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Recensione di Giuseppe Martella a “La simmetria del vuoto”

1 giugno 2020

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Il tratteggio: C. Bove, La simmetria del vuoto, Arcipelago Itaca, 2018.

Nella sua perspicua e illuminante prefazione, Anna Maria Curci propone la parola tedesca schweben, “fluttuare, stare in bilico, esser sospesi”, come chiave di lettura di questo testo e della intera poesia di Cristina Bove. Seguo questo suggerimento e aggiungo altri due termini, sempre di ambito tedesco: Ausdruck: “espressione, frase, detto” ma anche “sguardo e voce”. Da cui Ausdruckweise: “fraseggio”. E poi Abgrund: “abisso, pendio, precipizio, salto nel blu.” Etimologicamente “assenza di fondamento”. Filosoficamente, quest’ultimo termine indica infatti il fondamento nullo del nostro essere al mondo, tra realtà biologica e rappresentazione psicosociale: la terribile simmetria del vuoto. Tra fluttuazione e spro-fondamento dell’esserci si svolge infatti il fraseggio poetico di Cristina Bove.

Una triangolazione fra le costellazioni semantiche di Ausdruck, Schweben e Abgrund (espressione, bilico e abisso) può svelarci il luogo proprio e offrici l’orientamento di fondo della versificazione di Cristina Bove, cioè anche una cartografia del suo dire (Dichtung). C’è infatti nel termine Ausdruck (espressione, manifestazione, frase) un nesso fra sguardo e voce, assente nei suoi corrispettivi italiani, che implica quel cooperare nell’espressione poetica dell’occhio e della mano, che Walter Benjamin già indicava come la virtù precipua dell’antico cantastorie, il suo saper trarre da una tradizione condivisa le formule verbali e le alchimie del verso e della performance, il suo saper catturare e tenere avvinti gli ascoltatori nel giro della frase, nella reciprocità degli sguardi, nella cerchia dell’ascolto, che è la base di ogni circolo ermeneutico. Da qui parte la mia ipotesi: il dettato (Dichtung) di Cristina Bove sta sempre in bilico sull’abisso del proprio esserci. Una ipotesi che coniuga quell’esitazione fra suono e senso che Valery indica come carattere saliente della poesia, con la sua funzione primaria di testimonianza e terapia della finitudine e precarietà dell’essere al mondo insieme ad altri.

Una poesia della soglia, dunque, e del filo: liminale e sorvegliata. Filata sulla sottile ragnatela del carro della regina Maab (in Sogno di una notte di mezza estate) ma anche tessuta con la dedizione e la sapienza con cui Penelope tesse e disfa quella tela che è il sostrato comune del canto di tutti gli aedi dell’Odissea, Ulisse compreso. Una struttura flessibile, leggera e ferrea, come quella di un ponte d’acciaio teso sopra l’abisso. Quando indicherò nella maestria del fraseggio (Ausdruckweise) una sua virtù caratteristica, intenderò anzitutto questo convenire dello sguardo e della voce, questo accennare, nell’intervallo minimo fra pause e battute del verso, a un altrove, a quel fondo da cui emergono tutte le sue nitide figure, nel saper cogliere il tempo giusto (kairòs) perché la grazia (charis) della parola incarnata risulti efficace. Il dettato di Cristina Bove è danza graziosa sull’abisso che si intravede nella luminosa trama (nell’ultrasenso e nell’oltreluce) delle sue figure, nel chiaroscuro impeccabile, dei suoi versi.

Questa espressione dell’esserci come esser tra, frammezzo, sospeso e intrappolato nello stesso atto del dire, di tracciare percorsi e indicare luoghi, e costruire una dimora per abitarla, è forse il senso eminente di questa simmetria del vuoto. I suoi versi intrecciano una danza fra dettaglio e disegno, fra macro e microcosmo, dove risuona, nella squisita e tenace volontà di forma dell’io poetico, l’eco sfinita della risata tragica dell’es stretto “nel labirinto delle sue mutazioni”. (13) In una serie di attributi felicemente variati di un soggetto-fondamento mancante, volatile, spro-fondante appunto in un interminabile salto nel blu – quel colore che pare essere il preferito della nostra autrice, a giudicare dalle composizioni di videoarte che spesso ne accompagnano i versi sul suo blog e su Facebook. E’ un verde-blu iridescente che, attraversando la gamma dei colori, pare sfumare nel diafano da cui ci invia riflessi di figure, sovrimpressioni, fantasmagorie. Ecco: la trasparenza è un’altra caratteristica dei versi di Cristina Bove, nel senso intuitivo del termine (poiché si tratta di figure luminose, leggere, sfumate) ma anche in quello del confine sottile che passa tra riflessione e rifrazione di un raggio di luce. Del punto cruciale in cui un medium qualsiasi, in parte assorbe e in parte riflette il messaggio luminoso. Così come la memoria riflette l’evento rifrangendolo nelle molteplici tangenti delle sue figurazioni inconsce. Quella di Cristina Bove è anche una poesia della trasparenza e della soglia, una esplorazione dei limiti del diafano nel linguaggio: una videoarte del dire.

La sapiente variazione dei suoi versi equivale all’intero gradiente di rifrazione dei corpi al messaggio della luce. In questo senso, anche le figure del suo discorso assumono la valenza di una fantasmagoria in cui trascendenza e immanenza si incontrano come il riflesso e la frattura di una immagine in un punto sulla superficie della rappresentazione. Pertanto le figure in sospensione nei versi di Cristina Bove si possono considerare anche come degli ologrammi, delle produzioni sul foglio di carta di immagini tridimensionali, attraverso il reticolo di diffrazione dei suoi versi. Ologrammi metafisici che coniugano riflessione e rifrazione, trascendenza e immanenza, manifestazione ed essenza del nostro essere al mondo. In una sapiente orchestrazione della “toccata e fuga di se stessi” (44), tra valenze aforistiche e chiusure epigrammatiche, tra sottolineature e motteggi, nonsense e paradossi.

Il lievitare misurato della parola rigenerata (logos egeneto), il fraseggio accurato, l’equilibrio di una versificazione interstiziale in cui la espressione sapiente riunisce la mascherata della vita e quella dell’arte, facendone un bilancio lucido e mirabile, spassionato e implacabile, realistico e visionario, dove nell’umana confessione si può leggere talora in palinsesto una dichiarazione di poetica. (54) Il fraseggio di Cristina Bove si svolge in una fluttuazione caratteristica tra l’espressione linguistica come manifestazione dell’esserci e il suo fondamento nullo, cioè anche tra figura e fondo, linguaggio e silenzio. In questo senso, la sua è una poetica del tratteggio e della sottrazione, dell’adombramento e della sospensione sistematica di ogni (pre)giudizio di esistenza. Una fenomenologia e una ermeneutica della finitezza e dell’impermanenza, a tutti gli effetti, che spesso si esprime per calembours e paradossi, intesi come controlli severi ed esperimenti cruciali sui limiti del nostro linguaggio e della visione del mondo che su di esso si basa. L’insieme di questi giochi linguistici converge graficamente poi verso il punto, da una parte e il trattino basso, dall’altra. La punteggiatura, nella poesia di Cristina Bove in generale, risulta pressoché assente ma tale assenza indica il suo esser tra le righe, il suo essere stata completamente assorbita (sospesa, messa in mora, epochizzata) nel fraseggio e nella versificazione. O se si preferisce nel fondo del suo dettato poetico. Tranne che nell’unico caso, nella presente raccolta, in cui compaiono dei puntini di sospensione (61) a marcare l’irrazionale poetico. O in quello, assolutamente singolare, della poesia dal titolo esplicito, “.mettere un punto” (86), dove il punto appare in posizione anomala, a inizio frase, e messo in correlazione coi trattini bassi  che compaiono nell’ultimo verso del componimento. L’uso del trattino basso è invece estremamente frequente, nell’intera poesia di Cristina Bove, fungendo quasi da supplemento alla punteggiatura rarefatta e indicandone infine lo sprofondamento nell’abisso della dizione. I trattini bassi, vera e propria ossessione grafica della nostra autrice, croce e delizia dei suoi editori, non sono certo un vezzo ma costituiscono il tratto distintivo della sua versificazione, il suo svolgersi al limite dello spro-fondamento del discorso, del riassorbimento delle figure della espressione (Ausdruck) sul fondo (Abgrund) della nuda vita. L’uso del trattino basso, il tratteggio ritmico-semantico che funge da basso continuo della sua versificazione, costituisce inoltre la condensazione grafica di quel fraseggio (Ausdruckweise) e di quella lievitazione del dire (Schweben) che ho indicato all’inizio e che caratterizzano in modo inconfondibile la sua poesia. Mentre il punto anomalo è qui manifestazione grafica della coincidenza delle varie prospettive, o fasci di luce coerente riflessi-rifratti dal s/oggetto della rappresentazione, a costituire quella configurazione ologrammatica del discorso che ne rappresenta un’altra caratteristica saliente. Il punto, infine, qui segna il limite di quella funzione di dis/orientamento al mondo che è propria della poesia in generale, ma che qui assume tutti i connotati di una ascesi della parola e di una sobria composizione del luogo del discorso attraverso un costante esercizio di eliminazione del superfluo, in una pratica della sottrazione che è da attendersi in una poeta che è anche scultrice e il cui alter ego, in una recente raccolta, appare come “Una donna di marmo nell’aiuola”.

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Per corroborare la linea ermeneutica adottata, sarà ora opportuno fornire alcuni esempi di ordine tematico-strutturale. A partire proprio dalla messa a punto della propria poetica che  Cristina Bove compie nella poesia prima menzionata (“.metter un punto”) e che val la pena citare per intero, per dare una idea dello spessore e della consapevolezza del suo dire: “Per solidificare la parola estinta/_il suo vissuto termina sul foglio_/magari farle un monumento/solo di interpunzioni/dedicarlo ai poeti che non scrivono/           Mi ci metto/perché non ho mai scritto un bel silenzio/perché non ho saputo eliminare/una vita di sillabe/           mi arrendo nel mimare un’esistenza/_tra due trattini stesi_”. (86) Questa lirica è nel contempo un compendio della sua poetica e una convalida di quanto abbiamo osservato: tutta giocata com’è sulla linea d’ombra, sulla lievitazione tra vita e forma, mondo e linguaggio, cose e parole: su quello schweben che abbiamo menzionato all’inizio e che implica anche una sorta di sospensione del giudizio di esistenza  (o epoché trascendentale) del mondo ricevuto, che qui viene messa a tema e in forma, tutta racchiusa fra il punto anomalo dell’inizio e i due trattini stesi alla fine, che insieme sottolineano e sdoppiano, sottendono e mettono in mora, il valore dell’enunciato, cioè della loro stessa verbalizzazione. Questo per dire tutta la sottigliezza, complessità, condensazione, humour, ironia e lucidità di cui è capace Cristina Bove. Che qui in partenza si esercitano sullo statuto stesso della poesia, “la parola estinta” in quanto “il suo vissuto termina sul foglio” e dunque anche il luogo in cui la vita trapassa e si fissa nella parola. E su quello dei poeti, che vengono chiamati in causa con elegante sprezzatura, come coloro che nutrono “una vita di sillabe” ma che non riescono mai a giungere al cuore del reale galleggiando sulla superficie del discorso.  Una sprezzatura che però presto si volge in autoironia poiché lei stessa afferma di non aver mai  “scritto un bel silenzio”.

In questi versi, metricamente calibrati e variati, vien fuori la perfetta congruenza tra la fluttuazione metafisica e il fraseggio poetico, come tratto fondante e distintivo della versificazione di Cristina Bove. E si tratta di una declinazione singolare e memorabile di quello Unter-Schied (differenza-relazione o interferenza fra linguaggio e mondo) che per Heidegger costituisce il sostrato della poesia in quanto tale e che qui nel testo di Cristina Bove si traduce graficamente nell’uso insistito del trattino basso. Si tratta dunque di una messa a punto onto-logica del proprio dire che si esprime poi in un metro e in una sintassi meravigliosamente esatti e variati, in un minidramma della ipostasi della parola scritta che, fra peripezie e riconoscimenti, squisitamente infine si arrende al silenzio che la attende. Per cui questa ironia che non fa sconti, questa umanissima certificazione dei propri limiti, umani e poetici, finisce per tramutarsi infine, in virtù del suo proprio stesso disincanto, in una muta domanda che esprime tutta la pietà del pensiero. E infatti, nel componimento seguente, il tratteggio poetico rivela la trama esistenziale da cui è sotteso: “le questioni mai risolte/tra la vita e la morte” (87). Quella sospensione dei mortali che sanno di “esistere per poco” e null’altro sapendo sospettano di essere solo “sogni/di un dio che ad ogni suo risveglio/ha già dimenticati.” (ibid.)

Ma la fluttuazione ontologica è endemica nella poesia di Cristina Bove, e i suoi tratti ritornano in una molteplicità di profili e intagli come accade, con evidente allusione alle opere di Lucio Fontana, nella poesia “Fontaniana” appunto, dove il taglio della tela di un quadro appare come un “varco tra pensiero e corpo” (83) e pertanto assume la valenza metafisica del frammezzo, “la zona franca aperta sulla tela” fra essenza e apparenza, in quel continuo dialogo fra essere e coscienza che si svolge nei suoi versi, senza che le due parti possano mai veramente scindersi né coincidere, (“_perché il male ci dispensa dall’amalgama_”), (ibid.) come monadi che danzano alla cieca il ballo in maschera dell’esistenza, in bilico sul filo del rasoio, in attesa di una finale messa a punto di cui ignorano il tempo e il luogo. Questa arlecchinata metafisica ha peraltro già avuto un’esposizione magistrale nella splendida “Maestri (s)concertatori” dove “in un emiciclo di ripercussioni”, (44) l’intera sinfonia dell’esserci appare intesa a “lustrare gli occhi spersi di chi sa/che tutto muore/come le note già suonate/nella toccata e fuga di se stessi.”  Su questa stessa pratica della espressione  fenomenologicamente sospesa sul fondamento nullo dei suoi trattini bassi, del fraseggio come correlativo verbale del frammezzo esistenziale tra dettaglio e disegno, nomi e cose, essere e coscienza, si veda per esempio anche l’impeccabile umorismo di “Inquilini e scalatori” dove ci si può esprimere solo “Per interposta ragnatela”, (53) perché “non si trova il modo/di dare un altro nome a ciò che accade”, e ci si trova “intrappolati ai muri e ai versi”, presi in tenzoni futili, quasi dimentichi che “tanto sarà per poco” e che ci tocca “nel frattempo/vivere di miracoli a ritroso/esserci quanto basta”. E dove infine la charis (grazia, dedizione e cura) di ogni dire risulta funzionale a riempire il frattempo che ci divide dall’attimo fatale.

L’equivalenza tra frammezzo esistenziale e fraseggio verbale, viene sviluppata ancora nella lirica che segue, “Considerando il dentro e il fuori”, dove la sinfonia dell’esistenza trova ulteriori accordi nel tenore metapoetico del testo e la commedia umana nuovi scenari, (tra dentro e fuori, tra essere e coscienza), un intero copione di metafore gastronomiche che riconducono l’ispirazione poetica alla sua base organica, mentre la poesia appare ancora una volta come farmaco (rimedio-veleno) contro il male di vivere: “sta quasi per accendersi la festa/si pronuncia l’antitodopoesia da bocca a bocca” per render il “mondo commestibile” e chiudere gli occhi sui “_transiti scatologici_”/di questa mascherata cromosomica/che ci consegna ad un perenne oblio.” Mentre “l’aria che si annida negli alveoli, ad ogni inspirazione/incendia le apparenze e ci consuma/           malgrado innumerevoli varianti, siamo carboni ardenti”. (54) La ironica e spassionata demistificazione dell’arte sfocia infine, nella lirica seguente, in quella della religione, dove “il dio dei fallimenti programmati/in palinsesti onirici” (55) per non farci accorgere “che non esiste porto/né un orizzonte per colare a picco”, viene rappresentato in tutta la sua comica impotenza mentre “è lì che aspetta il sorgere del mondo”.

Su questi incroci prospettici fra realtà e rappresentazione, si producono dunque quelli che ho chiamato gli ologrammi poetici di Cristina Bove, nel senso degli incroci di prospettive o di raggi laser sull’oggetto che appare così traslucido e multidimensionale. Ma anche nel senso di una inclusiva grammatica della creazione che sa mettere insieme dettaglio e disegno, in una fantasmagoria dell’esistenza che è nel contempo lucidissima e visionaria. Questo “Paradigma ologrammatico” (significativo anche in vista delle sue applicazioni all’arte digitale di Cristina) trova d’altronde una esatta definizione nella lirica eponima, dove lo sdoppiamento e la fluttuazione ricorrente fra essere e coscienza, dettaglio e disegno, micro e macrocosmo, trovano una messa a tema e una definizione esplicita: “è che assistiamo/_contemporaneamente_/ad ogni tempo della nostra vita/il vivere e il morire a ogni momento/essere il sognatore ed il suo sogno”  perché “di fronte ad uno schermo/siede il frammento e tutto l’universo” (50): un disegno frattale impeccabile che va ad arricchire l’ologramma poetico-esistenziale, in cui lo sdoppiamento di essere coscienza, reso in una costante variazione aspettuale e prospettica, distillato nell’alambicco di un linguaggio senza fronzoli, genera quella geometrica veggenza che caratterizza la poesia di Cristina Bove: “immagine riflessa _pupille come fori_/negli occhi innumerevoli e diversi/attraversati dalla stessa luce/un solo aspetto/eppure il tutto riversato in esso/nell’illusoria percezione che/ci si veda soltanto un po’ per volta”. (ibid.) E qui si nota chiaramente come l’oscillazione caratteristica del dettato di Cristina Bove, non riguarda soltanto i diversi livelli di realtà ma anche l’ordine temporale dell’accadere, muovendosi tra due tagli verticali (Kairoi), l’attesa dell’evento ineludibile della morte e il ricordo non già della nascita, ma di un evento traumatico, di un tentato suicidio, in una notte “del trentuno agosto/che lei precipitò dalla ringhiera/e poi si addormentò sul marciapiede” (83). Evento che assume però qui i connotati gnostici della metempsicosi, di una caduta dell’anima nella prigione del corpo, segnando l’inizio di quel dialogo fra sé e sé, di quello sdoppiamento, prospettico ed esistenziale, e di quella veggenza  che caratterizzano la poesia di Cristina Bove: “io me ne andai/lasciandola sul posto_ venni al mondo/pagandomi l’accesso dal balcone.”, “Però le ho sempre raccontato tutto/e lei non ha mai smesso di volare/_non si ricorda d’essere atterrata_/:sogna di me piombata sull’asfalto/sagoma disegnata con il gesso/e nel suo sogno lei si crede viva/ed io nel mio fingo d’essere morta”. (ibid.) Questo dialogo fra self and soul, che mi ricorda una splendida poesia di W.B. Yeats, costituisce l’arco teso su tutta la poesia di Cristina Bove, l’arcobaleno iridescente che contiene tutte le sfumature della sua veggenza e i magnifici doni che essa sa offrirci, e che a mio parere fanno di lei uno dei maggiori poeti viventi, ancora in attesa di un pieno e doveroso riconoscimento.

Giuseppe Martella

http://www2.lingue.unibo.it/romanticismoold/membri/Martella/Martella_Giuseppe.htm#top

 

 

Donna

8 marzo 2019

(stralci di testi in mescolanza sequenziale)

rose e mimose - by criBo

Ottomarzo di pensieri sciolti
giorno che affonda le radici
nel ventre delle donne
che sia pensiero agli uomini
conservarne le tracce delle forme
le vesti che li coprono e riscaldano
nate dai loro corpi
uomini veri non le lasceranno
al comparire delle prime rughe

e rifaranno i passi della storia
oltre cancelli ed argini
riscatteranno il partorire il mondo
d’ogni donna
ai sassi alle golene ai fiumi al mare

progetto dell’eterno umanizzarsi
nella caducità d’ogni sostanza
nel seno dove si progetta umano
apparenza di polvere
il divino

…di mare
una chiglia di storia in sguardi d’ombra
il respiro dell’onda
che non avrebbe mai toccato riva
fingeva sangue caldo
ma gambe di polena in odore d’ulivo
tagliava scie d’azzurro

La storia ha braccia amiche, qualche volta
…quando del buio calato sulle spalle
sfocate ormai le viole calpestate
il buio dolore delle pietre
restano nella mente
soltanto lievi impronte del bambù.
Schiarisce nella sua mitologia
leggenda da potersi raccontare
la donna ch’è vissuta oltre se stessa

Di soste inusitate e conseguenze
nell’acquitrinomondo
rospi e affini
aspettavano il bacio della donna
per la trasformazione prenceazzurra
ma saltellando da una foglia all’altra
diventavano vecchi nell’attesa

la donna anfibia aveva altro da fare
che trasformare principi in ranocchi
o viceversa
lei respirava fiori nel pantano
si teneva in disparte

il Dio delle promesse e delle mele
aveva smesso di creare gli alberi
si concedeva favole sabbatiche
mentre tentati e tentatori
facevano la stessa brutta fine
non per menefreghismo, ma
perché proprio così doveva andare
sennò i fratelli Grimm
invece di narrare di cocchieri
di lupi, di uccellini e fratellini
avrebbero cantato il miserere
servito messa o coltivato rape

visto che andò così
non resta che sperare
l’ultima dea gestisce sogni a ore
è poliglotta, ha catene d’alberghi in ogni dove
e vive in un motel

Presenze simultanee
Di lei resta uno spettro che s’aggira
in abiti di stretta clausura
finì che c’era l’ultima occasione
per indossare un po’ di primavera

Incontri a margine
la donna si disegna a mano libera
un albero illustrato cresce in fretta
e nei frattali a china
se stessa tracimare
lungo le linee di demarcazione
là dove il calendario è senza giorni
dove ci si può amare evanescenti
nelle spirali di parole eccentriche
perdutamente vivi
nei mille ghirigori d’una stanza

A fil di tempie
donna di poca fede: casa e casa
datata nel cerchietto all’anulare
quasi erasa
ha bagliori soltanto e un sonno alterno
foriero di scompensi nevralgici

sibille alternative rimescolano il cielo
qualcuna è una fontana
di versi esposti al sole

Misure approssimative
… ora che ho smesso
di vivere da donna, di sospettarmi umana

un ciottolo di riva
ha secoli per farsi levigare
noi che ci asporta un po’ alla volta il male
l’intimità dei corpi _conchiglie senza mare_
forse sappiamo l’infinito
ridotte all’essenziale

Di genere
…in quel vuoto che ci faceva donne sconsolate
si vive per i figli e per mille altre ragioni
cicatrici ipertrofiche a ricordo
il corpo in astinenza d’emozioni
la giovinezza estinta prima che fosse tempo
io scrivo donna
senza cancellature o pentimenti
in lingua femmina
(di maschi è stato scritto per i secoli)
e mi dichiaro fiera
per quanto mi si dica circoscritta
di tanta mia esistenza al femminile

L’inizio presuppone l’infinito
perché la fine è un cambio di stagione
ci sono armadi in terra
e armadi in cielo
al termine dell’aria

A fidarsi delle prime strofe
…si può abitare di necessità
soltanto l’aria
i suoni adunchi pronunciano dinieghi
ma lei non è capace di morire
e nemmeno sparire

nessuna luna in fondo a mille pozzi
solo barattoli di donna
dalle etichette sorridenti

cristina bove

Annamaria Ferramosca “TRITTICI”

1 settembre 2016

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Quando Annamaria mi comunicò che aveva tratto da alcune mie immagini ispirazione per i suoi versi, ne fui felicemente sorpresa; lo fui ancora di più nel leggere in anteprima la poesia scaturita da “Il Volo”: la sua capacità di trarre dal segno il compendio di una vita, il suo sguardo che tramutava forme in parole, in un coinvolgimento artistico e sororale, mi commosse profondamente.

Il suo progetto mi piacque moltissimo, felice che le mie opere fossero accostate a quelle  di Frida Kahlo, Modigliani, Laglia,  felice che dai colori prendessero vita le sue parole, e che da un’arte visiva ne scaturisse un’altra di così densa espressività.

Questa plaquette ne è la realizzazione  che racchiude, letteralmente, la policromia delle forme e l’arcobaleno del verso, un volumetto prezioso nella sua veste grafica e materica, come ne dice con passione e competenza Antonio Devicienti  nella sua splendida recensione su Carteggi letterari, recensione che invito a leggere perché esaustiva oltre che appassionata.

Nello sfogliare le pagine ho avuto la sensazione che queste si dilatassero in spazi espositivi di un piccolo, ma straordinario, magico museo, misteriosamente variopinto e animato.

Un luogo in cui si può scoprire d’essere, contemporaneamente, bambini attratti dalle luci e adulti  in ammirazione estatica.

Le mie impressioni di lettura sono dettate non solo dalla stima che ho per lei come poeta, ma anche dall’amicizia che ci lega, perché Annamaria è una persona speciale, attenta e generosa, uno spirito libero che spazia alla ricerca del bello, che le fa scoprire nelle altrui espressioni artistiche coloriture esistenziali, che le permette di trasformare la visione in parola, come in un processo alchemico: la sua mente un atanor in cui si fondono elementi diversi e variegati per essere trasmutati nell’oro della poesia.

cristina bove

                                
                                

 

 

“Esporre il proprio io al contagio di un altro io perché scaturisca un noi senza precedenti, una pluralità umana solo transitoriamente oggettivata nella figura creata dagli artisti”
(dalla prefazione di Maria Teresa Ciammaruconi)

                                        

                                                      

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in magnetico ascolto del mio colore
stai traducendo questa rassegnazione
ti parlo in silenzio azzurro senza pupille
[…] Pag 11
(Amedeo Modigliani –Elvira che riposa a un tavolo)

 

 

[…] il viso per metà iluminato
di una luna stranita
semisapiente luna
che per metà mi stordisce d’estro
per metà solleva le acque
[…] pag 23
(Frida Kahlo –l’amoroso abbraccio del’universo, ecc…)

 

                               

[…] e voci calde dei raggi dietro le nuvole
inconsapevoli di irradiare amore
lei sospesa nell’ascolto battente
– la pioggia scandisce sillabe sul tetto –
[…] pag 27
(Cristina Bove – Il volo- computer Art)

                                   

[…] il sogno è un muro bianco
che mi separa da me stessa
aspetto che dilegui
resto seduta disarticolata
in pianto trattenuto
[…] pag 39
(Antonio Laglia – Claudia, pastello su carta 1981)

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L’autrice dei testi

Annamaria Ferramosca
Nata a Tricase, da molti anni vive a Roma, dove, in contemporanea con la dedizione alla scrittura poetica,ha lavorato come biologa nutrizionista nella ricerca. Ha ricoperto l’incarico di cultrice di Letteratura italianaall’Università Roma3. Fa parte della redazione del portale poesia2punto0.com, dove cura la rubrica non autoreferenziale Poesia Condivisa, di cui è ideatrice.
Finalista ai premi Camaiore, LericiPea, Pascoli, Lorenzo Montano, è vincitrice dei premi Astrolabio, Guido Gozzano, Renato Giorgi. La sua voce registrata è inclusa nell’Archivio delle voci dei Poeti di Firenze.
Ha pubblicato nove raccolte di poesia, tra cui la più recente è la plaquette d’arte Trittici—Il segno e la parola, DotcomPress Edizioni. E’ del 2014 Ciclica, La Vita Felice, collana Le voci Italiane, introduzione di Manuel Cohen.
Nel 2009 le è stato pubblicato, da Chelsea Editions di New York, il volume antologico bilingue Other Signs, Other Circles –Selected Poems 1990-2009, collana Poeti Italiani Contemporanei Tradotti, introduzione e traduzione di Anamaría Crowe Serrano.
Altre sue raccolte edite: Curve di livello, Marsilio, collana Elleffe, a cura di Cesare Ruffato, 2006, riedito in ebook (www.larecherche.it) nel 2014; Paso Doble, poesie a quattro mani in italiano e inglese, coautrice Anamaría Crowe Serrano, Empiria, 2006, traduzione di Riccardo Duranti; Porte / Doors, Edizioni del Leone, prefazione di Paolo Ruffilli e traduzione di A. C. Serrano e Riccardo Duranti, 2002; Porte di terra dormo, plaquette, Dialogo Libri, 2001; Il versante vero, Fermenti, introduzione di Plinio Perilli, 1999, riedito in ebook (www.larecherche.it)nel 2015.
Nel 2011 Gianmario Lucini cura per le edizioni puntoacapo il quaderno monografico La Poesia Anima Mundi, con la silloge Canti della prossimità e con cd di letture dell’autrice.
E’ autrice antologizzata e suoi testi sono apparsi in numerosi siti web di settore, come poesia2punto0.com; la dimora del tempo sospeso; blancdetanuque; poetry-wave-senecio; carte allineate; la poesia e lo spirito; arcipelagoitaca; l’estroverso; fili d’aquilone; sulle riviste italiane Poesia, La Clessidra, La Mosca di Milano, Le voci della Luna, e in traduzione, su riviste straniere: Gradiva; Italian Poetry Revue (USA), Fire; Poetry Wales (U.K.) Salzburg Revue (Austria), Poezia (Romania), Poiein (Grecia).
Ha curato di recente la versione poetica italiana di poesie scelte del poeta romeno Gheorghe Vidican nel volume 3D – Gheorghe Vidican—poesie 2003-2013, CFR, 2015. Per quest’opera è stata insignita del Diploma di Eccellenza dal Ministero della Cultura di Romania.
Ulteriori notizie, testi e recensioni su www.annamariaferramosca.it
Per contatti: ferrannam@gmail.com
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I quattro artisti

Amedeo Modigliani, (Livorno,1884– Parigi,1920), è stato pittore e scultore. Formatosi in Italia a Livorno poi a Firenze e Venezia, a 22 anni si trasferì a Parigi, dove si affermò soprattutto per i suoi ritratti femminili dai volti stilizzati e dal collo allungato.

Frida Kahlo, (Coyoacan, 1907 – 1954) è stata una pittrice messicana. E’ divenuta celebre per i suoi autoritratti ispirati alle tradizioni popolari precolombiane, con i quali, ricorrendo a figure tratte dalle civiltà native, intendeva affermare la propria identità messicana.

Cristina Bove, Nata nel 1942, vive a Roma dal ’63. Artista poliedrica, si occupa di pittura, scultura, arte digitale, fotografia, e scrittura. Ha pubblicato libri di poesia e narrativa e cura alcuni blog di poesia in rete.

Antonio Laglia, nato nel 1953, vive e lavora a Roma. Pittore della scuola romana, è stato allievo di Alberto Ziveri. Ha tenuto negli anni numerose mostre personali e conseguito importanti premi e riconoscimenti.

Cristina Bove

26 ottobre 2015

Procede, s’insinua e incede, a passi di varia danza, per incisione o sfondamento, la savia ribellione di Cristina – conscia scissura e autonoma armonia – nell’equilibrio, esperto del bilico perenne, tra “il baleno della volpe argentata e il disossar parole”. Anna Maria Curci

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Sono poesie della distanza, dell’addio, del rimpianto, della consapevolezza. Tutto duole già stimato, filtrato, osservato bene. Si oppone ferma e vigile la resistenza di un cuore che batte oltre lo “schermo” di separazione fatta d’impossibilità: il tempo, lo spazio, il corpo come confine, frontiera con una lacerazione insormontabile che non può, non vuole, non deve tacere. Una terra di mezzo che si fa di nessuno, nemmeno della voce che acuta ne esce con un grido (modulato ma grondante di dolore). Liriche a distribuire per capi d’imputazione amore, bene, arbitrio, quello che concerne una vita che si fa vita di tutti. Doris Emilia Bragagnini

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Cristina Bove

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Cadenze selvatiche

Le volpi hanno la tana
in luoghi d’ombre folte al nero seppia
costringeva la notte e andava scritto
indorando la pillola
a trangugiarla in fretta tra una spina di rovo
e un’assonanza aspra
sempre la stessa: ne ho confezioni piene
da terapia di giovinezza cronica
le volpi, si diceva, hanno la tana
a mezzanotte, è quella l’ora
basta un attimo dopo e il sottobosco
sparisce con un tuffo nella neve
____________ quelle argentate
han vita breve, finiscono in disparte
come piccole lune tra ramaglie

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Dissezione

Non potrò dimostrare la scissura
che ci separa
una di me sfarfalla
e senza età senza quadri d’assieme
con occhi mare e guance di velluto
audace il piede danza
l’altra si accumula di neve
arranca sulla scala
________ ma non lo fare dicono
potresti traballare sui pioli
l’una che ride e si scatena a tempo
l’altra che accusa il tempo
non so quanto resisterò fra queste due
in bilico sul filo d’una lingua
sconquassata nel centro
pare facile dirlo in fondo è un muto
disossare parole
il centro è vuoto

*

Anima mia per tutto quell’azzurro

che non ti posso contenere in petto
il tempo non si adatta al tempo
la luce sopravanza alla sua luce
tu mi percorri d’apparenze immobili
mi declini nel verbo e nell’esistere
___________ è la linea che conta
e quanto più veloce s’allontana
quanto più non trattengo altro ricordo
più mi fiorisce in esistenze ignote
se mi disperderai
ossa per ossa – battiti di sangue
ti farò dono di serate docili
d’ombre sorprese dal precipitare
in zone di frontiera
il coraggio di vincere i miei anni
e amare ancora

*

Stanza come un teatro greco

Se per un giorno
uno soltanto che sono ancora bella ma non tanto
– ché le finestre specchiano il domani
in profezie di cedimenti –
se per un giorno
scrivessi a piuma d’oca le mie spalle quel tanto
da dirsene uno strano
settembre mai raggiunto
se per quel giorno
dovessi confessare un nome lancinante
usa ancora una maschera
ma sceglila che pianga nell’arena
come un dio disperato
un dio che muore

*

Pronuncerebbe se

di sera
ai custodi dell’età che incalza
tiene il discorso per metà
per l’altra ha piroette inventate lì per lì
guardala che s’impelaga la voce
ha ricadute in fissità
suona palude
proprio in questo momento che non sa
lo stratagemma del creare
avendone occasione se di fischiare accenna
trascrizione di versi in dettatura
non crederanno vera
se tentasse la via delle lavagne esperte
e in equazioni si esponesse
per quante spiegazioni avesse fiato
dai congiuntivi oppressa
si condizionerebbe a
l’arte della dimenticanza

*

Nessun traguardo, solo percorrenze

la distanza dai miei occhi ai miei piedi
è uno spazio infinito
dovrò passare sul mio corpo per
guadagnare l’uscita
semplice no? Basta atterrarmi
e invece d’afferrarmi alle giornate
abbandonare il sasso
il fuoco
il nugolo di cielo che m’incanta
e percorrermi tutta
– chissà quanto misura un’illusione –
oltre la mente affiora intanto un gesto
ravviare i capelli della luna
come fossero miei
è segnale d’arresto un reumatismo
anche un’indigestione
mi sovvengo di porri e peperoni
che non fanno poesia ma fanno il resto
e oso
farli complici esperti d’un addio
dalla testa all’ignoto

*

La mia faccia

poche o tante le strie non ha importanza
segnano i giorni d’ogni mio vissuto
non dico volto, quello sa di giro sul collo
io dico faccia
in questo mi rifletto, sono scritta di fronte
fino al mento
per chi volesse leggere.
Vedevo al molo di Posillipo
barche nuove con nomi sfavillanti
ma i fasciami di quelle capovolte
un senso di mistero alla bambina
e
come nei film rivisti tante volte
quando speri l’assurdo del cambio di finale
la volontà ridisegnava illogica
i colori del corpo nelle onde
adesso il viso.

*

Lathe biosas

Il sonno è parte della verità
disgiunge il corpo dai suoi vizi e virtù
l’innocenza è sparire.
La mia tunica ha trama di velario
sfalsa sulle caviglie
nel silenzio del passo.
Se poi la poesia è un’effige
una sequenza di parole in mostra
resto nascosta
sconosciuta a chi passa.

*

*

Cristina Bove è nata a Napoli il 16 settembre 1942, vive a Roma dal ‘63. Ha cominciato da piccolissima a disegnare, a nutrire la passione per la lettura. In seguito si è dedicata alla pittura, alla scultura, e alla scrittura.  Negli ultimi tempi si esprime soprattutto in poesia, molti suoi testi formano le sillogi di quattro raccolte già pubblicate. Scampata più volte alla morte, ha grande comprensione per chi soffre, nel fisico e nella psiche. Crede nella libertà e nella giustizia, pensa che il rispetto della diversità sia un valore fondante tra gli esseri umani e ne sia inestimabile ricchezza. È alla costante ricerca del significato di questo infinito mistero in cui si sente immersa e partecipe. Ama la vita, i suoi cari, e tutti gli esseri umani dal cuore buono e dalla mente aperta. Considera la poesia un linguaggio universale, l’esperanto dell’anima.
Scrivere è per lei una sorta di rispetto per la propria e altrui memoria, un fissare con la parola il pensiero affinché non si disperda, e renda sacralità alla vita.
Ha pubblicato tre raccolte di poesie per la casa editrice Il Foglio Letterario:  Fiori e fulmini (2007), Il respiro della luna (2008),  Attraversamenti verticali (2009).
Per la casa editrice Smasher Mi hanno detto di Ofelia (2012) e il romanzo Una per mille (2013) ,
L’ebook Metà del silenzio (2014) per le Edizioni PiBuk.
È presente in diverse antologie: Antologia di Poetarum Silva (a cura di Enzo Campi), Auroralia (a cura di Gaja Cenciarelli), La ricognizione del dolore (a cura di Pietro Pancamo), Antologia del Giardino dei poeti (a cura sua e di altri poeti). Sotto il cielo di Lampedusa – Annegati da respingimento (a cura di Pina Piccolo – Rayuela), Cronache da Rapa Nui (a cura di Gianmario Lucini – CFR edizioni)
E in alcuni siti, tra cui: La poesia e lo spirito, La dimora del tempo sospeso, blancdetanuque, Neobar, Filosofi per caso, Viadellebelledonne.

Il suo blog  “ancorapoesia” e il suo “giardino dei poeti“.

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