Più di quarant’anni di poesia. È il percorso di Cristina Annino, un viaggio destinato a continuare ma che intanto ha donato un esito di non poco conto: un linguaggio che scuote alle fondamenta le certezze presunte dell’atto poetico come tale. In fondo, scrive l’autrice nella raccolta L’udito cronico,[1] «niente esiste che mi si ponga / davanti piatto, senza / sbalzi di luce». Che poi non è altro che quell’«intima disgregazione» già affrontata nel libro d’esordio, datato 1969[… ]
Così esordisce Mary Barbara Tolusso nel suo saggio sulla poesia di Cristina Annino.
Nello specifico di questi testi, il gatto Koko è un f-attore scatenante: idee, considerazioni esistenziali, suggestioni che agganciano ad altri amori, innescate da uno sguardo non-sguardo, simile alla diplopia spirituale di ogni essere umano: dialogo tra il sé pensante e il sé mediatore di impulsi e sensazioni.
“Pioveva sempre, piovve / tanto da liquidare persino due / ombre. Così ancora la cerniera /del buio ci chiuse.”
Considerazioni sulla sorte di un messaggio che si è spento e perso ed ha lasciato il dubbio come sostitutivo, tuttavia portatore di speranza platonica.
“Certo, vede meglio / cadere la Storia, la grigia venuta / di Cristo. Non trova / la scala, ritorna sui suoi / passi: “scusate, ma il mio / groviglio d’ubiquità o le forme / tempissimamente. Anche / strizzando luce delle caverne, / come entrano in una valigia?”
Forse entrano nella mente, partendo dal punto in cui si comincia a esistere, per essere poi proiettati verso la dimensione ignota, inspiegabimente intuita.
“L’apparenza è muta / sempre, Achab disperde il mondo / in globalità; il buio almeno /lo rende ideabile”. Non risponde / ma scende. “Dobbiamo / remare senza! Dal niente ti fa / un’Atlantide; mica è / poco! Seguiamo il tuo fiuto e amen”
Un gatto che raccorda il suo esserci all’umano, ne convoglia il pensiero oltre la quotidianità che tende a eludere i cicli che scandiscono le miserie del corpo… e qui vediamo l’impennata della grande poesia: la verità umile e densa della mente magnifica di Cristina Annino.
“Lui curvo ancora è fossile / di ragione. Già! Gli chiedo perciò / meno umano “Hai presente / lo sterco?” “Sì” “Uguale al vento, / per tutti soffia contrario. Noi, / ci ha portato fino alle stelle”. Ed esco / che neppure mi vede, dal mulinello / di quella babele.
Cristina Bove
Breve fu la vita felice di Koko:
“NON VEDO PIÚ L’OROLOGIO, E QUESTO NON LO SOPPORTO”
Cattivo Tempo
Ombrellaio, ombrello, Koko
se piove ride coi suoi denti.
Bianco nei quattro polsi,
si spezzetta lo spirito fumando
come fa, da caserma. Io penso però
che non sia gaio mai, né gli basti
l’ubiquità che lo prende, mento
sopra i ginocchi. Credo invece
che il tempo gli si sieda ogni
giorno davanti e giochi
alle tre carte, che insomma sempre più
gli confonda le penne
Odore cardiaco di fuliggine o sfascio
Lo presi per le spalle: un cric; s’è
parlato per giorni di quel rumore.
Lo trascina anche oggi
nel tovagliolo; lo tasta. Non gli va,
questo suono di fine tra sé
e il siamese lavoro, rielaborando
ogni volta io qualcosa di torbido,
di facciale: lui
nano. Al centro, troppo stanco
com’è, del tavolo di proscenio.
***
Dopo una vita così:
Promessa, la Svolta, il Prestigio,
per magia dovrai riapparire
sul palco. Già il sipario
urla alla scena guadagno di più,
se non calo? E allora! Fuori
a calci nell’universo del Divino
Pollame; un giro appena,
e rientri! Sarebbe il lampo
sul naso coniglio, che nemmeno
vedi (due vite, please!) Primavera,
sarebbe Niente diventa
vero se non credi. Ma lui zitto; pioveva
addosso la meningite del cielo.
Smanio così, cambio note…
Smanio così, cambio note, penso
alla falla del mio matrimonio; lui
ora dov’è? La bolletta
di luce è un cannone. Koko in
tondo perdeva ogni olfatto
scuotendo cose come fossero
larve; gli stavano addosso
nel pelo avana. Ricordò gambe,
sedie, stoffe, confuse ormai
nella piena d’un cassetto.
Pioveva sempre, piovve
tanto da liquidare persino due
ombre. Così ancora la cerniera
del buio ci chiuse.
Trasloco nella Repubblica Cieca
Mi chiese a colpi d’ascia
con le vibrisse: niente
più musica, ecco, nemmeno
Siam. Che ora non era
il salvadanaio stracotto di note
al vento come Puccini; falso vero;
gli dovevo questo poco dovere. Parlava
con pupille dove gocce
remavano dentro. Io ancora
senza rispetto: “Capo Indiano, almeno!”
Macché.
***
Per chi rovescia
la tazza in terra, lo dico sul serio,
il buio gli lavora con le mani
la pasta degli occhi: è
oramai il respiro dell’acqua
e chi la contiene. Lo strazia
la voce storione del suo branco
di pesci.
***
Certo, vede meglio
cadere la Storia, la grigia venuta
di Cristo. Non trova
la scala, ritorna sui suoi
passi: “scusate, ma il mio
groviglio d’ubiquità o le forme
tempissimamente. Anche
strizzando luce delle caverne,
come entrano in una valigia?”
***
È l’intera Repubblica Cieca! Ecco,
cos’è. Col lato mancino di vita
strabico in quelle coste. Ma fa
capolino, vuole stare all’aperto,
dire il nome del nome, retrocede
fino al mittente, avanti indietro.
Mi deve
la misura ragionevole
dell’imperfetto, dottore, che ora
non c’è somiglianza più tra le cose,
un sipario mi cala sulle vene
ottiche. Ombra e bagliore, e scoppiate
le mine in faccia!
***
Lo chiamerò Achab. “Trova
le scale e andiamo! Ci aspetta
il camion, sotto, Joohh!” Quest’essere
con le braghe, magro, con quel
fuoco del viso immobile, piano
fronte; dico io “L’apparenza è muta
sempre, Achab disperde il mondo
in globalità; il buio almeno
lo rende ideabile”. Non risponde
ma scende. “Dobbiamo
remare senza! Dal niente ti fa
un’Atlantide; mica è
poco! Seguiamo il tuo fiuto e amen
Alla fine, questo è quanto
Se dite che l’ho reso un Poema, è
poco. Forse sì forse no, forse già
eterno. Ma non pensa più, semi
spento sui piedi. Mica gioco, io, mica
sono uno spot!
Eppure in verità credo che
tutti noi si ricada in terra
per finire il destino. E non sia uno
scherzo; ad Archimede negate
le regole del peso.
Così, dall’inizio
del mio tempo, in quel lunghissimo
tiro, salto, e per ogni
raggio di cemento che è; come
fosse sempre la volta del numero
primo, riconosco quel segno.
Fino, più d’una larva. Si gira la cella
molecolare in cui cammina. Io
mi fermo. “E poi
che succede, Spot ! Storia muta,
ma adesso ce la suoniamo.”
Lui curvo ancora è fossile
di ragione. Già! Gli chiedo perciò
meno umano “Hai presente
lo sterco?” “Sì” “Uguale al vento,
per tutti soffia contrario. Noi,
ci ha portato fino alle stelle”. Ed esco
che neppure mi vede, dal mulinello
di quella babele.
Diario della Fine
Ho amato sempre
i genitivi, quelli seri; il sassone,
per esempio, col chiasso inglese
delle parole, il suo tatto. Ora
non ho più accanto Koko in
guanto di braghe; s’è girato
sparendo ieri. Voilà. Le zanzare
con strazio ripiegano il corno,
lo mettono via. Sanno
già tutto. In fila indiana
sfilano dal muro, che almeno
con loro parlava. Come escono
i minatori dal suolo, e dopo spara
a vuoto un ignoto ablativo! Anche
in punta di lana, i capelli crescono.