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Lucetta Frisa

6 giugno 2018

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Lucetta Frisa

Lucetta Frisa

5 giugno 2015

Lei si volgeva in alto a riguardare stelle
luna sole e nuvole per gli aruspici e libri alti
sugli scaffali
senza sapere quanto gelo in cielo ci fosse
e nelle ossa
e terra nelle parole
e controversi nei versi scritti sul retro del foglio
e terra tra le righe
cicli ricorrenti cataclismi semantici
fonemi e terremoti e neppure
sapeva che tutto- proprio tutto-
si concentrasse in una carezza
una vocale di terra tenuta a vibrare
in un solo significato che si alleggeriva
a ogni cambio d’umore e d’inverno
nei loro inconsapevoli esercizi.

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Lucetta Frisa

1 ottobre 2014

 

INEDITI

 

Il respiro di Genova
Per i quadri di Carlo Merello

Saltare su un piede solo lanciando
un sassolino dentro il pampano:
un preciso rettangolo suddiviso
da caselle numerate. Non si doveva sbagliare
mai uscire da quella geometria.
Si tratteneva il fiato.

Cielo magro conteso tra i tetti alti
e il sole a picco,
odori di mezzogiorno: pesce
dell’Angiolina che ancora strillava senza più voce
né pesce da vendere e odore
del suo pesce fritto e minestrone al pesto
dalle case legate dai fili affettuosi
della biancheria e odore del piscio
di tutti i gatti del quartiere
tra cui il Migno, detto il re: piscio diverso
dagli altri,il suo, come il suo miagolìo.

Ma bastava correre in fondo al vicolo
per respirare
il mare.
Fiato lungo lunghissimo.
Basta un po’di vento che ingoia
tutti i respiri della terra e degli uomini
e ne fa uno solo.

Cosa significava quel disegno per terra
col gesso bianco? Una porta? che per chi vince
finendo il gioco senza cadere – si spalancherà
nell’ultima casella? e da lì il vincitore
entrerà fiero sulla scena del sottosuolo
tra gli applausi degli dèi inferi?

Se il mare avanzasse
fino alla casa di gesso
naufragherebbe il regolamento
si porterebbe via i numeri
come barche sfondate.

Il suo odore apre i polmoni
più dell’incenso nelle chiese
che apre a chi è in attesa
la Gran Porta celeste.

Il respiro di Genova non è da cartolina
per i turisti delle cose morte.
È ancora qui nell’aria, resiste
nei polmoni sempre più inariditi
dall’impazienza del tempo che marcendo
cambia l’aria, tutta l’aria, insieme a noi.

                               

                                      

 

 

Gita al faro

a M.E.

 

L’idea è stata tua. Una passeggiata al fresco
al sorgere del sole. Gita al faro. Non a quel Govery Island
della Woolf, ma al faro di Portofino. Non portarti dietro nulla
nessun libro, nessun sacco, pesa, fa male
alla colonna vertebrale.

Andremo leggeri. Finalmente
l’alba negli occhi e in gola. L’alba
che apre le narici l’alba
ariosa dei miti dopo le notti delle battaglie
e di attese inutili, l’alba
che riflette le sue dolci schegge in giro
su tutto il mare, le colline e noi.

Cammineremo verso l’incantesimo
le sirene
avranno già cantato
in altomare
lasciato il mare
increspato di musica.
Ci insegue un madrigale
di Monteverdi.

Allora siamo morti?

Urti armoniosi
battono un ritmo alieno
sulla sabbia e sul viso.
Si conserverà
la commozione della notte
che non vuole più lacrime e ci estromette
fuori, nella luce.

Saremo corpi in viaggio
da rinominare ad ogni sosta.
Sarà bello cambiare nome
essere
altro.
Neppure
creature umane
solo cose gioiose.

E Itaca?
un’isola di pietre
dissolta da ogni passo.

Al faro
ho visto un uomo solo e poi
anche una donna triste e dopo un po’
una coppia con due zaini enormi,
qualche lucertola in fuga.
E dappertutto il mare: quei due
lo guardavano muti baciandosi.
E ancora dopo un po’
la coppia senza zaini
più stanchi e più vecchi.
Il mare, sempre il mare,
lui, li guarderà ancora.

Adesso siamo vecchi perché sappiamo
riconoscere il presente sappiamo
di essere felici
ora.
La prima volta che andammo
non si era visto nulla:
bellezza
non percepita
che sfiora appena il corpo
come carezza di madre.

Noi non si sapeva che si stava andando.

Poi l’alba sempre si congeda
Inghiottita dal sole.

Ma c’era un faro?
Un sentiero?
Noi?

 

 

Lucetta Frisa

30 aprile 2012

Inconsapevoli esercizi

Da questo buco di fonemi e sillabe
incastrate tra palato e gola
strozzate vocali
stretto afono foglio
vorrebbe dire della vastità.
Potesse soffiarvi lungo fiato
ascendere discendere ruotare
ondularsi emozione
allontanarsi pulviscolo.
La vastità si è innamorata di un nervo
le scocca un pensiero sotto il piede
che va e ritorna
senza ricordare.
Si regala il congedo e lo stupore
toccandosi un osso:
lui c’è.
Dicono
che nel cervello ci sono passaggi
da vuoto a vuoto
dove ci si può parlare.

**

Ancora non sa cosa sia la poesia
come non sa nulla degli astri e degli altri
dei buchi neri dei raggi gamma e del DNA
che non sono freddo fame tenerezza.
Lei vuole unirli tutti in un’unica cosa
-senza badare ai particolari-
in un unico bagliore e vorrebbe
tornare a scuola ma non può
essendo il cervello vuoto stanco
trattiene qualche sensazione nessuna
tabellina schegge
di ragionamenti matematici del tipo:
alla vita segue la morte
alle domande il silenzio.

**

Questo liquefarsi
di lacrime nel suo bicchiere
-camminano le rime le terzine
si sciolgono nell’acqua senza frizzo
e via nell’aria non ancora scritta-
le fa sapere ciò che già sapeva
e il poco vino succhiato come linfa
che trema nel bicchiere sotto e sopra-
le fa sentire il lutto e l’esultanza
di una dea insensibile.
Altri possono lottare:lei no.

**

L’amore per la bellezza-
paesaggi quadri suoni profumi
e l’esercizio del pensare
e delle parole per trattenere
qualcosa di ciò che divampa e va a pezzi-
la farà rinascere sulla terra?
Chiede alla pagina e all’aria
dissensi e consensi-
per restare bambina.
E i padri continuano a non esserci o a punire
e lei a perdere del futuro il concetto.

**

Si congeda da tutti i pensieri e non li ringrazia
Le maglie vecchie e le nevi d’antan
mentre avverte colpi di gelo sui capelli -è l’avvenire?-
o è un altro inverno che fa pallido il palmo della mano
come una perpetua luna con volto di teschio
-lei vede metafore dappertutto-
Ma cosa cerca lei la lieta assenza
o il soffrire di chi c’è senza anestesia?

**

Ciò che qui non appare è anche altrove materia
materia la luce che come notte scompare
e il volo radente del nero lunare
prende nella sua scia e si resta muti
sapendo che sottoterra siamo nati
e in mezzo alle parole non c’è fiore.

**
Di questa perdita che cosa farne?
restare qui coi sensi tutti accesi
e allora il dovere è ricordare
oppure darsi perduta
sparita
senza odore
e quindi assolutamente smemorata
ebbra
e all’ebbrezza del suo nulla
consegnare qualche poesia distratta.
**

Ora pensa che la profondità
è solo il tempo del volo
uno scendere al buio
nel buco della terra.
Questa chiarezza vuota
si schianta contro qualcosa
ma senza più dolore.

**

Ha sepolto nelle nuvole l’idea di sé-
su un piano mediano tra l’atmosfera
una linea indugia ancora come una scrittura:
si consola se nel verso scorre un fiato
svaporato in fumo.

Deboli tracce di ossigeno sono ciò che resta di catastrofi.

**

Lei si volgeva in alto a riguardare stelle
luna sole e nuvole per gli aruspici e libri alti
sugli scaffali
senza sapere quanto gelo in cielo ci fosse
e nelle ossa
e terra nelle parole
e controversi nei versi scritti sul retro del foglio
e terra tra le righe
cicli ricorrenti cataclismi semantici
fonemi e terremoti e neppure
sapeva che tutto- proprio tutto-
si concentrasse in una carezza
una vocale di terra tenuta a vibrare
in un solo significato che si alleggeriva
a ogni cambio d’umore e d’inverno
nei loro inconsapevoli esercizi.

( da L’altra, Manni, 2001)

Lucetta Frisa, è poeta, scrittrice, traduttrice e lettrice a voce alta. Tra i suoi libri di poesia: La follia dei morti (nota di C.A.Sitta, Campanotto 1993), Notte alta (postfazione di S. Verdino, Book 1997), L’altra (nota introduttiva di A.Lolini, Manni 2001), Se fossimo immortali (postfazione di M. Ferrari, Joker 2006), Ritorno alla spiaggia (nota critica di G.Fantato, La Vita Felice 2009) e L’emozione dell’aria (saggio introduttivo di G.M.Lucini, CFR edizioni, 2012).

Ha tradotto vari autori francesi, tra cui Henri Michaux (Sulla via dei segni, Graphos, 1995), Bernard Noël (Artaud e Paule, 2005) e L’Ombra del doppio, 2007 ) e Alain Borne (Poeta al suo tavolo, 2011), tutti nella collana “I libri dell’Arca“, che cura insieme a Marco Ercolani per Joker edizioni.
Suoi testi sia in riviste (Poesia, L’Immaginazione, Pagine, Nuova Prosa, La Mosca di Milano, La Clessidra, Italian Poetry Review, ecc.) sia in antologie come Il pensiero dominante (a cura di F.Loi e D. Rondoni, 2001), Genova in versi (a cura di S. Verdino, Philobiblon, 2003), Trent’anni di Novecento (a cura di A. Bertoni, Book ,2005), Altramarea (a cura di A. Tonelli, Campanotto, 2007), Poems from Liguria (a cura di R.Bertoni, Manni, 2009,con traduzione inglese).
Collabora con saggi, racconti e poesie a diversi siti web:
www.rebstein.wordpress.com

www.viadellebelledonne.wordpress.com
www.ivanomugnainidedalus.wordpress.com
www.vicoacitillo.net/
http://terresdefemmes.blogs.com
http://www.arcipelagoitaca.it/
http://www.filidaquilone.it/
www.filid’aquilone.wordpress.com
http://www.poesia2punto0.com/
Pubblica racconti per ragazzi sul quotidiano Avvenire e note critiche sulla rivista di letteratura giovanile LG.Argomenti, In prosa ha scritto: Sulle tracce dei cardellini, Joker, 2009, e La torre della luna nera e altri racconti, Puntoacapo, 2012.
Sempre in prosa,insieme a M.Ercolani: L’atelier e altri racconti (Pirella, 1987), l’epistolario fantastico Nodi del cuore (Greco & Greco, 2000), Anime strane (ibidem, 2006) e Sento le voci (La Vita Felice, 2009). Questi due ultimi sono stati tradotti in francese nel 2011 per le edizioni États civils di Marsiglia.
Finalista ai premi “ Montale” e, più recentemente, al “Montano” e al “Merini”, ha vinto il Lerici-Pea (2005) per l’Inedito e l’Astrolabio 2011 della critica per Ritorno alla spiaggia e la sua opera complessiva.

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Di Lucetta Frisa, della sua produzione variegata e proficua, parla ampiamente la bibliografia; inoltre, e per fortuna, sulla sua opera vi sono accurate e autorevoli note critiche, e a queste, reperibili anche in rete (ai succitati indirizzi), rimando.
Da parte mia, intraprendo la lettura degli estratti qui inseriti senza alcuna velleità esaustiva, tuttalpiù, all’interno e in forza del loro lessico e sintassi lineari ed efficaci, tento la restituzione di un ascolto, prendendo in custodia il fatto che questi testi siano “limitati” dentro un tutto molto più ampio, a partire dal libro di riferimento. È un limite che non (mi) limita, semplicemente delimita ciò che va facendosi lettura, che, guarda caso, fa propri i termini di: centro, bordo, distanza, a partire dal titolo della raccolta e, poi a seguire, dalla scrittura vista come “linea” del piano mediano fra le nuvole, dove si cela il sé, e l’atmosfera.
Ma torniamo a “L’altra” del titolo che, infatti, non si accompagna ad alcun nome, non viene connotata; ciò esalta la singolarità e l’universalità (una non esclude, appunto, l’altra…) a contenere sia la provenienza da “alter” (fra due, come la presenza dell’aggettivo determinativo farebbe più direttamente pensare) che quella da “alius” (diverso), per la rappresentazione di un chi-qualcosa ancora distante, eppure intimamente legato, un imprescindibile altro (da sé, dal centro), ma secondo sé come un bordo.

Scrive Lucetta (in modo splendido): “La vastità si è innamorata di un nervo / le scocca un pensiero sotto il piede”, conducendo il tutto (visibile e invisibile), compresi quindi l’estensione del profondo e ciò che è altro, alle possibilità di percussione e di riconoscimento attraverso i nervi-sensi, e questo in grazia di una generica forza erotica che è anche di una freccia di pensiero. Ma un atto, anzi un raptus, di tale fatta, per quanto sensibile esso possa apparire, per quanto, a volte, addirittura rappresentabile mentalmente, non può che contenere già il proprio limite, perché altro non sarà mai permeabile al nervo e al senso; al più sarà conoscibile per frammento, istantanea o illuminazione o, come porta a supporre l’immagine potente del pensiero scoccato sotto il piede, al più può rimandare alla visione di una – o L’altra? – che, avendo quel “serpente” sotto il piede, possa esercitare la decisione di cavalcarlo o, come una madonna – per fede, schiacciarlo.
In tale contesto (limitante ma anche libero), il fatto che: “un osso: / lui c’è” tangibile e sotto il sole, ha una sua bella valenza di rassicurazione, tanto più che il “riguardare le stelle”, anche se può vantare il richiamo a Dante…, e poi “luna sole e nuvole per gli aruspici e libri alti / sugli scaffali”, non porta a stimare la quantità di “gelo in cielo” né, tornando più a terra, sapere oltre del particulare (sempre che lo si voglia ben sapere, perché l’aspirazione è piuttosto a unire: “unirli tutti in un’unica cosa / -senza badare ai particolari-”).

E, infine, all’interno del sapere di non sapere (“ancora non sa cosa sia la poesia”, “[…] e neppure / sapeva che tutto- proprio tutto- / si concentrasse in una carezza” -bellissima questa, seppur tardiva, ma raggiunta, consapevolezza…), l’altra si pone più di una domanda, di volta in volta cosmica e terrena (di modo che un po’ vi si avverte Leopardi, soprattutto quando si fa riflessa sul soffrire…), tentando qualche risposta:
“Ora pensa che la profondità / è solo il tempo del volo”, “il dovere è ricordare / oppure darsi perduta”, “sapendo che sottoterra siamo nati / e in mezzo alle parole non c’è fiore.”.

In mezzo, appunto, c’è il dolore o, se non c’è, è sostituito da una “chiarezza vuota” che “si schianta contro qualcosa”, perché finanche la vastità tentata dalla parola, dal suo buco nero “di fonemi e sillabe / incastrate” e vocali strozzate, quando anche fosse scrittura “delle parole per trattenere / qualcosa di ciò che divampa e va a pezzi-” e, in questo, tentativo di risarcimento o riconciliazione (per es. con il padre – che tuttavia continua “a non esserci o a punire”- e, per induzione, con il proprio tempo passato in modo da riconoscersi futuro), dicevo, quando anche fosse scrittura, quando anche totalmente necessaria, è su un foglio stretto e afono. Fra gli altri, anche quest’ultimo, anche se dal pozzo, anche se nobile, rozzo o pieno zeppo, non ci si accorge che sia di un esercizio.

Margherita Ealla