattori, tra i quali la propria sensibilità, la cultura, il contesto, lo stato d’animo, etc., nella fotopoesia la natura dell’interazione tra foto e testo poetico dilata ulteriormente il potenziale semantico dell’immagine e quella silenziosa pensosità di cui parla Byung-Chul Han ne La salvezza del bello (2019), ne rivela il nascondiglio, dispiega senza spiegare, e, contemporaneamente, offre enfasi all’istantaneità del testo poetico e alla sua densità.

Esattamente come raccomandato nel «Manifesto di fotopoesia», esito delle interessanti collaborazioni tra Robert Crawford e Norman McBeath, rispettivamente poeta e fotografo britannici, così come le fotografie non dovranno porsi quali  illustrazioni dei testi poetici ma opere d’arte che risuonano insieme a essi, le poesie siano ben lungi dall’essere mere descrizioni delle immagini.

Qui, in particolare, la poesia di Carmen Lama, dettato trasparente, eleganza formale ricercata e raggiunta dentro forme chiuse che rivelano un orecchio affinato da letture vaste e lungamente meditate (e che, per inciso, richiamano alla mente la “cornice” fotografica) non è mai ancillare didascalia dell’immagine che, al contrario, con assertiva pacatezza, illumina mentre se ne lascia illuminare.

I temi rappresentati l’inesausta aspirazione alla bellezza, la cattura dell’istante, l’umanissima tenzone con il tempo, il suo inarrestabile fluire, e, su tutto, il paesaggio, segnatamente quello lacustre, un paesaggio che, zanzottianamente, è anche «orizzonte psichico» – emergono nell’armonico rincorrersi di versi e luce, insieme agli interrogativi fondamentali sulla percezione visiva, sullo scarto irriducibile tra visione e sguardo, tra realtà e immagine. La poesia talora riflette su sé stessa, sul privilegio della meraviglia, sulla propria responsabilità; si arrovella sul rapporto tra parola e cosa: «Scrivo “pozzanghera”/e già si muove un riflesso di luce/nell’acqua fangosa che forma la parola/che “è” la stessa parola». Nel farsi sempre più sfumato dei confini «fra soggetto e oggetto», tra sé e mondo – sono confini d’acqua, del resto,  che, già a partire dal titolo della raccolta, ossimoricamente sfuggono alla presa –  l’io lirico sembra maturare una nitida visione metapoetica: «La trasparenza della fotografia/è uno sguardo che si spinge lontano/(…)/talvolta con serendipità/scopre angoli nascosti/porta alla luce dei veri tesori», recita un testo particolarmente pregnante.

«Il rapporto tra poesia e fotografia è di rottura e serendipità, appropriazione e scambio, evocazione e metafora», scrive Michael Nott nel suo saggio Photopoetry, 1845 – 2015. A critical history (2016): quella di Lama è dunque una netta dichiarazione di poetica. Mentre i suoi versi e la fotografia evocativa di Vitali portano in scena, appropriandosene, la sensuale bellezza dei luoghi ritratti («sono questi i miei luoghi», scrive la poetessa), si occupano simultaneamente di ciò che è visibile e di quanto non lo è. Le parole che Antonio Prete dedica al saggio di Yves Bonnefoy, Poesia e fotografia (2014) lo spiegano con invidiabile chiarezza: «(…) nell’implacabile rivelazione del caso, della nuda materia, dell’assenza che la fotografia ha introdotto, ci può essere, grazie all’alleanza tra lo sguardo del poeta e lo sguardo del fotografo, una nuova presenza, un nuovo tempo. Un’immagine salvata. Il nulla non avrà trionfato».

Patrizia Sardisco


                             

 

Un lago

Un lago – la sua linea d’orizzonte
la simmetria che specchia le montagne
i rami di betulle che accarezzano

(lunghi capelli vaporosi all’aria
o curvi come salici piangenti)

due cigni solitari che abbandonano
un’antica inquietudine
eleganti sull’acqua scivolando –

…….

 

 Per un futuro d’acqua

*se mai dovesse nascere di nuovo*

Oh, no – non ci saranno altre rinascite
si attendono non-luoghi – e orizzonti sfuocati
laddove non si arriva e non si parte

dove i ghiacci in silenzio
si ostinano a pregare
per un futuro d’acqua –

una forma diversa di rinascita
e poi nient’altro affatto –

Annamaria Ferramosca

4 aprile 2022

Annamaria Ferramosca – Per segni accesi – G. Ladolfi Editore 2021

Recensione a cura di M. Carmen Lama

I poeti sono in genere persone pacifiche, che sentono prima e più profondamente delle persone comuni le atmosfere che vengono a crearsi nelle relazioni sociali e, più ampiamente, nelle relazioni fra popoli e fra l’uomo e la natura.
Colgono, come si suol dire, i segni dei tempi. A volte anticipano quel che potrebbe accadere, a partire da qualche dettaglio che intravedono e che agli altri sfugge e, sulla base di questa particolare consapevolezza, scrivono poesie che vogliono mettere in guardia, o che vogliono semplicemente segnalare quel che a loro si è palesato attraverso la loro fine sensibilità, attraverso i loro sensi “scoperti”, attraverso quell’esercizio di osservazione meticolosa, di scandaglio, quasi, che avviene in maniera del tutto naturale, quasi che le cose si offrissero al loro sguardo per essere comprese e per far sì che i poeti dessero loro una voce.
C’è, nel porsi dei poeti di fronte alle cose che li interpellano, una sorta di stupore, un atteggiamento quasi di incredulità che in qualche modo chiede loro di verificare, di perdersi nel richiamo delle cose, di dar loro l’ascolto di cui hanno bisogno.

Leggendo più volte la bella e singolare silloge di Annamaria Ferramosca, Per segni accesi, Giuliano Ladolfi editore – febbraio 2021, ho avuto la sensazione netta di trovarmi di fronte a una poetessa il cui sentire è finissimo, la cui attenzione è costantemente vigile, a lei non sfuggono particolari molto significativi che attraversano il tempo che stiamo vivendo e che interessano non il suo solo spazio di vita, ma uno spazio che va oltre i ristretti confini di un paese, o regione, o nazione, per espandersi a livello planetario.

Scritta in tempi non sospetti, (non gli attuali, febbraio/marzo 2022, in cui gli elementi presenti nelle poesie stanno esplodendo in modo esasperato), la silloge coglieva già elementi di tensione, di disfunzione nei rapporti tra popoli (ma anche tra persone della stessa comunità linguistica e sociale), di indisponibilità a farsi carico dei problemi dei meno fortunati, di non accoglienza dell’altro, come se si volesse lasciare a ciascuno la responsabilità di trovarsi a vivere in paesi dove solo la sofferenza è loro pane quotidiano, mentre in realtà non si sceglie il posto in cui ci si trova a vivere, in cui si è nati.

La Ferramosca sembra toccare con mano le situazioni di cui parla, sembra viverle sulla propria pelle, tanta è la solidarietà che si sente vibrare nei suoi versi e l’empatia.
I versi sembrano scorrere su un filo rosso invisibile, che inizia col mettere in scena l’origine della vita, (si fermano i vortici della notte si compie il tempo / l’humus prende forma imita materia d’alba […] dire di un movimento che prima non c’era / e pure si predisponeva / con l’impercettibile forza del germoglio / un tendere misterioso del seme) per proseguire con le varie vicissitudini che in una vita accadono e, con calibrato equilibrio, vengono mostrate, attraverso metafore, miti, dubbi e pressanti domande (domandepietre, a volte), e realtà concrete, le emozioni vissute dai protagonisti, le loro prese di posizione fatte proprie dalla poetessa per dar loro una voce, e che sia la più accorata e la più incisiva voce possibile.

Attraverso le poesie di questa silloge, Annamaria Ferramosca si fa portatrice di valori assoluti, che da tempo sembrano aver perso la loro preminenza nella vita degli uomini e dei popoli e nel loro rapporto con la natura (chiamo mi chiamano / respiro il comune respiro / insieme camminiamo insieme andiamo) – (il villaggio i fuochi le ombre lunghe / i miei vecchi con me porto indicibili / i loro occhi del commiato) – (ora o mai più / è ora di prossimità / insieme aprire la via nel bosco / luminosa assoluta / seguirne i segni chiari sui tronchi / fino al limite dei rami / riconoscere la distanza di rispetto / tra pianta e pianta tra nido e nido) – (cerco armi nella voce un canto / per la bambina che improvvisa una danza / le sue parolecorpo sollevano / onde felici di musica e memoria)… e così via…
I versi si dipanano lungo un asse portante che riguarda la natura, la cui salvaguardia dovrebbe essere intesa non solo per se stessa ma anche a vantaggio della stessa sopravvivenza degli esseri viventi in generale e umani, in particolare, e invece la natura subisce sfruttamenti e violazioni irragionevoli.

Con lo scorrere dei versi su quel sottile filo rosso dell’esistenza, scorre anche un richiamo forte, via via più insistente, più deciso e convincente, alla presa di coscienza della deriva verso cui stiamo portando il nostro mondo e con esso noi stessi (altrimenti // saremo sirene disperate […] solo schiuma d’onde / rumore di risacca) – (tutto il caos che piove dalla fronte / il tremore sgomento dei neuroni) – (mentre torri schiantano e ponti / deserti avanzano s’inabissano rive)…
Insieme a ciò, si fa viva una speranza, che davvero si possa tornare ad una condizione di vita sostenibile, in cui ciascun individuo, ciascun popolo possa trovare il proprio status di “umanità felice” (ci esaltiamo lungo i meridiani / per ogni lingua viva come bella s’accende / quando si contamina / e si esulta / nel riconoscere la madre in ogni terra / e fratelli su ogni terra uguali)…

Questo avanzamento delle poesie verso una speranza che non deluda è colto attraverso l’accrescimento dell’enfasi, quel che in poesia è definito climax ascendente, appunto, e che qui prosegue con intensità sempre maggiore di poesia in poesia, dall’una all’altra delle tre sezioni del libro. Con questa modalità espressiva la poetessa vuole mettere in evidenza una sorta di “grido” della sua anima, affinché le sue parole vengano ascoltate e stimolino riflessioni. E affinché ne conseguano azioni coerenti.

Non sempre si trovano tanta determinazione e tanta partecipazione emotiva in libri di poesie che abbiano un fine di così alto livello, nonostante la conoscenza dei problemi attuali del nostro mondo sia ormai alla portata di tutti.
Inversamente, si potrebbe dire che la Ferramosca abbia colto il bisogno profondo degli esseri umani più consapevoli che tuttavia non possiedono gli strumenti per mettere ordine nella loro confusa percezione e abbia voluto dar loro voce.

Annamaria Ferramosca adegua perfino il suo linguaggio poetico allo scopo che persegue e che vorrebbe conseguire. In questa raccolta poetica prevale infatti la chiarezza espressiva, proprio per riuscire a raggiungere la mente e il cuore di quanti più lettori sia possibile, perché la consapevolezza delle nostre azioni si allarghi come in cerchi concentrici, come accade all’acqua quando vi si lanci dentro un sasso.
Ecco, le poesie sono i sassi, ma sono anche precisi segni, accesi in tutta la loro luminosità, perché quel che si è mostrato alla poetessa come indice di attenzione possa essere visto e sentito anche da chi voglia capire e interpretare la realtà in cui vive, anche se in modo indiretto, leggendo le rappresentazioni che la poetessa porge con l’insieme dei suoi versi poetici.

E, nel caso specifico di questa raccolta, si tratta di poesie pensate, sofferte, vissute. E come tali raggiungono chi le legge.

(4 marzo 2022)

fare tabula rasa dei pensieri
affidarsi al buio
con la sicurezza dei ciechi

sostare ad ogni angolo della notte
afferrare i lumi al baluginare dell’alba
sulla bocca delle sorgenti
nel luccichio delle nascite

verrà l’oceano
verranno le sue vele
saremo nuovi per nuovi continenti


vedere chiare feroci le nostre solitudini
molecole disaggregata ancora
qualcuno strappa i legami covalenti ancora
la vista si oscura

reagire agli urti come fossero incontri
seguire empatiche direzioni automatiche
– voli in stormo come istinti del nido –
accogliere in gioia i suoni multilingue
quando si traducono solo sfiorandosi
e rifondano città
altrimenti

saremo sirene disperate
aggrappate ai fianchi delle navi
a soffiare note strozzate
sui naviganti legati al palo
storditi dal nostro sperdimento
d’essere solo schiuma d’onde
rumore di risacca


quel flauto di Pan suonava
come retrocedendo nel tempo
chi ascoltava ne era trapassato
sentiva di scivolare
in una terra diafana
di boschi di nidi
dove minimi fuochi
accendono desideri

ritornare là nello spazio bianco
dove il primo flauto era nato
e cantava
già prima di nascere


terra domani

mi dici ho visto in sogno il futuro
come da un’astronave guardavo
la terra venire incontro al suo domani

a tratti s’illuminava tra i rami
di lanterne voci onde vivide
da una mappa poetica sonora
(dal brusio emerge ogni voce
E nitida dice con lance di senso)

e i visi i visi di noi futuri
occhi e capelli lucenti
pelle ibrido-bruna

e le note le note
non più distinte ma
divenute paesaggio
bosco che scivola nella città
savana fusa nel villaggio

vedere caprioli in corsa
su autostrade deserte
e lupe venute a partorire
negli hangar silenziosi

sentire feroce il sole ridere
di noi umani confusi reclusi
a schivare corpuscoli armati
ad attendere lentissima
la chiarezza

 

 

Annamaria Ferramosca è nata in Salento e vive a Roma, dove ha lavorato come biologa docente e ricercatrice, ricoprendo al contempo l’incarico di cultrice di Letteratura Italiana per alcuni anni presso l’Università RomaTre. Ha all’attivo collaborazioni e contributi creativi e critici con varie riviste nazionali e internazionali e in rete con vari siti italiani di poesia.
Ha pubblicato in poesia: Andare per salti, Arcipelago Itaca (Premio Arcipelago Itaca, selezione Premio Elio Pagliarani, Premio “Una vita in poesia” al Lorenzo Montano2020, finalista al Premio Guido Gozzano e al Premio Europa in Versi); Other Signs, Other Circles – Selected Poems 1990-2008, volume antologico di percorso edito da Chelsea Editions di New York per la collana Poeti Italiani Contemporanei Tradotti, a cura di Anamaría Crowe Serrano e Riccardo Duranti ( Premio Città di Cattolica); Curve di livello, Marsilio (Premio Astrolabio, finalista ai Premi: Camaiore, LericiPea, Giovanni Pascoli, Lorenzo Montano); Trittici – Il segno e la parola,DotcomPress; Ciclica, La Vita Felice; Paso Doble, coautrice la poetessa irlandese Anamaria Crowe Serrano, Empiria; La Poesia Anima Mundi, monografia a cura di Gianmario Lucini, con i Canti della prossimità, puntoacapo; Porte/Doors, Edizioni del Leone (Premio Internazionale Forum-Den Haag); Il versante vero, Fermenti (Premio Opera Prima Aldo Contini Bonacossi).
Ha curato la versione poetica italiana del libro antologico del poeta rumeno Gheorghe Vidican 3D- Poesie 2003-2013, CFR (Premio Accademia di Romania per la traduzione).
Sue poesie appaiono in numerose antologie e volumi collettanei e sono state tradotte, oltre che in inglese,in rumeno, greco, francese, tedesco, spagnolo, albanese, turco, arabo.

Un’ampia rassegna bibliografica con recensioni critiche è nel sito personale www.annamariaferramosca.it

Elia Belculfinè

14 marzo 2022

Elia Belculfinè – La rosa rosa  – Ed. Rp.libri 2020

(Recensione a cura di M. Carmen Lama)

 

La rosa è materia privilegiata del canto dei poeti per la sua particolare bellezza, il morbido profumo, la forma dei petali sovrapposti che agiscono in funzione della trasformazione lenta e delicata dal bocciolo alla rosa matura, aperta allo sguardo di chi la ama e in qualche modo anche conturbante.

E poi ci sono i molti colori, compresi quelli artificialmente prodotti, che esprimono significati particolari, tutti riferiti a sentimenti di amore e di amicizia.

È forse per tutte queste qualità, ma anche per la simbologia di cui è stata investita, che la rosa è diventata un oggetto poetico tanto altamente considerato.

Simbologia chiaramente sottolineata da Dan Brown nel suo Codice da Vinci, in alternativa alla mela del mito del paradiso terrestre o alla mela d’oro del mito del giardino delle Esperidi da cui tante conseguenze sono scaturite, secondo l’ispirazione di Omero trasposta nell’Iliade.

 

Un poeta che di recente ha preso a simbolo del suo canto una rosa, e nello specifico una rosa rosa, è Elia Belculfinè, con la sua ultima silloge, edita da Rp.libri nel dicembre 2020, dal suggestivo titolo “La rosa rosa”.

In molte poesie del libro la rosa ha parte in causa in vari modi e contesti.

Il  colore rosa sta a ricordare, in generale, un sentimento di affetto che si declina in amicizia, amore puro, innocente, o anche ammirazione e con l’aggiunta di un apprezzamento della raffinatezza ed eleganza attribuite alla persona alla quale le rose rosa sono dedicate.

 

Non so se consapevolmente e in quale misura il poeta Elia abbia scelto questa specifica rosa per voler significare i sentimenti sopra accennati, o almeno alcuni di essi; basti tuttavia essere certi che sia  riuscito a trasferire, nel suo modo peculiare e originale di poetare, questi sentimenti in diverse poesie della silloge.

Ne darà conferma una lettura attenta e partecipe, che sia in grado di andare oltre la superficie delle parole e dei versi e di estrarne il senso profondo che il poeta ha voluto comunicare.

 

La silloge comprende quattro sezioni, la seconda delle quali suddivisa a sua volta in due parti.

Nella prima sezione, Operando nel fuoco, il poeta sembra mettere in scena un paradigma elementare (elementare perché ancestrale!) dove il fuoco emerge, in ultima analisi, nelle sue connotazioni purificatrici, non senza essergli debitori della sofferenza prodotta dalle bruciature per aver osato avvicinarglisi troppo fin quasi a toccarlo.

Il fuoco a cui Elia allude è il fuoco vivo che tormenta il poeta producendo in lui gli spasmi del creare, del fare artistico, dell’essere investito della necessità interiore di scrivere per riuscire a venire fuori, anche se solo momentaneamente, dal dolore, dalla sofferenza, vissuti come DNA dell’anima, cioè come qualcosa che è intrinsecamente connaturato all’essere poeta.

 

È questo un atteggiamento tipico del poeta Elia che, anche in altre poesie edite o inedite, a cominciare dalle sue prime poesie, non manca occasione per sottolineare quanto “il poeta” debba soffrire (perfino le sue stimmate…) prima di potersi considerare tale.

Ritengo sia molto pregevole il fatto che ancora lo ribadisca, anche se in altri modi, forse più “scottanti” perché più consapevoli, in quanto si evidenzia un dato importante: il poeta più maturo non smentisce affatto le sue prime esperienze poetiche, anzi sempre più le rafforza rielaborandole.

A un attento e partecipe lettore, che abbia un minimo di familiarità con il lessico poetico di Elia, non può sfuggire il senso di questo ritornare sul tema del lavoro “sofferto” del poeta. Era già molto chiaro al giovane Elia, ed egli sa che mai potrà liberarsi di questo tormento creativo.

Scrivendone sembra volerlo alleviare.

Ma le sue parole toccano il culmine, quando scrive, ad esempio, in chiusura della sezione che stiamo analizzando: “Uomo scorticato dai graffi dei tuoi artigli / (Scrivi, ti perdi, o sei paziente, simbiosi e fiamma) / Che più di tutti hai patito il solfeggio della carne”.

 

In questa sezione le poesie si servono dei “correlativi oggettivi” (di eliotiana memoria) che all’apparenza mettono insieme immagini lontane, ma tutte sono finalizzate a rendere l’atmosfera di accanita e instancabile ricerca del poeta, che tenta di affinare le parole rendendole taglienti, urticanti, in linea con le fiamme del fuoco sacro..!

 

Le due parti della seconda sezione, Le allegrie del vino, hanno rispettivamente il sottotitolo I passati e I passanti.

Nella prima, cinque poesie dense di calore, sono dedicate a persone che sono passate per l’esistenza e con le quali il poeta intrattiene un dialogo che forse non era mai venuto meno, neanche dopo la loro scomparsa, e che qui tende a fissare il rapporto di reciproca benevolenza, ricordando (di ognuna) dei tratti caratteristici riferiti al loro modo di essere o di fare.

I versi sono incalzanti, come se il poeta attendesse da ogni destinatario dei suoi versi una risposta, un messaggio.

 

Nella mia immaginazione, è come se il poeta volesse prendere forza dalla loro morte, ed è esemplare il fatto che “Al limite di fiamma, non vi è fuoco che intacchi/ il cuore dei poeti”, e anche questo: che “I morti non muoiono mai, sempredesti filari e vortici”, e anche questo: “Dove vanno i morti, con gerle / di fuochi sulla collina?” […] “Accolgono i poeti…”

E come per i morti il poeta prega “l’amore gentile che si fa la pietra col vento” così si può intuire il suo desiderio di essere ad essi accomunato nel suo destino: che il fuoco non intacchi il suo cuore, che il poeta non muoia mai e che sia a sua volta amato.

Anche in queste poesie le parole fanno le immagini e le immagini rafforzano le parole e creano atmosfere alle quali non si resta affatto indifferenti, perché coinvolgono, chiamano in causa anche il lettore.

 

Nella seconda parte, ancora cinque poesie, questa volta dedicate ai passanti. Ma chi sono i passanti? Sono vaghe figure metaforiche che, attraverso passaggi inaspettati e accostamenti audaci di parole, simboleggiano ancora la Poesia: “Maestra che cuce le vele per i pirati” […] “Ma ciò in cui non vuole / infilare l’ago è la sua lingua lacerata / dall’infamia del suo canto, / che in realtà è un cicaleccio nella grondaia” – quest’ultimo verso a voler intendere l’insoddisfazione del poeta, come se l’esito del suo affannoso cercare fosse un semplice “cicaleccio”.. – e così di seguito, nelle altre poesie, dei versi rivelatori: lo “Sgranaossi”, gli “ofidi colloquiali”, “Tu giungi alla riva della coscienza […] dove i poeti guardano a oriente, coi battiti nelle sillabe..”, “Ermete sul trono / che canta ai poeti la sua tristezza”.

 

Il poeta è inchiodato nella sua funzione e la esplica prendendo a prestito dalla vita quelle visioni che circolarmente lo riportano al suo mondo, alla sua ispirazione creativa, al suo meticoloso lavoro nel quale, in definitiva, non è ancora arrivato se non quasi al punto di partenza.

 

La sezione che porta lo stesso titolo del libro, La rosa rosa, si articola in poesie in cui le rose fanno da sfondo all’azione del poeta, alle sue riflessioni sul destino dei morti, sulla loro vita notturna, sul loro rapporto con i loro morti e sull’essere morti, talvolta, anche dei vivi, o sul credere che “l’amore possa vincere sulla morte / eternamente”, o sul chiedersi se non ci sarà fine per i tormenti dei poeti, (“il peso del verso, con la stessa zavorra delle ombre”), per finire con “Un solo pulsante teorema: la fiamma cantare, / il drappo spregiudicato del tuo dramma / nella singola battuta” […] “Nulla resta, che nulla ci ostacola / agli eterni palpiti dell’usignolo” (qui, un velato omaggio all’usignolo di Keats?). E ancora: “Rifiuta la luce, sovente, la stella dei poeti”.

E nell’ultima poesia Elia codifica la dannazione dei poeti e il “temere per il seggio della mia eternità. Sono / o non sono nella schiera dei poeti?” – esponendosi in prima persona.

Ecco fin dove può giungere il tormento! A intaccare continuamente l’identità stessa del poeta.

 

La silloge si chiude con un bellissimo omaggio a una poetessa di grande talento creativo ed espressivo, con la quale il poeta Elia condivide un sentire che va oltre ogni umana troppo umana comprensione. Entrambi si pongono, infatti, a un livello poetico che è di pochi eletti. 

Cristina Bove è la fortunata destinataria delle ultime poesie della sezione I registri di Marcel. (Elia = Marcelin altra dimensione…!)

 

La prima delle poesie a lei dedicate è una bellissima dichiarazione d’amore, tanto forte e solido è il legame non solo poetico ma anche umano fra i due poeti, come da figlio a madre.

La seconda, un formidabile manifesto poetico, artisticamente perfetto, (già da me analizzato in altra sede) che insiste sulla necessità della ricerca continua del poeta. Scritta molti anni fa, denota l’estrema chiarezza di idee in proposito, già nel giovane poeta..

Tra le restanti poesie vorrei segnalare in particolare la penultima, “Le tue parole alle mie mani..” nella quale Elia si rivolge a Cristina elogiando le sue parole perché gli  “aprono strade di canzoni” e la interpella in modo diretto identificandola come “Anima, ginepro di partitura: musica / sorgiva alle tue dita, maestra…

Ecco, il riconoscimento a Cristina non è solo di essere vera poetessa, ma di più… maestra!

Lo scambio fra poeti è senza dubbio fonte di arricchimento reciproco, ma qui Elia si fa un po’ da parte per lasciare più spazio alla sua amica.

Si percepisce un atteggiamento di umiltà di fronte a una poetessa la cui esperienza creativa poliedrica può lasciare a volte interdetti per la semplicità con cui esprime concetti profondi, avvalendosi non solo dei propri vissuti ma anche delle sue ampie conoscenze in molti campi del sapere.

Ma, giunti al termine della lettura de’ La rosa rosa, non si può che essere certi che Elia non è da meno, e che quindi in questa ultima sezione del libro vi è un dialogo fra “grandi poeti”.

 

La consapevolezza che il nostro ancor giovane Elia dimostra riguardo al suo status di poeta e alle difficoltà che questo lavoro comporta è evidenziata in molti modi, con immagini e metafore molto incisive.

Sembra quasi che egli risieda su un sottile crinale delle parole, perennemente in precario equilibrio e debba trovare il modo di non precipitare. E nei continui e necessari assestamenti sia costretto a correre sempre il rischio, perché sa che ne vale la pena. Pertanto le sue azioni sentono vivamente la fatica, ed è solo quando il canto lo sostiene che riesce a trovare un po’ di sollievo dalla sua sofferenza del vivere in quelle condizioni di fragilità e dalla sua sofferta solitudine. È come essere costantemente in prova, e a ogni prova successiva si alzi il livello ed è come ricominciare.

 

Ma il poeta qui prende a prestito dalle rose la bellezza, la raffinatezza e l’eleganza, anche se connotate da effimera fragilità, e tutte queste qualità trasferisce nel suo stile, offrendo a chi legge una sorta di magia, e se stesso come uno dei sortilegi cui fa cenno,  perché l’alchimia delle sue parole è un dato di fatto che si manifesta come “invenzione del proprio linguaggio poetico”.

Nella lucida sintesi introduttiva di Antonio Bux questo linguaggio viene inteso come musica per “una litania senza fine e preternaturale” dove le parole “anche chiariscono quanto sia dolce sentirsi condannati, e forse anche folli, nel destino di diventare cenere”…

Come le rose, e tuttavia con la certezza di essere stati portatori di amore nel senso bidirezionale di dare e ricevere: il poeta ama le cose che canta ed è amato per il suo canto.

 

 (13 febbraio 2022)

 

Dalla sezione Operando nel fuoco

 

Recrudescenza, nella luna, del tuo male.

Alta sul pioppeto umilia,

gettandosi sulle rotaie, un usignolo dentro i versi.

L’eternità ha il furioso dulcamaro delle olanzapine,

col tuo segreto sfigurato, sorella…

Il giorno è d’autunno, un secolo fa.

Mai vedesti ridere tua madre.

Il suicidio delicato del rabdomante –

Leggervi dolore è un’oscenità comune.

Isolarti al fondo, fra le stelle d’acquitrino.

I poeti sono aria. Non versi? Sei tu a dirlo…

Strappato all’orologio l’orpello della meta.

Corollario, cerca il piatto d’ombre, il sangue col rame.

Sia, fitto di agrumeti, Città Radiante, il sole.

Concrezioni di labbra.

Rime nella notte, mai baciate.

 

Dalla sezione Le allegrie del vino

 

La maestra è una sarta magistrale.

Cuce le vele per i pirati.

E i vestiti alle bambole del vicinato

Coi panni da lavoro del marito

a cui non imbastisce un abito o intavola il piatto.

Quando ha finito si beve un vermut

tra amiche. E se ne va al cinema

con le sue miserie.

Ma ciò in cui non vuole

infilare l’ago è la sua lingua lacerata

dall’infamia del suo canto,

che in realtà è un cicaleccio nella grondaia.

 

Dalla sezione La rosa rosa

 

Smagrita, viva. Ti perdi nelle luci,

ulivo, come sfregiato pianto.

Si agitano i poeti, hanno croci,

sì. I poeti della Pasqua, nel torpore di voci

con rose di sutura sulla bocca. Nella calura d’amianto…

Rosa rosae

Rose rosa. Sulle spoglie della notte, i poeti

affondano nella pietraia fino ai denti.

Ma raccolgono il vino cercatore. Le ulne

al viso, si dannano: l’amore canta lemme lemme

le idiopatie latenti – filigrana scarna – alle culle

affannando. Nessuna fine i loro tormenti? Cara M,

il peso del verso, con la stessa zavorra delle ombre.

 

 

Dalla sezione I registri di Marcel

 

Se non confidassi in te, Signore,

e nel desiderio che tu sia al di sopra

di ogni poeta, il mio canto sarebbe

una nota fissa. Nella carne aperta della tua voce

si ravviva il suono degli uomini.

Dolce creatura, quale musa domani

ci tremerà nel seno! Ma un canto

di solo delirio inaridisce presto negli occhi

il rinforzo di voce alla tua sete.

Se il verso è un campo da arare,

se ogni sillaba è semenza faticosa, credi…

Vedrai spuntare in ogni sguardo

il cereale smagliante della tua parola.


Mi chiamo Elia Belculfinè. Sono nato a Caserta il 29 settembre di qualche anno fa. Scrivo poesie da prima di quella data (mi pare altissimo dirlo, ma non mi prendo molto sul serio, a dire il vero).
Abito a Caserta con la mia compagna.
Elia

il blog di Elia Belculfinè

Patrizia Sardisco

23 ottobre 2021

 

 

                                                                                                                                                  

                                                                                                                                                                   

Lo spettro del visibile, di Patrizia Sardisco, ed Cofine 2021

Recensione a cura di M. Carmen Lama

 

 

Non solo della visione e del pensiero ha bisogno il poeta, ma soprattutto della parola, con cui scalfire la lingua, inciderla, plasmarla.

La lingua poetica non esiste di per sé, ma è creata e ri_creata ogni volta dal poeta, a partire, sì, da una visione, da un pensiero, da una suggestione o atmosfera, ma tutto questo è lo sfondo, la pagina bianca che attende l’esatta formulazione del verso più adeguato a rendere rappresentabile (dicibile) la visione, il pensiero…

È come estrarre una luce dal buio dell’anima, qualcosa che si rivela a lampi, a sprazzi, in frammenti da cui iniziare per ricostruire una figura intera.

Il poeta è come un archeologo dell’anima. Deve essere in grado di decriptare quel che gli si presenta come enigma, come codice segreto.

 

“Vola alta, parola” scriveva Mario Luzi, la parola usurata dal parlare comune non può dire in modo efficace il sentire del poeta.

E anche quando, con un lavoro di lima e cesello, una composizione poetica sembra soddisfacente, il poeta nota ancora uno scarto rispetto alla sua intenzionalità espressiva, la comunicazione  non coincide con la sua visione, si approssima ma non la raggiunge mai del tutto.

 

Leggendo il bel libro di Patrizia Sardisco, Lo spettro del visibile (ed. Cofine 2021, con Prefazione di Anna Maria Curci), ho colto proprio un lavorìo interiore dell’autrice, che sembra utilizzare uno scandaglio mentale per scendere sempre più in profondità, nel suo Io inquieto, alla ricerca delle radici aurorali della lingua, per trovare le parole-cose, le parole-affetti, le parole-visioni-atmosfere, che sappiano dire, appunto, che sappiano rappresentare in forma poetica, l’essenza sottile, quasi ineffabile, del suo sentire.

E ogni volta è un doversi impegnare, darsi da fare con determinazione, come cercando in un magma incandescente, fino ad accontentarsi almeno di un percorso di senso, ma con la consapevolezza che forse c’era dell’altro, nel fondo, nel centro, nel cuore -del sentire e della lingua con cui esprimerlo- e che la ricerca dovrà continuare.

 

Molte sono le poesie della silloge nelle quali questa “soddisfazione a metà” emerge quasi con disappunto; alcune invece rivelano una rassegnata consapevolezza, che si presenta quasi come modalità didascalica, come se la poetessa volesse avvertire chi legge che ci sono cose – eventi – situazioni non dicibili una volta per tutte, non in tutti gli aspetti, non con la precisione che ci si potrebbe aspettare e a cui la stessa poetessa aspirava.

 

La bellezza dei componimenti poetici del libro ‘Lo spettro del visibile’ sta soprattutto nei molti e diversi modi di cercare la parola perfetta (o almeno, quasi perfetta..) e in quel tentare di mostrare le diverse facce rifrangenti di un prisma in cui si riflettono i mille colori delle parole, con le loro sfumature-nuances di significati, e nell’assegnare loro il posto più adatto nel verso e nella poesia tutt’intera.

 

E poi anche il lettore si trova come imbrigliato in una sorta di rete i cui nodi sono mobili e ricomponibili, “snodabili”, e si è condotti per nuovi sentieri di senso, per significati insospettabili alla prima lettura.

 

Nella ricca e approfondita Prefazione di Anna Maria Curci e nella interessante Recensione di Luigi Paraboschi (alle quali rimando) sono esplicati diversi spunti per una comprensione più puntuale, con citazioni ed esemplificazioni di versi, di poesie utilizzate e utilizzabili come chiavi interpretative, che hanno attirato anche la mia attenzione (ma che non riporto qui per evitare di ripetere quanto già ben espresso da altri)

 

E credo che questa silloge sia imperdibile, non solo per quanto fin qui evidenziato, ma anche perché lo stile della scrittura poetica di Patrizia Sardisco si avvale di una cultura ampia e di una espressività originale e, pertanto, leggere e approfondire il significato di poesie come queste de’ Lo spettro del visibile è come entrare in mondi nuovi, tutti da esplorare.

 

(M. Carmen Lama, 7.9.2021)

                                    

                                    

                                   

il residuo non cessa
di emettere segnali

amputare la mano dopo il tiro
continuare a saperne
la posizione le sensazioni tattili

del dolore sottratto
resta la sottrazione, l’assenza di visione
la bruciatura plastica sull’orlo
l’urlo fantasma che sutura il foro

                                                    

                                        


                                     

                         

fare della reticenza fiato
dell’astensione morso segno
usurare
la lingua torcerla al verso
darsi la direzione tra i picchi delle onde
decidere tagliare
la frequenza coattiva la catena
scantonare forse
forse cantare

                                   

                                 


                         

sembra vuoto ma è materia mobile

il lume tra tutto questo
andare e il mio restare
muta in sostanza, dico
qui riconosco un guado, ve lo mostro

ma non si guarda, non si sente un ponte
lo si passa

                                

                                   


                          

Chiedi a una rosa
se è colta o pronunciata
o se è recisa.

Sia detto che la rosa
non sbavava
per travasarsi in rosso
in un decanter

rubra dentro al suo cono
emergente incidente
era e danzava iperurania e sparsa
chiusa ma in sé esclamata

né sbocci né sboccature
non traboccava
restava, non rosa
rosa.

 

                               

Maria Carmen Lama

11 novembre 2016

Carmen Lama

 

 

È poeta soltanto
                         
                         
Non tutte le ciambelle
riescono col buco:
in questo brutto detto
c’è un po’ di verità
come quando si dice:
Non ogni parto buono
genera figli sani.

Così il poeta
non se ne faccia un cruccio
se mentre viaggia dentro le parole
ne trova alcune sfatte,
sfiorite, sfarinate
e non crea poesia,
ma acerbo frutto.
Se ha sabbia tra le dita
può scegliere – se vuole:
lasciarla scivolare
e tornare al suo nulla
o, bagnandola,
farne effimero castello.

Con le parole il gioco
è ancora più complesso.
Quando il poeta crede
d’averne colto un senso
stabile, duraturo, forse eterno,
la cosa significata
è già cambiata.

Lo sa il poeta
che si muove spesso
su una sottile linea di confine?
Viaggia tra il nulla
che vuole esser cosa
e l’essere che ricade già nel nulla.

È poeta soltanto
quel demiurgo
che in un baluginio
raccoglie un mondo,
che vive come in bilico,
sospeso, per afferrare
le parole in volo,
ma che sa anche
e sente chiaramente,
nell’oscillante gioco
dell’approssimazione,
il suo continuo rischio
di caduta.

Ma fino a che lo sosterrà
uno sguardo poetico sul mondo,
la sua ricerca non avrà mai fine,
perché in poesia non c’è una meta.

                                                                              

Dolceamaro

Negli occhi il mare
in lacrime di gioia

il cuore si riempie
si gonfia come un’onda

e mi sazia quest’immenso
dolceamaro.

 

 

Il silenzio, talvolta
Il silenzio, talvolta,
è un gravitare di parole
nel vento della sera,
un accendere fuochi a precipizio,
cauterio di ferite
che più sono invisibili
più bruciano
lasciando riverberi
in cieli di smeraldo.

 

 

Si sta

Si sta
come d’estate
le barche a Giethoorn!

 

 

Piegheremmo anche in quattro
Piegheremmo anche in quattro
tante risate vere
quelle che ci ri_piegano sui fianchi
e ci tolgono il fiato
(o vuoi il respiro?)
mentre parliamo dell’infantilismo
di certi raccontini per bambini
che nemmeno i bambini….!

E dire che ci siamo divertite
alle pareti della nostra casa
non serve -già!-
ché anche le pareti ridevano
e ridevano e ridevano
ché a memoria conoscono i ritratti
delle luci
ma più ancora del buio
de_(lle)_menti

_

                        

__________________________

                               

                            

Dedicate a un’amica
                                   

                                       

Se non ci fosse l’aria
e il tuo respiro
se il tempo fosse immobile
se non avesse voce il vento
se uno spazio minuto
non accogliesse
il pianto e il riso
di un’anima bambina –

o… se non ci fosse …

dove starebbe il senso
d’ogni cosa?
                                   
                          

Fiammeggia

Fiammeggia metà_fisica dei quanti
e c’è chi padroneggia infinitesimi
dei tanti dentro un vortice che ondeggia
ed è subito sera che dardeggia

inaspriranno i cirimolli acquatici
nel bel mezzo d’anseriformi asfittici
                       
                            
                            
Per dipanare enigmi
                       

Come s’appoggia ad una balaustra
una malinconia oppure un pianto
così ci affacciavamo su un sentiero
che portava soltanto verso il nulla
e ci scommettevamo una visiera
di cappellino, d’aria e di minuti,
che saremmo arrivati in men che niente

non sapevamo dove, e tuttavia
si muovevano i piedi, non il corpo,
e annaspavamo intorno a un labirinto
che ci riproponeva un filo e Arianna
e un maxitauro vestito d’amaranto

e il labirinto non aveva vie, soltanto
un’apertura chiusa in alto, per sorvolare
intimamente un sogno
e rifare a memoria
indizi di memoria

è che a volte dal nulla nasce cosa
che mai t’aspetteresti e non comprendi
ma qualche cosa è lì che affiora piano
dal labirinto della tua memoria
o dai sentieri inviolabili
del nulla
per dipanare enigmi
sospesi sugli abissi più profondi
                                     
                             
                             

Palpiti in superficie
                                
                               
Palpiti in superficie a punta-spilli
allineati desideri e sogni

– ma di che? ma di chi?-

tempura al ristorante au trompe l’oeil
come un incartamento di destino
– o fosse il tempo che sempre m’inganna? –

Appare un mondo che non riconosci
e il ciglio è doppio sulla carreggiata.

Ma al fondo al fondo cosa vedi, amica?

Non ho mai scandagliato, veramente…
– fosse paura o eccessivo fermento
o distrazione o tormento!? benché… –

Se penso a quell’immagine che penso
mi turba un po’ sapermi stereoscopica
anima, mente e…
chissà se anche il corpo!?

Oh, taci, taci! E ascolta il tempo, ascolta.
Fluisce nelle vene e disincanta
e ancora inganna. Ma sarà per poco.

Se guardi nel profondo, con amore,
quell’essere scoperto ti sorprende
e palpiti discendono
discendono…
sussulti all’unisono si fondono
onde increspano superficie e fondo
lo sguardo che si staglia sullo sfondo
e di dolcezza investe il tuo domani.

 

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Maria Carmen Lama

24 settembre 2016

Carmen Lama

 

 

Lara’s Theme
***
[A volte il tempo ha di queste stasi
e concede una pausa ai suoi respiri
ne trattiene prima uno
poi un altro
ad intervalli quasi regolari]

Insieme rivedevano
la casa dei loro sogni
che il gelo aveva reso una spelonca
con stalattiti e stalagmiti
al posto della polvere
e il fascino sfiorava la bellezza

poi arrivò una carrozza
coi cavalli infreddoliti
gliela portarono via
e lui rimase a guardare
quella bianca distesa di silenzio

Dove sarebbe andata? e sarebbe mai tornata?

rientrò ruppe un vetro a una finestra
e dal freddo oblò guardava
lei si voltava lui spingeva lo sguardo
fino all’ultimo orizzonte
infine la sua vita era solo quel puntino
che più s’allontanava
più s’imprimeva a fondo nel suo cuore
e vezzeggiava l’anima

(ma null’altro rimane che il ricordo
di quella scena in cui due solitudini
sempre più s’avvicinano
nella loro forzata lontananza)

e lui stava a guardare
quella bianca distesa di silenzio
dove appuntava tutti i suoi ricordi
e lei era presente più che mai

A volte il tempo ha di queste stasi
e concede una pausa ai suoi respiri
ne trattiene prima uno
poi un altro
ad intervalli quasi regolari

E poi
basta l’attesa solamente
a fare dei ricordi
i nuovi desideri […]

 

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Maria Carmen Lama

21 febbraio 2015

 Carmen Lama

 

All’incipit del tempo
Venuta al mondo un mattino a novembre
non più silenzio non ancora voce
non più nel buio non ancora luce
dall’informe a uno slancio del pensiero
dal puro nulla all’incipit del tempo

freccia scagliata nell’eternità
                                                
                                            
Sangue blu
Tu che non consoci il mio paese
non puoi decriptare
il codice del mio DNA
e non potrai capire
perché nelle mie vene
circola acqua di mare –

                                           

Lontano
Lontano
come per un timore quasi sacro
come per una scelta ragionata
tanto da sentirne la retorica
convulsa, arrampicata sugli specchi
d’un’attiva indolenza quasi magica

Lontano tanto
da sentire un dolore sulle tempie
un dolore perfetto e persistente
per la forte pressione
del silenzio

                                                 

Al Morteratsch
mi distrae una nuvola, si sfrangia,
inverte la visione, mi confonde
stavo vedendo un’orsa, quasi il carro minore,
e sotto gli occhi mi diventa un fiore
poi mi sparisce sotto un lungo ponte
ed entra in una specie di castello dei sogni
con tanto di torretta e intorno un lago

e non so più chi sono

so solamente che la distrazione
ha preso il sopravvento
e mi ritrovo accanto ai miei due cieli,
in una terra straniera, al Morteratsch

                                                       

Valore dell’incondizionato
Un gesto non riconosciuto si contrae
si dibatte si astrae
si ritrae
retroflette il suo corso
ne arresta il flusso
soggiace a condizioni.

Uno sguardo agonizza dentro gli occhi.

Altro
sarebbe stata la sua morte
– forse rinascita o sublime suggestione –
se solo fosse stato divelto
l’astro che congiungeva
– disgiungendoli – i gesti.

Una parola viva
 – questo soltanto –
è ammainata dentro il suo rimpianto.

                                            

Iterativo causale
Da quella volta che esplosero istanti
e che i pensieri mi ferì una scheggia
mi rimbomba nell’anima
                                    un dolore.

Nessuno e niente – mai –
può cancellare
qualsiasi cosa sia tra noi
                                    accaduta.

In_corsa nei circuiti neuronali,
esisterà per sempre tra i ricordi
ripiomberà improvvisa
                                  dentro i sogni.

Non senti come s’amplia
ancora l’eco
nello spazio
nel tempo
in un destino?

E cambiano in tal modo
gli equilibri
al moto di vettori deliranti.

Attoniti si resta
appesi al nulla.

 

Negli universi paralleli

***
Come al gatto di Erwin Schrödinger
ti riconosco la facoltà d’essere
presente e assente contemporaneamente
o viceversa
nella tua assenza più presente che mai.

Ci sei e non ci sei – ma pure
se non ci sei – ci sei

Fluttui nell’aria dove la tua forma
altera brevemente spazio e tempo
così rendi invisibile il visibile
e viceversa
vuoti l’uno nell’altro
e a sua volta nell’uno versi l’altro.

Nell’acqua dello specchio in superficie
trema il tuo volto con espressione incerta…

… sei il gatto della favola o chi sei???

Negli universi paralleli tutto è possibile –

 

 

M. Carmen Lama è nata in provincia di Messina ed è vissuta a Capo d’Orlando fino all’età di vent’anni.

Nel 1970 si è trasferita per lavoro a Milano, dove si è laureata in Filosofia, e dal ’77 vive in provincia di Lecco. 

Ha svolto attività di insegnamento e poi di Dirigente scolastica in Istituti comprensivi e al Liceo Artistico lecchese.

Ha tenuto corsi di formazione per docenti e genitori ed ha pubblicato articoli di carattere pedagogico e culturale su riviste professionali per docenti e dirigenti, con gli editori Maggioli, Fabbri, Edizioni Didattiche Gulliver.

Ha prevalenti interessi letterari e in ambito filosofico e psicologico.

Scrive recensioni, che pubblica su diversi siti web, relative a testi di vario genere e a libri di poesie.

Scrive anche poesie ed ama approfondire la conoscenza delle produzioni poetiche dei grandi del passato e  del mondo poetico attuale.

Con l’Editore Aletti ha pubblicato la silloge “Prigioniere del silenzio” e il Saggio “Verso la poesia alla ricerca di senso” (disponibili anche in e-book).

Suoi scritti sono pubblicati su diversi siti web, e sue poesie anche in alcune antologie poetiche.

 

Molte delle sue poesie si fondano su suggestioni elaborate a seguito di letture di vario genere e di saggi filosofici e psicologici, visione di film, conoscenza di fatti di cronaca.

Le poesie più personali si fondano verosimilmente su ricordi, esperienze ed emozioni profonde.