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Massimo Botturi

14 dicembre 2012

La poesia che risorge di continuo, come una fenice,
dalle pulsioni sensoriali e,
attraversando gli strati più profondi del sentire,
si fa parola evocatrice,
sussurrata a volte nella sontuosità dell’immagine.

PRAGA 149b

La poesia di Massimo Botturi è carnale e concreta: Le parole sono “primipare d’autunno / con sandali d’estate” e l’uomo chiede: “tu toccami un poco, ma decisa… disegnami… cosicché nella carne e nel sangue io le senta; / quelle tue dita fatte a sambuco / quel levare che è tipico di grande pianista / o seduttrice”.
“In corpo il fuoco / che cresce nei ragazzi / e non ne sanno il nome”.
“Il giorno che volevi contare / alle tue amiche / di avere fatto perle di sangue tra le gambe / prendendoti un ragazzo nel letto”.
Sensualità senza compiacimento, nitida e pulita, che diventa poesia facilmente perché appigliata su una semplicità del dire che osa una strana innocenza disarmata e disarmante. Ma c’è anche la tenerezza, già raramente esplicita nella poesia al femminile, che per tradizione dovrebbe maggiormente tendere al sentimento rispetto a quella maschile: oggi non “usa” e subito chi legge accusa di sdolcinatezze, figuriamoci se a esprimerla è un poeta. È per questo che la tenerezza dell’amore nuziale in Botturi è contenuta, ma presente dall’interno:
“Tienimi desto quando nel sonno parli sola / e cerchi il tuo rosario smarrito /…  sotto il letto” . “Bastava del sapone avanzato / un pettinino / il suono sdolcinato di un sabato in balera”. ” Sarò là / a togliermi dagli occhi la goccia che pulisce “.
Ora la tenerezza è un valore, sebbene lo diciamo con discrezione, quasi sottovoce, ma comunque in essa c’è una componente materna, di cura dell’altro e accoglienza in ogni rapporto passionale che osi diventare amore appigliandosi nella carne e nel cervello, ma anche nell’anima.
E simultaneamente la carnalità è un valore, direi che si mescolano benissimo potenziandosi vicendevolmente.
Poesia moderna, quindi, in grado di non forzare il proprio stesso stile e corrispondente ai canoni attuali di nudità espressiva.

Domenica Luise

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DOPO ME

Ti metto due parole spugnate
gonfie d’uva
primipare d’autunno
con sandali d’estate.
Le poggio come certe canzoni nell’orecchio
entrate la mattina ed uscite tardi, a sera.
Le svolgo come carta dorata su un regalo
fino a centrarne spigoli e corpo
ché le veda, tu mentre fai distinguere
agli occhi il nodo smosso.
Ti accendo due parole recapitate a bocca
girate come certi dolcetti nelle feste;
toccate nel midollo e la scorza
ben spremute
quasi un’essenza d’olio sui gomiti e i calcagni.
Dopo lavata in acqua di uomo
dopo un tango
uno stecco di vaniglia tra i denti.
Dopo me.

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DARKNESS

Tu, toccami un poco, ma decisa
dovessi mai svanire da questo viaggio cieco.
Fa che nemmeno un prato mi perda
quando luce, come partisse in guerra
mi chiede fazzoletti
e cinghie per legare le poche bende chiuse.
Disegnami ché vedi sul foglio della schiena
così che nella carne e nel sangue io le senta;
quelle tue dita fatte a sambuco
quel levare, ch’è tipico di grande pianista
o seduttrice.
Tienimi desto
quando sui fianchi hai un nuovo fiore
quando per piogge troppo melense
tutto è raso
e levigato come un ginocchio di bambino.
Tienimi desto quando nel sonno parli sola
e cerchi il tuo rosario smarrito
i pochi grani, del filo delle perle strappato.
Sotto il letto
le ho udite scivolare come ramarri in fuga
le ho viste come nottole dentro le feritoie.
Le ho viste come fruste abbattute sul leone.

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E NON NE SANNO IL NOME

Un tempo, sbevazzare era tutto quel che avevi.
Un Cine,
qualche volta in un anno,
sedie al muro;
l’intonazione lenta e precisa degli anziani.
Un tempo le comprasti un vestito coi risparmi,
teneva dentro i fiori di scorse primavere,
l’elastico nei punti più giusti
scollature
soltanto nell’abisso del tuo pensarla nuda.
Un tempo le pulisti i ginocchi
e altre notizie:
un cioccolato bianco dal resto dell’Europa.
Il mondo era un oceano di carta scritta, densa
e voi gli analfabeti scappati da un cortile
per annunciare d’essere sparsi in mezzo al fieno;
su un letto di granaglie
alle tette delle stelle.
Un tempo che risorgere non ci mettevi niente
bastava del sapone avanzato
un pettinino.
Il suono sdolcinato di un sabato in balera.
La bicicletta a braccia di melo
in corpo il fuoco
che cresce nei ragazzi,
e non ne sanno il nome.

.

LA TENEREZZA

Che tenerezza la pelle d’oca, amore.
Che tenerezza che tu ostini ancora
a metterti soltanto una nuvola ai ginocchi;
tirandoti una gonna finita un po’ più giù
come le signorine nei bar
o nella piazza, sopra le grate
dove c’è l’aria che le spegne.
Che tenerezza se metti sul sedile
il piede per tagliarti le unghie,
e quelli fuori,
cominciano a guardare fino alla concessione.
E vanno lenti dopo i semafori, distratti
partecipi di quello spettacolo ch’è meglio
dei manifesti finti della reclame sui muri
dove culetti anonimi stan su con niente
e tutto, ci fa sembrare facile e comoda la vita.
Che tenerezza quando ti porti uno spillone
per dimezzare il cielo tra i seni
lì al lavoro, che cento occhi fanno i capezzoli
sciupati
e doloranti ora di sera.
O le ciabatte
per disertare i tacchi quando sei sola e stanca
e sotto poi ti sventoli come d’estate al mare.
Che tenerezza quando ti metti un fazzoletto
nel retro di una manica lisa
e poi ti giri, per stare sola con il tuo naso
e il tuo rumore
di fumatrice quasi pentita.
Si, mia cara, la tenerezza è un’arte
che non si impara a scuola;
l’ho vista sulla schiena una volta
ti lavavo
là dove non arrivi e non lo sopporti.
Sai, aveva la nigrizia di un neo,
la punta d’oro
e mentre respiravi, mi sorrideva
si.

.

QUESTIONI FISIOLOGICHE

Io lo so.
A ottantacinque anni suonati
sarò ancora
là sulla porta a ridere dentro.
Per te, nuda
il giorno che volevi sposarmi
e avere un figlio.
Il giorno che volevi contare
alle tue amiche
di avere fatto perle di sangue tra le gambe
prendendoti un ragazzo nel letto.

Sarò là,
a governarmi tutto il vespaio
della vita.
A togliermi dagli occhi la goccia che pulisce.
Questioni fisiologiche, certo
che cos’altro?

.

Massimo Botturi dice di sé:

Sono nato il 31 marzo del 1960, in un comune dell’hinterland milanese.
Erano gli anni del “miracolo economico” e i miei genitori pura statistica delle migrazioni interne. Migrazioni da est a ovest, troppo spesso dimenticate, o sottovalutate. Comunque sia, a casa mia la letteratura era roba al massimo chiusa nei libri di scuola, accuratamente toccati con i guanti perché non si sporcassero.
Il meglio delle mie letture, si riduceva a una sbirciatina serale al Corriere d’informazione, qualche notizia di sport, qualche autografo di Rivera, che non ho ancora capito quanto fosse autentico, o semplicemente un autentico tentativo di mio padre di indorarmi la pillola amara dello stare solo fino a sera tardi.
La poesia l’ho ignorata fino alle scuole superiori, complice un professore comunista appassionato dell’antologia di Spoon River. La sua capacità di eloquenza, il fascino con cui trasmetteva quelli che considerava valori universali e fondamentali, stimolarono in me i primi tentativi di comunicare, a mio modo, un mondo interiore in continua turbolenza. Imparai quattro accordi di chitarra, e a buttarci sopra pseduo canzoncine d’amore, e di disperazione.
Fine dei giochi con il servizio militare, vera tabula rasa di ogni velleità non solo scribacchina, ma anche di studio. Tornai nauseato, con qualche poesiola piena di rabbia e rancore nei confronti di un sistema che non sentivo mio, che non sentivo per nulla a misura d’uomo. Poi il lavoro, rullo compressore, schiacciasassi.
Buio completo fino a 40 anni. Un tentativo di mobbing male riuscito e la riscoperta di un po’ di tempo per me stesso, mi riaccesero la voglia di scrivere.
Internet, i siti di scrittura, il confronto, l’incoraggiamento; questa fu la vera miscela che innescò una passione per lo scrivere, con una certa continuità intendo.
La vanità ora era spinta al massimo, nel 2003 risposi alla sirena di un editore, il primo libro, nessun contratto, nessun obbligo di copie. Puro piacere di divulgare.
Il fattore sorpresa mi giocò a favore, il libro lo vollero in molti, oggi sorrido alla maggior parte di questi testi, ma erano me allora, e ci sono molto affezionato.
Ho pubblicato altri due volumi negli anni successivi, con più maturità nella scrittura ma anche molto disincanto nei confronti dell’editoria.
Nel maggio di quest’anno è uscito l’ultimo lavoro “Il posto delle fragole” natosotto lo stimolo e la supervisione dell’amico Menotti Lerro, per la Genesi editrice di Torino.

Curo un blog massimobotturi.wordpress.com, dove pubblico e interagisco con una piccola comunità di amici e lettori.