Danilo Mandolini, Anamorfiche, Arcipelago itaca 2018
Recensione di Anna Maria Curci
Percepire dimensioni e condizioni dentro e fuori di noi, rendere queste percezioni è impresa costretta all’angolo, in un angolo limitato, se essa non abbraccia la pluralità di prospettive.
A questa condanna alla limitazione deformante, a questa proposta di apertura di prospettive fa riferimento, già nel titolo, Anamorfiche di Danilo Mandolini (Arcipelago itaca 2018), raccolta della quale, nel mese di marzo 2018, sono apparsi alcuni testi in anteprima su Poetarum Silva.
Oltre ad essere, dunque, proposta di apertura alla percezione e alla restituzione di diverse sfaccettature, della pur minima differenza di sfumature, Anamorfiche è proposta di apertura al superamento del limite individuale attraverso una ‘sinfonia psichedelica’ che si articola in numerose sezioni, alcune delle quali portano proprio il titolo di «psichedelie».
Dopo un’introduzione, che ha il titolo Altrove e un tono che sarebbe sbrigativo e ottusamente tranquillizzante definire apocalittico, tanto realistica è la descrizione della istupidita acquiescenza con la quale gli individui, tappati in case ammucchiate in un conglomerato urbano che inghiotte, novello Crono, qualsiasi forma di comunità, accolgono l’orrore del disgregarsi, parte la prima sezione di Anamorfiche, intitolata, appunto, Psichedelie dei rumori, delle voci, dei suoni e dei silenzi.
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